Tra Malavita e Malamend: da Giordano ai Tavola 28 (di Pasquale Longo)

L’autore della ricerca con suo fratello e Cisky e Guaiè
Devo ammetterlo. Se non fosse stato per i miei nipotini difficilmente avrei conosciuto ed apprezzato i Tavola 28. Sono stati loro a farmeli amare, nonché a portarmi per la prima volta, un paio d’anni fa, a Stornarap, la grande kermesse hip hop che si svolge l’estate nella cittadina dei Cinque Reali Siti, ormai divenuta un punto di riferimento in Puglia per la sua notte bianca all’insegna del rap.
In occasione della recente conferenza stampa in cui il duo foggiano ha presentato il suo ultimo videoclip Malamend, ho pensato di ricambiare, portando con me Pasquale e Giuseppe. Guardate che cosa ne è venuto fuori. 
I Tavola 28 sono diventati oggetto di una ricerca scolastica, che ha particolarmente interessato i docenti dell’Istituto Comprensivo Catalano-Moscati. (G.I.)
* * *
L’idea di questa ricerca mi è venuta dopo che mio nonno (Geppe Inserra, n.d.r.) mi ha portato ad una conferenza stampa in cui si presentava l’ultimo videoclip dei Tavola 28, un gruppo hip hop foggiano che a me piace molto, perché lo sento molto vicino ai problemi che riguardano noi ragazzi.
Il brano del videoclip si chiama Malamend, termine che in dialetto foggiano indica le persone che vivono in modo sbagliato, ma che spesso – questo sembra almeno di capire dai versi della canzone – sono costretti dalla società a vivere così, perché non hanno possibilità di riscatto e di emancipazione.

Malamend – come scrive il blog foggiano Lettere Meridiane – sono i ragazzi della periferia di Foggia, mai come in questo caso ombelico del mondo, perché in effetti la Foggia quasi sempre oscura, notturna, opaca fotografata dal giovane filmaker foggiano Vincenzo Romagnoli che del clip è anche regista e montatore, è cifra di tutte le periferie del mondo, da Scampia ad Harlem, anzi forse più Harlem che Scampia. Malamend sono i vinti di ogni tempo, costretti dal destino, che oggi indossa le vesti della finanza e del capitale, ad una vita ai margini, dove il confine tra legalità ed illegalità è sempre più labile, e il salto nel crimine sempre più frequente, per molti versi inevitabile, quasi sempre irreversibile. Non c’è speranza perché alla fine, dicono Cisky e Guaiè con il coraggio e l’onestà intellettuale che me li ha fatti amare, si perde sempre, e perdono tutti.”

Mio nonno mi ha spiegato che questo tema è stato affrontato non soltanto dalla musica moderna come il rap o l’hip hop, ma anche dalla musica lirica, e che due delle opere principali di quella Giovane Scuola Italiana che negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento rivoluzionò il melodramma, sono nate proprio a Foggia o vicino Foggia.
Allora mi sono proprio incuriosito e ho deciso di approfondire la cosa.

La Giovane Scuola si caratterizzò per affrontare temi prettamente veristici, e dunque in una posizione di sostanziale discontinuità rispetto ai temi sentimentali che andavano di voga nel Romanticismo. Ciò che fu per la letteratura il Verismo fondato da Giovanni Verga e Luigi Capuana fu per la musica operistica la Giovane Scuola Italiana.
Secondo Verga, proprio come secondo i Tavola 28, non è possibile che un personaggio di umili origini riesca in qualche modo, per quanto esso valga, a riemergere da quella condizione in cui è nato. Non è possibile che un povero diventi ricco.
Queste stesse atmosfere e questo stesso modo di pensare si ritrova nell’opera d’esordio del grande compositore foggiano, Umberto Giordano, il cui titolo riecheggia quello della canzone: si chiama Mala Vita e secondo la musicologa Paola Lepore, costituisce un autentico manifesto dell’opera verista.
Umberto Giordano è nato a Foggia il 28 agosto del 1867. Suo padre voleva farlo diventare farmacista, ma un amico di famiglia, intuite le straordinarie inclinazioni artistiche suggerì alla famiglia di fargli studiare musica. Così studiò con Paolo Serrao al conservatorio musicale di Napoli. Diplomatosi con ottimi voti partecipò ad un concorso promosso dalla Casa Editrice Sonzogno piazzandosi ai primi posti su 73 candidati, tra cui era il più giovane.
Non vinse, ma l’editore Sonzogno riconobbe in lui il genio tanto da commissionargli un’opera da rappresentarsi nella stagione 1891-92.
L’opera composta fu Mala vita su libretto di Nicola Daspuro, ispirata alle Scene popolari napoletane in tre atti scritte nel 1889 da Salvatore Di Giacomo e Goffredo Cognetti. Il dramma ruota attorno a un umile operaio, che fa voto di recuperare una prostituta in cambio della guarigione dalla tubercolosi. Ma non avrà il coraggio di lasciare la sua amante, e la donna sarà così costretta a tornare alla vita di prima.
La romanza cantata dalla donna che chiude l’opera è un capolavoro di “poesia del vero”

O Redentore mio, se la mia voce / sino a te giunge, a testimone ti chiamo!/ Tu sai quanto ho sofferto, e se all’atroce/destino mio strapparmi aveva giurato…/Non Thai voluto!… E sai la vita mia, /e sai quanto a salvarmi ho spasimato… /Ma non lo vuoi – no! no! – E così sia!”

Non si può cambiare vita così come non si può cambiare testa, come cantano i Tavola 28.

‘‘Se ce vist mizz a strd è malamend malamend / Teng certi frate che so malamend malamend / Nn cagnm cape e stim malamend malamend./ Se ci hai visto in mezzo alla strada è male, è male / Ho certi fratelli che sono cattivi cattivi / Non non cambiamo la testa e siamo cattivi cattivi. ”

Mala Vita suscitò un certo scandalo quando fu rappresentata a Roma nel 1892, ma si segnalò subito come una delle più interessanti espressioni del nascente verismo operistico. Venne rappresentata nello stesso anno a Vienna (Staatsoper), Berlino (Krolloper) e Praga, riscuotendo grandi consensi.
L’opera che si era aggiudicata concorso indetto da Sonzogno due anni prima era di un altro straordinario compositore verista ed esponente della Giovane Scuola, “La cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni. Venne composta a due passi da Foggia, a Cerignola, dove il compositore livornese si era trasferito nel 1886.
Per guadagnarsi da vivere Mascgni andava in giro con la compagnia teatrale diretta da Luigi Maresca quando l’allora sindaco di Cerignola, Giuseppe Cannone, gli offrì di dirigere la neonata filarmonica locale. Con uno stratagemma, Mascagni e la sua fidanzata (Lina Carbognani, che sposerà a Cerignola nel 1889) lasciarono la compagnia e rimasero nella città del Basso Tavoliere dove il Maestro, in una casa del centro storico, compose ben cinque opere: Cavalleria Rusticana, L’amico Fritz, I Rantzau, Guglielmo Ratcliff e Silvano.
Cavalleria Rusticana è un’opera profondamente verista, essendo tratta da una novella del fondatore indiscusso di questa corrente letteraria, Giovanni Verga. Anche questa racconta di un amore controverso che finisce male. Quello di Turiddu per Lola. I due giovani si promettono eterno amore prima che Turiddu parta per il servizio militare. Quando rientra al paese, la trova sposata con Alfio. Per vendicarsi dichiara il suo amore a Santuzza, che lo ricambia. Ma il destino, anche in questo caso è dietro l’angolo.
Nessuno può sfuggire al proprio destino. È una legge di natura. Chi nasce malament’ muore malament’.
A meno che, sembrano dirci in fondo i Tavola 28, Umberto Giordano e Pietro Mascagni, ciascuno a suo modo rappresentativo della realtà sociale della nostra terra, non riusciamo a cambiare il mondo, a diventare altri.
Come scrivono Elvezia Benini e Giancarlo Malombra

“ognuno deve accettare il proprio “destino” inteso come una strutturazione obbligata che ci è predeterminata e alla quale è possibile solo con l’alienazione, con il diventare altro da sè”.

Allora non dobbiamo arrenderci al destino, anche questo si presenta più oscuro che mai. Possiamo cercare di cambiare il mondo cominciando con il cercare di cambiare noi stessi.
Pasquale Longo

Views: 18

Author: Geppe Inserra

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *