Mette le ali il sogno di un sempre più folto gruppo di cittadini foggiani (il cui portavoce è Giovanni Cataleta) e di Lettere Meridiane, di far rivivere il Palazzo imperiale di Federico II a Foggia utilizzando il format artistico già sperimentato con successo alla basilica paleocristiana di Siponto.
Migliaia le letture, le condivisioni e i like all’articolo in cui abbiamo illustrato l’idea, mentre ha raccolto quasi mille firme in un solo giorno (se non avete ancora sottoscritto, potete farlo cliccando qui) la petizione on line lanciata dal nostro blog per chiedere ad Edoardo Tresoldi, autore della straordinaria installazione sipontina, di prendere in esame la possibilità di firmare anche la resurrezione della domus fridericiana di Foggia.
Ma com’era il Palazzo foggiano dell’imperatore svevo che venne definito stupor mundi? Dove sorgeva esattamente, visto che oggi non restano che il grandioso arco d’ingresso e la lapide che l’adornava?
Tra i documenti più interessanti – dettagliato ma al tempo stesso sintetico – che siano stati scritti sul palazzo imperiale di Federico II c’è questa scheda del compianto Savino Russo, comparsa nel volume Saluti da Foggia – Guida della città, edito dalla Provincia di Foggia e dal Cenacolo Culturale “Contardo Ferrini”. Una buona lettura per approfondire la conoscenza del gioiello che speriamo di vedere ricostruito. Buona lettura.
Nel mese di marzo del 1223 Federico II dà ordine al protomagistro Bartolomeo da Foggia di dare inizio alla costruzione del palazzo imperiale di Foggia, che sarà edificato a partire dal mese di giugno dello stesso anno.
L’avvenimento è ricordato da una lapide, posta al centro dell’arco superstite dell’antica reggia, murato su un fianco del Museo civico dopo l’ultimo conflitto mondiale. L’arco e la lapide con la sua iscrizione sono le uniche testimonianze che oggi parlano ai foggiani dell’antico splendore di quel palazzo imperiale.
La reggia federiciana si estendeva su una superficie considerevole, che da molti storici e studiosi viene situata nello spazio tra via Arpi, il Piano delle Fosse, vico Teatro, piazza Cesare Battisti, piazza Oberdan, l’ultimo tratto di corso Vittorio Emanuele II e piazza Federico II. Verso quest’ultima è plausibile ubicare la presenza di una vasta zona di giardini abbelliti da fontane e piscine ornamentali, servita da un pozzo che, per quanto la sua attuale struttura risalga a tempi molto più recenti, è ancora oggi visibile nella sua originaria ubicazione. Sorprende che di un complesso che doveva essere di notevoli dimensioni, destinato com’era ad ospitare una corte nutrita come quella dello Svevo, non ci sia rimasto che un arco ma, se almeno la parte visibile del palazzo è persino “normale”, per certi versi, che sia scomparsa, perché volutamente lasciata decadere (la damnatio memoriae, la dispersione di ogni traccia della memoria del nemico vinto è una pratica molto frequente nella storia), sembra poco probabile che di quella costruzione non sia rimasto più niente. Le recenti scoperte di ambienti e strutture medievali proprio nella zona in cui il palazzo era presumibilmente ubicato lasciano sperare più clamorosi sviluppi.
Se numerosi sono i documenti che testimoniano le frequenti presenze dell’imperatore nel palazzo di Foggia e quali e quante decisioni vennero prese tra le sue mura, non molte notizie si hanno su quale fosse l’aspetto della reggia. Si può ragionevolmente ipotizzare che le sue sale fossero arredate con grande impiego di marmi e con sfarzo e che molti ambienti dovessero essere adibiti ad accogliere i tesori della corona, le collezioni d’arte, la biblioteca dell’imperatore. Un’ala del palazzo doveva essere adibita ad ospitare il celebre harem di Federico (da un documento risulta che l’imperatore stesso si preoccupava di rifornire di preziose vesti le sue favorite), quell’harem che tanto scandalo suscitava in Isabella d’Inghilterra – che visse la sua infelice vita coniugale umiliata e in disparte, isolata dagli splendori e dagli eccessi della corte sveva – e che aveva tentato (inutilmente) a Foggia Tommaso d’Aquino e, a Bari persino (pare) Francesco d’Assisi.
Altri documenti riferiscono delle personali cure dell’imperatore nel rifornimento della dispensa e delle cantine del palazzo: ordina di far pervenire al cuoco di corte i pesci migliori del lago di Lesina per preparare lo scapece (pesce fritto e marinato nell’aceto) e la gelatina; scrive al maestro camerario Riccardo di Pulcaro perché provveda all’invio di litri e litri di vino greco, grecisco, fiano, gaglioppo. L’imperatore era sobrio nel mangiare e nel bere ma, tra suoni, canti, danzatrici esotiche e giocolieri, amava intrattenersi a tavola, attorniato dalla sua corte. Se non c’era Michele Scoto ad inventare qualche magia (si racconta che una volta abbia fatto comparire a tavola pietanze che lì per lì aveva fatto volar via dalle mense dei sovrani d’Europa e che un’altra volta “improvvisò” un tremendo temporale sul palazzo e sulla città) l’imperatore prediligeva ascoltare i componimenti dei poeti della sua corte, o poetare egli stesso.
La scuola poetica nata intorno a Federico, tradizionalmente definita siciliana, per la verità ha ben poco di strettamente siciliano, se non per le origini isolane di qualcuno dei romanzaturi federiciani e per certe assonanze con l’idioma siculo. Essa raccoglieva, infatti, personaggi della più varia provenienza geografica e, se è certa l’influenza del dialetto siciliano sulle composizioni poetiche della corte sveva, altrettanto a buon diritto si può sostenere la tesi (e documentarla, come hanno fatto autorevoli studiosi) che anche il dialetto dauno ha avuto la sua parte nell’influenzare, nel “contagiare” il linguaggio di questa scuola che contribuì alla crescita della “lingua nuova”.
Analogo orgoglio di campanile possono provare i foggiani a proposito della scultura federiciana: pur ammettendo che nel nuovo stile – per molti versi protorinascimentale soprattutto per i suoi caratteri di forte realismo – pesarono influenze d’oltralpe, in particolare attraverso l’impiego di maestranze che già avevano lavorato in ambienti cistercensi (a Castel del Monte ma anche a Santa Maria di Ripalta, presso il Fortore), non si può sottacere (e, in genere, non è sottaciuta) l’importanza di un personaggio come Bartolomeo da Foggia, l’autore del residuo portale del palazzo imperiale e del brulicante cornicione e (forse) del portale di San Martino della cattedrale di Foggia.
La fecondità d’invenzione, la duttilità di virtuosismo, la capacità di elaborare originalmente l’esperienza classica e quella gotica, quella romanica e quella orientale, fanno di Bartolomeo il capostipite di quella generazione di scultori che, formatisi alla corte dello Svevo (più che formati: modellati, secondo l’audace intuizione del Bertaux che considera Federico il solo grande scultore, il creatore senza scalpello di una nuova plastica), daranno origine a quella nuova arte che in Toscana troverà altri fecondi esiti con Nicola Pisano, la cui formazione nell’ambito pugliese è indubitabile. Accanto a Bartolomeo vanno ricordati anche suo figlio Nicola (l’autore del celebre pulpito del Duomo di Ravello), i cui esordi artistici sono legati ai quattro splendidi capitelli della cripta del Duomo di Foggia, e quella dinastia di scultori che, partendo da Riccardo da Foggia (che fu anche architetto e lavorò alla costruzione dei castelli di Trani, Lucera e Melfi), si espresse attraverso l’arte di Gualtiero e di Paolo di Gualtiero da Foggia.
Savino Russo
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