Sono oltremodo felice che la squadra del Foggia calcio sia salita nella serie cadetta. Sono uno di quelli che era presente nelle principali fasi storiche del Foggia rossonero, che saliva più volte nelle serie superiori, e metteva in difficoltà le grandi squadre, compresa l’Inter del tempo, fresca di un titolo mondiale. E sono allegramente sorpreso della immensa esplosione di gioia che l’intera popolazione foggiana ha espresso anche in questa occasione, con grande vivacità, scorrazzando per le vie e le piazze della intera città. In anticipo, del resto, appena ottenuta la certezza matematica della promozione nella serie cadetta. Una festa collettiva come solo la gente del Sud sa fare, con tutta la sua carica e spontaneità espressiva.
Queste manifestazioni dureranno ancora parecchio nei prossimi mesi, perché non è solo un impulso fugace, ma il contrappeso lungo, di una intera vita di rivalsa. Uno strano mix di felicità e di rassegnazione, che fa prevalere, alla fine, la gioia effimera di una rivincita indiretta. Riversando nel calcio, con riti speciali, quasi magici, quello che i foggiani non riescono a realizzare in altri ambiti.
Foggia si è sempre distinta, del resto, per la sua grande carica sportiva nello sport più diffuso in Italia e nel mondo. La provincia calcistica più effervescente nell’intero panorama provinciale nazionale. Seguendo la legge del contrappasso dantesco, in tale caso come contrario tra gioia e dolore.
Il lato positivo, non sempre colto, sta in un eccezionale spirito collettivo, non rimesso tutto sulle spalle della sola squadra, ma rovesciato sull’intera comunità. Squadra più cittadinanza. Come se in campo scendessero veramente tutti. Cuore collettivo, che non si ripete, purtroppo, in tutte le altre manifestazioni cittadine.
Penso che non esiste nessuna città di provincia così abile nel fare gruppo, quando vuole, cioè almeno nello sport. E, al tempo stesso, disarticolata quando occorre costruire qualcosa di più solido.
Da una parte mi riferisco ai tanti eventi ripetuti del Foggia-calcio nei decenni precedenti, che si sono sempre distinti in molte occasioni di risalite e discese. Eventi espressi con il massimo orgoglio ed emozione all’unisono.
Dall’altra la difficoltà per tutte le altre questioni più severe e difficili, stranamente eluse e/o dissimulate molto bene. Quasi con la consapevolezza della rinuncia velata, o di una disattenzione strategica. Forse anche un forte senso di dignità oscura, caratteristica dei Popoli del Sud.
Un simile fervore calcistico l’ho visto solo nel popolo napoletano ai tempi della squadra di Maradona, che metteva in riga tutti, soprattutto la grande terna calcistica del nord, strapiena di superiori capacità economiche ed organizzative. Che solo l’entusiasmo e l’ironia napoletana riuscivano a piegare e travolgere. Foggia come il grande popolo napoletano. Anzi una terra di provincia che salta talvolta più in alto delle grandi metropoli, esprimendo maggiore forza collettiva.
È il calcio foggiano dirompente di Oronzo Pugliese, personaggio fatto di un cuore grande così, dalla genuinità inimitabile, anche grezza, del Sud. “Undici gambe abbiamo noi, undici gambe hanno loro”. Di Zeman, poche parole, ma che riesce ad esprimere, a sua volta, uno spavaldo coraggio con la frenetica velocità del cuore. Strana sintonia in un uomo di ghiaccio, con la passione invisibile, ma certamente tipica meridionale. Un grande cuore dentro parole striminzite.
Il rovescio di questa medaglia gioiosa e frizzante è la generale rassegnazione strisciante del Sud, che individua nel calcio il modo migliore per sfogare le proprie genialità represse e il pudore di sentimenti forti di un popolo assolato, e talvolta forse per questo frastornato.
Forse è questa la regola assimilata anche dal popolo di Foggia e della Capitanata. Accettare supinamente e senza reagire, gli effetti di un intero sviluppo interrotto, da troppo tempo fortemente frenato. Spostando semplicemente gli interessi. Degli svaghi e dei doveri.
Ci viene in mente la famosa locuzione latina panem et circenses. Un metodo antico per distrarre il popolo dalle sue disavventure e dalle marginalità galoppanti, in cambio di un divertimento, allora troppo spesso sadico.
E se la tendenza definitiva fosse quella di chiuderci definitivamente nelle nostre piccole culle di felicità ristretta, soprattutto quando i problemi di altra natura appaiono complessi e fatalmente insuperabili? Significherebbe, allora, che qualcosa di più profondo è perduto. E a nulla serve cercare alternative dove sfogare i nostri impeti di passione, per effimeri momenti di divagazione.
Mi piacerebbe sperare, invece, che lo spirito sportivo di gruppo sia applicabile anche alle cose seriose. Quelle che riguardano il benessere e lo sviluppo dell’intero territorio di Capitanata, una volta fortemente unito sotto i Catapani, ora terra di tante città in competizione.
Un popolo guardingo, come dice Pulsatilla, scrittrice ed ex-blogger foggiana (Valeria Di Napoli). Ma poi estremamente generoso e ospitale. Pulsatilla si chiede se la rivalità calcistica diffusa in Puglia, viene prima della antipatia generale tra le città di Puglia. Per esempio tra Foggia e Bari e, poi, il resto delle città della Puglia ancora più giù. Atteso che la rivalità Bari-Lecce è più forte di ogni altra contesa, sembra che la Capitanata alla fine sia più semplicemente una specie di “terra di mezzo a tramontana” (Pulsatilla). Nel senso che la rivalità in genere procede tendenzialmente da nord verso sud. Il Molise odia la Capitanata (e vogliamo la Moldaunia…), Foggia odia Bari, che, a sua volta, odia Lecce. Lecce odia la Grecia (perché?) Il Nord-Italia odia ovviamente il Sud. L’odio procede sempre a tramontana.
Dice Pulsatilla: “Una caratteristica comune a molti pugliesi, specie quelli di una certa età, è la concezione del mondo come sacrificio, come croce da portare: dare equivale a togliersi, amare è una forma di dolore e il piacere è trattato come una forma vischiosa di peccato. In compenso, la domenica in tavola ci sono sempre le pastarelle”.
Dice, invece, Renzo Arbore (il foggiano più famoso): “Il problema è che noi foggiani abbiamo il negative thinking, il pensiero negativo”. Prosegue lo stesso Arbore: “Innanzitutto… eliminare… questi luoghi comuni negativi della città: a Foggia non c’è niente da fare, fanno bene che se ne vanno tutti, e roba del genere. Ma, voglio dire, questo è un atteggiamento comune, ce lo avevo anch’io. Ma bisogna combatterlo. E bisogna combattere il “campanile”, che è un altro guaio dei foggiani”.
Allora, guardando con gli occhi della tipica passione calcistica foggiana, altrimenti detta tifo calcistico (con l’aggiunta ultras, qui con un carattere meno cattivo di altrove, quindi certamente più sinceramente passionale), come inquadrare la psicologia locale extra- calcistica? Alla maniera di Pulsatilla, come resurrezione dalle sofferenze di una antica via crucis, ovvero secondo la visione di Renzo Arbore, che, con il sorriso stampato sul viso, propone di cambiare il pensiero foggiano in positivo? Guardando più lontano, dietro i campanili, magari anche viaggiando di più con la fantasia, oltre i nostri ristretti confini?
Si tratta, forse, di estendere e diffondere un nuovo entusiasmo ed orgoglio, non solo calcistico, non arreso, che non si chiuda in se stesso, ma che si trasformi in un utile ed inatteso veicolo comune per abbattere parallelamente gli altri nostri vecchi tabù e farci diventare cittadini globali (concetto meno sbiadito del cliché in merito) di un mondo più largo. Guardando parallelamente in positivo, con la stessa passione, gli altri parametri di un nuovo avanzamento complessivo, unitario. Meno guardinghi e più aperti. Ancora più gentili. Noi tutti con lo stesso sorriso di Renzo Arbore.
Metterci insieme, uscendo dalle nostre nicchie personali e gruppi ristretti, per combattere la marginalità attuale, le difficoltà, gli ostacoli, e ribaltare le avversità in successi due a zero dovunque.
Anzi vorrei che ogni qualvolta otteniamo un successo totalizzante, di città e di territorio, grazie ad un più allargato spirito di gruppo multi-sensibile, senza inutili accompagnamenti e strumentalizzazioni politiche, decidessimo di andare a festeggiare per le strade e le piazze, con lo stesso entusiasmo e gioia, che riserviamo alle vittorie calcistiche.
Eustacchiofranco Antonucci. 05-05-2017
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