Cinemadessai | Banalizzazioni sanremesi a parte, ecco Dalida

Premessa. È la prima volta che questa rubrica invita alla visione di un film sulla rete ammiraglia della Rai, in prima serata. Ma, nonostante i lustrini sanremesi e il rischio di restare invischiato nell’aurea mediocrità e nel mood nazional-popolare del festival, Dalida è un bel film, egregiamente scritto e diretto da Lisa Azyln, francese, allieva di Luc Besson e nome di spicco del panorama cinematografico internazionale dopo il successo ottenuto con  LOL – Pazza del mio migliore amico e Due destini.
La pellicola racconta la vita, i dolori e gli amori della cantante italo-francese (interpretata da Sveva Alviti, al suo secondo film da protagonista, dopo Cam Girl di Mirca Viola) che fu sentimentalmente legata a Luigi Tenco (Alessandro Borghi) e che come il compianto cantautore italiano pose tragicamente fine alla sua vita, suicidandosi quando aveva 54 anni.
Nel cast c’è anche Riccardo Scamarcio, che indossa i panni di Orlando, fratello di Dalida e parte attiva nel progetto del film.
La messa in onda di Dalida rappresenta per la Rai una novità assoluta dal punto di vista della tempestività. Il film è infatti appena uscito nelle sale, in Francia, mentre in Italia esordisce con il passaggio televisivo (Rai Uno, stasera alle 21.25).
Così Liza Azuelos racconta il film, ricco di pathos, come del resto piena di passione e dolore è stata la breve e intesa vita di Dalida: ”Francamente, non sono mai stata una grande fan di Dalida prima di cominciare a lavorare alla sua storia. Non appena ho approfondito la sua parabola, ho sentito crescere dentro di me una forte emozione: avevo davanti una donna da record con un destino segnato dall’amore. A oggi, Dalida è la donna dello spettacolo francese che ha ricevuto più premi, ha venduto 170 milioni di dischi, ha inciso oltre 2 mila canzoni e ha collezionato qualcosa come 70 dischi d’oro, ai tempi in cui ricevere un disco d’oro significava aver venduto realmente tanto. La sua carriera è stata brillante tanto quanto tragica è stata la sua esistenza. Come in un romanzo, l’apice della sua gloria ha coinciso con un periodo di immensa solitudine. Il suo era il destino di una donna che non poteva mai essere felice.” Una vita che sembra essa stessa un film. Anche per questo, da vedere.
DOMANI
La civiltà contadina è stata sempre al centro della poetica di Ermanno Olmi, regista del tutto alternativo (e sempre tenacemente, irreversibilmente, indipendente) rispetto agli schemi del cinema italiano, e non solo. L’albero degli zoccoli viene ritenuto il suo capolavoro. Selezionata tra i 100 film italiani da salvare, la pellicola vinse la Palma d’oro nel 1978 al Festival di Cannes e il premio César per il miglior film straniero conferito annualmente dall’Académie des arts et techniques du cinéma a partire dal 1976.

Il film racconta la vita di quattro povere famiglie contadine che vivono in una cascina nella campagna bergamasca, alla fine dell’800.
Le loro vicende quotidiane si intrecciano in una narrazione asciutta, che non concede spazio al sentimentalismo, ma piuttosto sottolinea la durezza della vita nei campi e l’endemica miseria dei contadini.
Il titolo del film trae origine dalla storia principale: l’albero è quello dal quale Batistì taglia il legno necessario per confezionare un paio di zoccoli nuovi a suo figlio Mènec, che aveva rotto i suoi zoccoli nel lungo tragitto giornaliero tra casa e scuola.
Mènec taglia l’albero e prende il legname senza il consenso del padrone della cascina che, venuto a conoscenza della cosa, scaccia lui e la famiglia. A Mènec, a sua moglie Battistina e ai tre loro figli, uno dei quali ancora in fasce, non resta che caricare le povere masserizie sul carro e allontanarsi, in cerca di miglior fortuna.
Le storie delle altre famiglie si incastonano all’interno di questa vicenda. Ne risulta un affresco, un racconto corale che fa de L’albero degli zoccoli un film sicuramente diverso, ma uno dei film migliori del Novecento in Italia.
Qualche anno dopo Ermanno Olmi fonderà la scuola cinematografica Ipotesi Cinema, tra i cui allievi ci sarà anche il regista foggiano (è originario di Orta Nova), Angelo Casto, i cui cortometraggi percorrono le stesse tematiche del cinema di Olmi: la difficile transizione tra la civiltà e la cultura contadina, ormai iscritte solo nella memoria degli anziani, e la nuova civiltà industriale e postindustriale.
L’albero degli zoccoli è un must per ogni cinefilo che si rispetti. Assolutamente da vedere. Domani sera, su TV 2000, alle 21.05.

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Author: Geppe Inserra

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