Quando un posto in cui hai vissuto momenti belli e importanti della tua vita cessa di esistere, è come se una parte di te stessa venisse meno: d’ora in poi non potrai tornare in quel posto se non con la memoria che diventerà sempre più sbiadita. Non potrai più portarci figli e nipoti e raccontare loro: “Io, qui, un giorno…”
È così che l’urbanizzazione trasforma le città in tristi ed anononime sequenze di grigie scatole di cemento.
Il posto che mi manca più di tutti è quello che vedete nella foto sopra: il cinema Diana di Troia, e chissà quanti troiani, tra i più giovani, lo riconosceranno. Era uno dei più grandi, moderni e confortevoli dell’intera provincia, ma ha seguito la sorte di tantissimi altri cinematografi della provincia di Foggia: l’avvento della televisione prima e delle multisale poi ha reso obsoleti i cinema di provincia e tutti, o quasi, sono stati sostituiti da palazzi, banche, uffici e via dicendo.
Al cinema teatro Diana di Troia sono particolarmente affezionato, perché è qui che è nato il mio rapporto ormai pluridecennale rapporto con la città del rosone e soprattutto con i suoi meravigliosi abitanti.
Una storia cominciata per caso, quando Vincenzo De Santis, vulcanico tipografo, giornalista, editore e all’epoca dei fatti responsabile della Pro Loco, invitò me e la mia compagnia teatrale, la Comunità Nuovo Teatro, a mettere in scena Cinque serpi in cambio di un impero, dramma storico di un grande scrittore e cultore di cose locali, quale Vincenzo Bambacigno.
Nella messinscena, diretta da Edgardo Longo indossavo i panni di Riccardo Fiamma, un umile ciabattino, marito di Lucinda Del Gaudio, l’eroina del dramma, interpretata da Marina Vitone.
Bastò la prima battuta – e l’istantanea reazione del pubblico – a rivelarmi l’anima profonda e particolare, disincantata e dissacrante dei troiani.
Ad aprire la recita era proprio Riccardo, che si presentava in scena offrendo i propri servigi in strada, in dialetto troiano: “U cconza scarpe, u cconza scarpe… Chi ten scarpe d’accunzà?!”
Avevo scrupolosamente provato e riprovato la battuta direttamente con Vincenzo Bambacigno, che mi aveva pazientemente spiegato come la “a” finale si dovesse pronunciare chiusa.
Non avevo mai recitato in dialetto, figurarsi poi in un dialetto non mio, come quello troiano.
Quando si aprì il sipario confesso che mi prese una certa emozione per quella battuta dialettale. Comunque, entrai in scena e la pronunciai, così come mi aveva spiegato Bambacigno: “U cconza scarpe, u cconza scarpe… Chi ten scarpe d’accunzà?!”
La risposta del pubblico non si fece attendere, e su come dovente accade a Traoia quanto mai salace: “Je tenesse na mezza sol…” e via risate generali. La cosa non mi turbò: anzi quella battuta mi dette coraggio perché voleva dire che gli spettatori avevano capito il mio dialetto. E mi dette modo di capire ed amare lo speciale modo d’essere degli ineffabili troiani, magnifici, stupendi figli di Troia…
E allora mai come oggi, la colorizzazione delle foto antiche che sta occupando l’estate di Lettere Meridiane mi provoca il classico groppo al cuore: è come se il passato tornasse a colorarsi. Come se il Cineteatro Diana (che vide la Comunità Nuovo Teatro tornare a Troia anche l’anno successivo con Terrore e miseria del Terzo Reich di Bertolt Brecht) tornasse a riempirsi di parole, di suoni e di emozioni.
Potete scaricare l’immagine a colori e quella originaria, in bianco e nero, in alta risoluzione utilizzando i collegamenti alla fine del post.
Ricordo che Lettere Meridiane regala tutti i giorni, nel periodo estivo, ad amici e lettori una antica fotografia “colorizzata”.
La colorizzazione è stata effettuata utilizzando la tecnica di Satoshi Iizuka, Edgar Simo-Serra e Hiroshi Ishikawa (Let there be Color!: Joint End-to-end Learning of Global and Local Image Priors for Automatic Image Colorization with Simultaneous Classification).
Trovate le immagini “colorizzate” precedenti qui.
Qui sotto, invece, i collegamenti per scaricare le foto offerte oggi.
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