Ghetto e caporalato nel mirino di openDemocracy: lo Stato assente o quasi

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Il Grand Ghetto del Tavoliere e i traffici nazionali ed internazionali che vi ruotano attorno sono finiti nel mirino di openDemocracy, piattaforma indipendente di confronto e discussione sui grandi temi di politica internazionale e cultura, che tra le sue firme annovera personaggi del calibro di Kofi Annan, segretario dell’Onu, il nobel per la pace Shirin Ebadi e l’eccentrico finanziere ed imprenditore George Soros.

OpenDemocracy è un bell’esperimento di democrazia digitale, finanziato da organizzazioni filantropiche, tra cui la Ford Foundation e la Rockefeller Brothers Fund.
Non è un caso che l’articolo saggio di Susi Meret e Sergio Goffredo sia quanto di più obiettivo, politicamente corretto e interessante mi sia capitato di leggere attorno al Ghetto e ai complessi fenomeni del traffico di manodopera agricola nel Mezzogiorno d’Italia.
Pubblicato con licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 4.0, l’articolo è stato ripreso e tradotto dal settimanale italiano Internazionale, nel testo che pubblichiamo sotto. Qui potete trovare, invece, la versione originale.
Gli autori sono ricercatori di notevole spessore:  Susi Meret è professoressaa associata del dipartimento di Cultura e Studi sulla Globalizzazione dell’università di Aalborg. È componente del gruppo di ricerca del COMID (Centre for the Studies of Migration and Diversity). 
Sergio Goffredo è ricercatore presso la Facoltà di Scienze Sociali della stessa università.
Va detto che il titolo originale dell’articolo è notevolmente più “duro” di quello proposto dalla traduzione italiana di Internazionale: Subverting neoliberal slavery: migrant struggles against labour exploitation in Italy (Sovvertire la schiavitù neoliberista: le lotte dei migranti contro lo sfruttamento del lavoro in Italia). Il sommario della versione italiana recita, invece: “La legge contro il caporalato non basta. Bisogna abolire il reato di immigrazione clandestina e aiutare i lavoratori sfruttati a essere consapevoli dei loro diritti”.
Ecco il testo dell’importante ed imperdibile articolo.
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I migranti schiavi nelle campagne italiane

Sergio Goffredo e Susi Meret, Open Democracy, Regno Unito

Non è possibile, osservando un qualsiasi oggetto in un supermercato, capire quali siano le condizioni che stanno alla base della sua produzione. Possiamo fare colazione ogni giorno senza pensare alle tante persone che sono impegnate per produrla. Ogni traccia di sfruttamento viene cancellata dall’oggetto (nel nostro pane quotidiano non c’è traccia delle impronte digitali dello sfruttamento).-David Harvey, 1989

La mattina del 3 marzo 2017, nel cosiddetto gran ghetto, una baraccopoli della pianura pugliese, sono morti Mamadou Konate, 33 anni, e Nouhou Doumbia, 36 anni, due lavoratori agricoli originari del Mali. Un incendio scoppiato nella notte ha distrutto le baracche di plastica, legno e cartone.
Per oltre vent’anni il gran ghetto ha “ospitato” centinaia di migranti, impiegati come lavoratori agricoli alla giornata nei campi, in condizioni di schiavitù. Durante la stagione della raccolta dei pomodori, il numero degli ospiti del gran ghetto raggiunge le migliaia, che si aggiungono alle centinaia di migliaia di migranti sfruttati nelle campagne italiane. La forza lavoro a buon mercato e sottopagata contribuisce a rendere il settore agricolo italiano competitivo a livello internazionale.
Nei giorni che hanno preceduto l’incendio, le autorità locali stavano sgomberando il gran ghetto perché sospettavano che ci fossero delle infiltrazioni mafiose. “Il gran ghetto è una vergogna, cresciuta nel corso di anni d’indifferenza”, aveva detto il 2 marzo Michele Emiliano, presidente della regione Puglia. Giusto. Ma perché un repulisti così affrettato dopo decenni di convivenza tollerata? Guarda caso la decisione di sgomberare la baraccopoli ha coinciso con la sfida lanciata da Emiliano all’ex presidente del consiglio Matteo Renzi per la guida del Partito democratico.
Viene da chiedersi se la decisione d’intervenire così frettolosamente non nascondesse un tentativo di placare un elettorato sempre più ostile verso i migranti. In ogni caso la notizia della morte dei due giovani lavoratori agricoli, che si erano rifiutati di lasciare il campo perché temevano di perdere la loro unica fonte di reddito, è stata archiviata molto rapidamente dai mezzi d’informazione italiani. Come già successo in passato, si è parlato in modo sbrigativo dell’ennesima morte accidentale di lavoratori irregolari in uno dei tanti accampamenti improvvisati, che dovevano essere sgomberati. Fine della storia.
Il settore agricolo
Una storia conclusa forse solo per chi si rifiuta di analizzare in profondità le disuguaglianze e lo sfruttamento che permettono all’attuale sistema neoliberista di funzionare e di perdurare. O per chi non vuol vedere il modo in cui, per parafrasare David Harvey, è stata prodotta la nostra colazione.
Negli ultimi decenni il settore agricolo è stato pesantemente colpito dall’abbattimento dei prezzi, dalla deregolamentazione e dallo sfruttamento della manodopera. Nel settore agroalimentare si sono diffuse pratiche lavorative illegali e di sfruttamento, in molti casi grazie alla complicità delle autorità locali e dei governi. A pagarne le spese sono state soprattutto le categorie più vulnerabili di lavoratori agricoli pagati alla giornata: le donne e i migranti irregolari. Questi ultimi in particolare offrono manodopera a basso costo che può essere sfruttata facilmente e costretta ad accettare condizioni lavorative disumane. In Italia lo sfruttamento del lavoro agricolo dei migranti è parte integrante del sistema economico e favorisce l’offerta di forza lavoro a basso costo, non sindacalizzata e senza diritti.
Tuttavia in risposta a queste condizioni ci sono segnali di politicizzazione, con lotte organizzate che coinvolgono lavoratori migranti e attivisti. Il primo obiettivo è la sensibilizzazione a livello locale, ma queste iniziative sono collegate tra loro a livello globale.
In Italia da anni si discute di lavoro forzato e sfruttamento nell’agricoltura. La discussione si è riaccesa lo scorso ottobre, in occasione dell’approvazione della legge sul caporalato. Il drammatico peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori agricoli migranti nelle baraccopoli sparse sul territorio italiano è legato anche all’inasprimento delle leggi sul diritto d’asilo in Italia e in Europa.
L’Italia è tra i massimi produttori ed esportatori mondiali di pomodori e non sorprende, visti i ricavi, ette l’industria del pomodoro sia considerata la punta di diamante del settore agroalimentare italiano. Secondo i dati dall’Associazione nazionale industriali conserve alimentari vegetali (Anicav), le vendite stimate di pomodori italiani nel 2015 in Italia e all’estero ammontavano a circa tre miliardi di euro, con una produzione di 5,5 milioni di tonnellate e settantamila ettari di terreno coltivabile. Solo il 40 per cento del pomodoro lavorato è venduto in Italia, il resto viene esportato. Non è un caso che lo chiamino “oro rosso”.
Il pomodoro viene raccolto e lavorato soprattutto al sud, in particolare in Campania e in Puglia, nella Capitanata, un’area di produzione che copre circa il quaranta per cento del mercato nazionale. Ma gli enormi profitti di questo settore hanno costi sociali e lavorativi elevatissimi: in particolare lo sfruttamento della manodopera c le condizioni di schiavitù che rendono un inferno la vita di migliaia di lavoratori agricoli, a cui sono negati i diritti più elementari e che non possono accedere ad alloggi decenti o avere assistenza medica. Le condizioni di lavoro sono peggiorate da quando, a causa della crisi economica, in Italia come altrove è stato ridimensionato tutto il settore agroalimentare.
Aumento della produttività
Tutto questo ha aggravato il fenomeno del caporalato: i caporali lavorano come intermediari per conio dell’imprenditore, assumendo operai alla giornata fuori dei normali canali di collocamento c senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali. Di solito il caporale è un ex lavoratore incaricato del trasporto della forza lavoro. La somma di denaro destinata al caporale è spesso detratta dal salario del lavoratore. L’attività illecita non si limita al pagamento, ma anche all’autorità conferita al caporale, che decide arbitrariamente chi assumere, quando e per quanto tempo, offrendogli il salario più basso possibile c mettendo a tacere con le minacce o la violenza ogni forma di ribellione o protesta organizzata. Il sistema del caporalato è diffuso soprattutto nell’agricoltura ma è presente anche in altri settori del mercato del lavoro dove è molto diffuso il precariato, per esempio l’edilizia c il turismo, spiegano gli studiosi Domenico Perrotta e Pietro Alò.
Nel corso degli anni i sindacati italiani hanno provato ad affrontare il problema, ma in generale con scarsi risultati, come dimostrano luoghi come il gran ghetto o la baraccopoli di San Ferdinando in Rosarno e molte altre aree rurali nel nord e nel sud del paese.
Il caporalato prolifera grazie a fattori economici e sociopolitici strutturali. Nella Capitanata, per esempio, il caporalato è stato un prodotto storico del passaggio, voluto dal sistema capitalistico, a un’agricoltura intensiva, più spesso una monocoltura. che ha sostituito le varie attività delle comunità turali locali. “Il caporalato è funzionale all’aumento di produttività richiesto dall’agricoltura industriale”, scrive Alò. Questa trasformazione ha incoraggiato anche forme di lavoro fondate sullo sfruttamento che si avvantaggiano della disponibilità di forza lavoro a basso costo, come i migranti.
Già dall’inizio del novecento i flussi migratori avevano fatto emergere il ruolo del caporalato nel reclutamento e nello sfruttamento dei lavoratori provenienti dalle regioni dell’Italia meridionale e diretti nelle risaie del Piemonte e della Lombardia. All’epoca le migrazioni inteme garantivano una riserva a buon mercato e sfruttabile di forza lavoro. Anche se il fenomeno dello sfruttamento del lavoro non è nuovo, nel corso del tempo la composizione della forza lavoro è cambiata ed è peggiorata l’intensità dello sfruttamento. Attualmente sono soprattutto i migranti che contribuiscono a rendere competitivo il settore agricolo italiano sul mercato globale. Secondo una stima della Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil) e della Federazione lavoratori agroindustria (Flai), sono circa 3,5 milioni i lavoratori irregolari, obbligati a giornate di lavoro massacranti, privati dei loro diritti e della possibilità di denunciare chi li sfrutta.
La nuova legge
Dagli anni sessanta e settanta l’Italia ha fatto alcuni tentativi, anche se poco efficaci, per arginare la diffusione di queste pratiche. Con la crescente liberalizzazione e deregolamentazione del settore agricolo negli anni novanta – per esempio con l’introduzione della legge 196 del 24 giugno 1997, il cosiddetto pacchetto Treu che prevede i contratti di lavoro atipico – è stata data ai datori di lavoro carta bianca sul reclutamento e sulle condizioni di assunzione. Le conseguenze sono state evidenti e ampiamente documentate: evasione fiscale, impiego di manodopera illegale e condizioni di lavoro caratterizzate da gravi violazioni dei diritti umani.
Le legge sul caporalato, approvata il 18 ottobre 2016 in via definitiva dalla camera dei deputati, mira a correggere i precedenti errori e a combattere le pratiche criminose. La pena per lo sfruttamento della manodopera va da uno a sei anni di carcere e prevede una multa compresa tra cinquecento e mille euro per ogni lavoratore sfruttato. Se il reato comprende il ricorso alla violenza o alle minacce, la pena prevede fino a otto anni di carcere e una multa tra mille e duemila euro per ogni lavoratore reclutato. Tuttavia le sanzioni contro i caporali non risolvono la maggior parte dei problemi strutturali e di vecchia data della catena agroalimentare.
Secondo Aboubakar Soumahoro, del comitato nazionale dell’Unione sindacale di base (Usb), la legge non affronta il problema delle condizioni disumane e degradanti affrontate dai lavoratori agricoli migranti, come la mancanza di alloggio, cure mediche e diritti civili e lavorativi essenziali. Inoltre la condizione irregolare dei lavoratori agricoli rende difficile, se non impossibile, denunciare chi li sfrutta. Ottenere il sostegno delle autorità locali è praticamente impossibile se non si hanno un contratto e dei documenti.
Questa situazione è anche una conseguenza diretta della legge Bossi-Fini, che nel 2002 ha introdotto il reato di clandestinità rendendo i lavoratori migranti ancora più vulnerabili e soggetti allo sfruttamento. Secondo le valutazioni dei delegati dell’Usb, i migranti oggi sono ricattati. Da un lato il caporale gli prospetta la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno quando vengono ingaggiati. Dall’altro il permesso di soggiorno non arriva mai, lasciando il lavoratore in una condizione di illegalità. Inoltre i migranti che vogliono denunciare lo sfruttamento sono obbligati a dichiararsi lavoratori autonomi, ma non avendo il permesso di soggiorno possono essere espulsi proprio in base a quanto stabilito dalla legge Bossi-Fini.
Negli ultimi anni l’Usb, un sindacato indipendente, è stato molto attivo nel promuovere la sindacalizzazione dei lavoratori agricoli migranti, con l’obiettivo anche di incoraggiarli a impegnarsi politicamente e rivendicare i propri diritti.
Secondo Aboubakar Soumahoro e Patrick Kondè, dell’Usb, i risultati sono incoraggianti, anche se c’è ancora molta strada da fare. Bisogna confrontarsi con un sistema fondato sul controllo, l’intimidazione, la violenza e le minacce dei caporali per ridurre al silenzio i lavoratori sfruttati. Ma iscriversi a un sindacato o fare politica aiuta a ottenere risultati concreti. Nell’estate 2016 l’Usb ha organizzato alcune manifestazioni a Venosa, un comune della Basilicata, per denunciare le varie forme di sfruttamento e schiavitù, raccogliendo una notevole partecipazione da parte dei migranti che lavoravano nei campi dei dintorni. In risposta il presidente della regione Basilicata, Marcello Pittella, ha dovuto affrontare pubblicamente il problema e trovare delle soluzioni per i lavoratori agricoli, a cui sono state garantite migliori condizioni di lavoro e migliori alloggi. “Il nostro scopo era fare pressione sulle istituzioni affinché riconoscessero l’esistenza di queste persone, la cui situazione e le cui condizioni di lavoro erano totalmente invisibili”, osserva Soumahoro.
I sindacati e le altre organizzazioni lavorano al fianco dei migranti e contro chi sfrutta l’immigrazione e non si preoccupa dei problemi concreti come il permesso di lavoro, l’alloggio e la sicurezza sul lavoro.
Gli scioperi
Lo sciopero dei lavoratori agricoli migranti del 2011 a Nardo, in Puglia, ha portato a un significativo miglioramento delle condizioni di lavoro e dei diritti. I lavoratori migranti hanno scioperato per giorni per sensibilizzare i politici e l’opinione pubblica sulla mancanza di diritti e sullo sfruttamento di cui erano vittime. Hanno chiesto una vita e delle condizioni di lavoro migliori. Molti hanno deciso di denunciare i proprietari agricoli e i caporali che li sfruttavano. È significativo che circa l’80 per cento dei lavoratori agricoli che lavorano in quell’area abbiano oggi un permesso di lavoro in regola. Inoltre la mobilitazione ha fatto emergere forme alternative di cooperazione, come quelle tra lavoratori agricoli di diversi paesi, che hanno creato attività imprenditoriali per la produzione di pomodori a prezzi sostenibili garantendo condizioni di lavoro decisamente migliori.
Simili iniziative collettive lanciate da migranti offrono suggerimenti preziosi per politici, istituzioni e amministratori locali. Questi dovrebbero confrontarsi con i lavoratori, i loro sindacati e le organizzazioni locali per trovare alternative sostenibili che mettano fine allo sfruttamento schiavistico del lavoro. Uno sfruttamento che a marzo ha ucciso Mamadou Konate e Nouhou Doumbia nel gran ghetto. E molti altri prima di loro. 
Sergio Goffredo e Susi Meret

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Author: Geppe Inserra

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