Mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, non si è lasciato pregare e alla prima occasione utile ha rotto l’assordante silenzio dei cattolici sulle polemiche che stanno accompagnando il dibattito sullo Ius Soli, stigmatizzato dal Gran Mogol qualche giorno prima. (Per chi non ha mai letto Topolino: il Gran Mogol è il capo del gruppo di boy scout, le Giovani Marmotte, frequentato da Qui, Quo e Qua; ogni riferimento a Matteo Renzi è tutt’altro che casuale).
Parole dure e chiare, quelle pronunciate dal presule di Cerignola, invitato da Repubblica a discutere sugli aspetti rivoluzionati del pontificato di Francesco:
“Siamo preoccupati per come si sta affrontando questo problema, persino con gazzarre ignobili in Aula. Sono temi molto importanti. Ci sta che qualcuno sia contrario. Ma vedo che c’è chi ha cambiato idea. E ora fa politica unicamente per rincorrere il proprio successo, perché vuol fare solo il proprio interesse. Tre italiani su 4 sono d’accordo ma c’è chi usa la polemica per paura di perdere voti. Fare politica per rincorrere il proprio successo, non è fare politica. E tutti sanno chi ha cambiato posizione, idea, qui non è questione di appiccare l’etichetta di italiano, ma di dare un senso di appartenza, non ci si deve prendere a botte per questo, ma discutere”.
Mi piacerebbe adesso sapere dal Gran Mogol Matteo Renzi e da quanti come lui militano nel Pd e sono cattolici, cosa pensano di alcune cose che papa Francesco in persona ha detto, a Genova, parlando di lavoro:
“Intorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale. È anche questo il senso dell’articolo 1 della Costituzione italiana, che è molto bello: ‘L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro’. In base a questo possiamo dire che togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato è anticostituzionale. Se non fosse fondata sul lavoro, la repubblica italiana non sarebbe una democrazia. (…) L’impresa è prima di tutto cooperazione, mutua assistenza, reciprocità. Quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione tra loro, magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio, ma finisce presto per minare quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione. Bisogna dire con forza che questa cultura competitiva tra i lavoratori dentro l’impresa è un errore. Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata ‘meritocrazia’. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e la perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della disuguaglianza. Tramite la meritocrazia, il nuovo capitalismo dà una veste morale alla disuguaglianza. (…) Una seconda conseguenza della cosiddetta ‘meritocrazia’ è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole.
E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa”.
A parlare così non è Susanna Camusso, ma Jorge Mario Bergoglio, che ha pronunciato queste parole davanti ai lavoratori dello stabilimento Ilva di Genova, il 27 maggio scorso. La visione del Papa mi sembra lontana anni luce dalla filosofia del jobs act e delle politiche sul lavoro che hanno ispirato i governi guidati da esponenti del Pd, a cominciare da quello del Gran Mogol.
Non sarebbe il caso che i cattolici del Pd interrompano il loro assordante silenzio e dicano ciò che pensano? Senza sotterfugi.
Certo si può pur dissentire dal Papa, ma bisogna avere il coraggio di dirlo, senza appellarsi ai valori cattolici solo quando ciò fa i propri interessi.
Vero, Gran Mogol?
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