Ti accorgevi che l’estate volgeva al termine quando cominciavano a cadere le foglie e nei rioni comparivano certe tende ai garage, che proteggevano da mosche, zanzare e sguardi indiscreti il rito della salsa che vi si celebrava.
Farsi la salsa in casa è stato forse l’ultimo sussulto, l’epifania estrema di una civiltà contadina che ormai non esiste più.
La tradizione è stata sommersa dai discount. Proprio oggi ho trovato nella cassetta postale il volantone che pubblicizza il prezzo di una bottiglie di salsa di una nota marca parmigiana: 79 centesimi.
L’industria sconfigge l’artigianato. A volersela fare da soli, oggi, la salsa costerebbe di più (un chilo di pomodori freschi al mercato lo paghi 50 centesimi…) e non offrirebbe le garanzie di igiene e di qualità garantite dalla pastorizzazione industriale.
Eppure la tradizione resiste, sparuta, soprattutto nei rioni popolari di periferia, dove assieme alle case si costruivano anche i box, ampi e spaziosi, che consentivano di lavorare con comodo quando era il momento, e di custodire nel periodo invernale la voluminosa attrezzatura necessaria per la salsa, oltre che i vasetti e le bottiglie adibiti a contenerla.
In realtà fare la conserva non era soltanto un modo ingegnoso per avere a disposizione la salsa per tutto l’inverno.
Era un momento che riuniva tutta la famiglia, e sospetto che sia questo il motivo per la salsa è prerogativa delle mamme, come mia suocera, che si è ostinata a celebrare questo rito, che coinvolgeva la famiglia allargata, fino a quando le forze glielo hanno consentito.
Battagliera dirigente sindacale per tutto il resto dell’anno, quando arrivava la fine di agosto, dedicava gli ultimi scampoli delle sue brevi vacanze estive a preparare la salsa. In quantità industriale, visto che doveva servire a diversi nuclei familiari, almeno tre. Il rito si svolgeva generalmente in quel di Cerignola, dove la casa era meglio attrezzata, disponendo di un ampio giardino.
Il vivere contadino era fondato su una rigorosa divisione dei compiti. E così alle donne era riservata la materiale preparazione della conserva, mentre gli uomini si occupavano delle incombenze che richiedevano un maggiore sforzo muscolare: trasportare le cassette, riempire e svuotare la caldaia, badare al fuoco. Si lavorava tutti assieme, parlando, scambiandosi battute e divertendosi… E la sera si ceneva con un piatto di spaghetti conditi dalla salsa di pomodoro fresco, appena pronta, dal sapore impareggiabile. Era un rito fortemente condiviso: temo che oggi – oggi che non si parla più ma si chatta e si sta collegati ai social perfino durante il pranzo – sarebbe pesantemente condizionato da Facebook…
Come ogni rito che si rispetti, la preparazione era scandita da fasi e momenti precisi, oggi si direbbe step. Per ottenere il risultato migliore, era necessario che ogni passo venisse eseguito correttamente. Se il meccanismo s’inceppava, o se qualcuno veniva meno al ruolo che gli era stato assegnato, ne risentiva tutto il processo.
Non a caso, quando si parla di società e cultura contadina, li si definisce “organiche”, nel senso che ogni sua componente viveva in un rapporto di stretta relazione con le altre, come se si trattasse di un organismo vivente.
Nel caso della salsa, parlare di rito non è solo una metafora.
Vedremo domani le diverse fasi che lo componevano.
Geppe Inserra
(1. continua)
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