Diciamo la verità fino in fondo. Vivere a Foggia non è una delle cose più gratificanti che possano capitarti nella vita. E, nonostante tutto questo mio scrivere sulla necessità di restare, anche io certe volte vorrei arrendermi, scappare, togliermi dalle scarpe la polvere di questa città sempre più brutta. Mi tengono legato ancora qui i ricordi.
Ho una età in cui è già tutto passato e la felicità non può essere più riposta nel futuro. Il fascino delle possibilità, la voglia di esplorarle non appartengono più all’oggi.
Nel suo ultimo, bellissimo film “La tenerezza”, Gianni Amelio suggerisce che la felicità non è un traguardo da raggiungere, ma una condizione da ritrovare voltandosi indietro: non la trovi guardando in avanti, ma volgendo le spalle (l’efficace sintesi della poetica della pellicola non è mia, ma di Alan Smithee, e se vi va, potete leggerla tutta qui).
Volgermi indietro è un esercizio che faccio spesso mentre cammino per le strade e le piazze della città. Mi vengono incontro i posti del passato. Quelli dove ho vissuto momenti di consapevole felicità. Più spesso quegli altri, dove sono stato felice senza che ancora lo sapessi. A volte, di quella felicità trascorsa e allora non percepita mi accorgo soltanto adesso, rivivendo l’istante di allora, evocato dal profumo di un fiore, ritrovando il sorriso di un amico seduto un tempo su quella panchina adesso vuota.
Quando accade, ritrovo l’incanto sommesso della città. La sento mia.
Per questo i posti sono importanti. Per questo andrebbero rispettati, amati, custoditi nella loro unicità ed irripetibilità.
Quando i ragazzi andavano a piedi e le automobili erano roba da ricchi, il Deposito Cavalli Stalloni era l’alcova di amori furtivi e notturni. Bisognava, come dire, trovare rifugi plein air, e quel posto era l’ideale. Ha ospitato generazioni e generazioni di giovani foggiani.
Quante centinaia di coppiette hanno trovato protezione e discrezione tra gli alberi e le siepi che lo circondavano.
Quei pini, secolari o quasi, sono stati abbattuti assieme a quelli di via Guglielmi perché, come ha spiegato l’assessore comunale all’ambiente Morese, sottoposti a perizia tecnica sono stati giudicati “ad alto rischio di caduta”. È così un altro topos di particolare valore simbolico è stato stravolto, la sua memoria resettata.
L’operazione provocherà radicali mutamenti nel paesaggio urbano, perché dopo i Cavalli Stalloni e via Guglielmi, la scure selvaggia ha cominciato a colpire perfino Parco San Felice. E forse sarebbe stato il caso di informarne preventivamente la cittadinanza.
Non discuto la scelta. Ma il processo che l’ha innescata.
Abbatterli è stato forse inevitabile, ma sempre di scempio e distruzione si tratta. Uno sfregio che è stato l’ultimo atto, la fatale conseguenza di decenni di incuria e di abbandono.
Se quegli alberi fossero stati curati ed accuditi per tempo, si sarebbe potuto salvarli. Bastava amarli. Basterebbe amare i luoghi per preservarli dall’oltraggio del tempo, dall’incuria degli uomini, dall’offesa dei vandali.
L’abbattimento sarà anche stato necessario, ma sarebbe il caso di riflettere su quanto sia stato salato il conto pagato: un brutale cambiamento del paesaggio urbano che ha distrutto bellezza e memoria.
Affidandosi ai suoi ricordi e alla capacità terapeutica della narrazione di memoria, il mio amico Giuseppe Messina ha scritto un libro prezioso, intriso della tenerezza cara a Gianni Amelio: “Papaveri Rossi – Il vento caldo del favonio”. Giuseppe è stato tra i non molti intellettuali foggiani a mobilitarsi per quanto sta accadendo. Molto significativo il suo commento al tentativo di impedire perfino la documentazione fotografica dello scempio.
“È un cantiere, non si può, chiamo i vigili”, era stato detto ad Ernesto De Maio (autore della foto che illustra il post).
“Ma lo sapeva che stavi fotografando una cosa tua? la morte di una cosa tua? La prossima volta, diamoci una voce e andiamo in cento a fotografare”.
Una bella provocazione, quella lanciata da Giuseppe: l’abbattimento di quegli alberi dovrebbe essere vissuto come una cosa che ci appartiene. Che ci diminuisce, che ci addolora in quanto comunità.
Geppe Inserra
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Anche a me fu impedito, con piglio piuttosto intimidatorio, di fotografare lo scempio su alcuni alberi in v. Tugini, qualche anno fa. E, malgrado tutto, questa città me la sento staccarsi di dosso come una seconda pelle. Ecco, come dici tu … "togliermi dalle scarpe la polvere di questa città sempre più brutta". Peccato.