Viscardo di Manfredonia. La terza puntata.

Lettere Meridiane pubblica, a puntate, il romanzo di Francesco Prudenzano, Viscardo di Manfredonia. Di seguito, la terza puntata, che corrisponde al terzo capitolo. Per non perdere neanche una puntata e restare sempre aggiornati sull’intrigante storia, trovate in questa pagina, l’elenco dei personaggi, i collegamenti ai diversi capitoli, il riassunto delle puntate precedenti. Buona lettura.

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CAPITOLO III.

La mensa è imbandita in una delle stanze che guardano da lontano l’Adriatico. Le pareti son ornate di paesaggi e marinelle di Salvator Rosa, giovane di buon tempo che allora saliva in gran fama come poeta e come pittore, per le sue satire c per le sue tele rappresentanti paesi e battaglie. Due grandi balconi davano su d’un giardino pensile, pieno ne’ viali di fiori variopinti e odorosissimi. Molte casse di agrumi erano qua e là disposte in bel disordine, e l’aria pregna di quelle fragranze accresceva a’commensali il diletto e la gioia. Due gabbioni alle due ali del giardino, accosto al folto delle piante accoglieano uccelli canori, e soavi alla vista pel vario e lucente colorito delle loro penne. Nel mezzo sorgeva una fontana di bianchi marmi dalla quale scaturivano le fresche acque a limpidi zampilli da una specie di scabro monticello ricamato di fiori, che s’alzava dentro una gran vasca, ove nuotavano de’ pesci scambienti [cangianti] al guizzo e al moto che facean nell’acqua. La brigata avvertita dallo scalco [servitore] entrò nell’ampia stanza, prendendo ognuno i suoi posti. Una gran tavola per centoventi convitati, di figura ovale, era situata in mezzo dessa, coverta di finissime tovaglie di filo di Germania a pressioni, con frange e lavori di ricamo all’orlo. Piatti e zuppiere di porcellana riccamente dorata e con miniature rappresentanti tornei e paesaggi, di fabbrica napoletana; e cristalli tagliati di Boemia, con sottobicchieri, acetiere e saliere d’argento cesellate da Benvenuto Cellini. Un sontuoso vaso di fiori sorgeva iammezzo alla tavola a guisa di trofeo. Le sedie disposte in bell’ordine, erano secondo l’uso a bracciuoli con molti fogliami nelle spalliere, smaltati d’oro lucentissimo, e cuscini di damasco fiorato. In un angolo v’era una credenza carica di vasellami, di salse, di vassoi con frutti canditi e lavori di zucchero a varie fogge e specie, come quadrupedi, pesci, uccelli, gruppi di pastori e caseggiati; e quindi una fila di bottiglie di vini nostri e forestieri.

In capo alla mensa sedevano Eleonora e Gabriella; al lato sinistro Viscardo, e al dritto Ugo e Raimondo. Il resto de’ convitati occupavano le due ale. Otto donzelli vestiti di rosso e bianco, entrarono eon bacili e boccali d’argento e tovaglie riversate al braccio, a dar l’acqua alle mani de’commensali. E piegato un ginocchio a terra offrivano a tal modo la lavanda. Dopo di ciò passarono in giro delle zuppe e de’ timpani [timballi](per dirla alla moderna), e degli arrosti di pernici ed altra cacciagione privata de’dominii baronali, e in fine varie preparazioni de’pesci più delicati al palato, del mar di Manfredonia, che Viseardo avea mandati in dono qualche ora prima del suo arrivo. Due grossi pasticci, da farne almen venti di quelli che si vedono oggidì, erano in mezzo alla mensa; i quali presi e ridotti a fette vennero distribuiti in giro. Le creme ed altri dolciumi successero immediatamente, accompagnati dal vin di malaga, di sciampagna e di marsala. I quali come che più grati al palato de’vini nostrali, si fanno a preferenza bere. Gli è tanto vero che parecchi ne avean fatto regalo al loro stomaco di qualche bicchiere di più, sicché, come suol dirsi, un’allegria e un buon umore avea invaso il lor cervello. I varii discorsi fino allora agitati e della fiera e del concorso e di cacce e di tornei, mutarono interamente aspetto, e da diversi punti s’alzaron delle voci : —Brindisi, brindisi! —
— Io pel primo — disse il duca di S. Giovanni, a cui il liquore avea prodotto maggior effetto, che negli altri—Io pel primo bevo facendo augurii alla stabilità del governo del mio illustre collega il barone di Montesantangelo, alla bellezza della sua figliuola, che riluce su tutte le fanciulle come stella nel buio della notte; e alla salute di Madonna sua moglie per la quale sfido e giuro che non v’ha al mondo chi più di me la stimi, e sappia augurarle vederla bella e risanata— E bevve d’un fiato un calice di schiumosa sciampagna.
Eleonora ringraziò con modesto sorriso e con un leggero chinar di testa senza far motto. E Gabriella non usa a sentirsi dirigere tali parole, divenne confusa, e s’ intese rifluire il sangue al viso che si colorò tutto di vermiglio.
— Ed io accetto gli augurii — rispose compiaciuto il barone Raimondo—e fo voti anch’io per la stabilità nel governo del suo possedimento, all’illustre amico il duca di S. Giovanni —e tracannò della malaga.
Viscardo che fino a quel momento avea taciuto, rompendo da quando a quando il suo silenzio con qualche parola che scambiava con Gabriella, al cui lato sedeva, s’accorse del pudico rossore della giovane e ne fremé internamente. S’intese ancora come oltraggiato al brindisi del duca nell’augurio fatto alla baronessa. —Per Dio!—mormorò tra se — asserire impunemente e a viso levato, che non v’ ha al mondo chi la stimi e chi più di lui brami vederla risanata ! — Pensare a questo, levarsi in piedi e parlare fu tutto un tempo,
—Ed io — sciamò alzatosi da sedere e in tutta la maestà della sua presenza, con una mano levando un bicchiere, e poggiando il pugno dell’altra sulla tavola — ed io fo voti per la salute della baronessa Eleonora Crimelda, e dico e sostengo che mentisce chi dice stimarla più di me, ed augurarle più di me contentezza e bene ! — e saggiò del vino posandone subito il bicchiere sulla tavola, lanciando sul duca colla celerità del lampo uno sguardo grave e fiero, sinonimo di sfida, se si fosse inteso punto al rimbrotto. Ma il cervello di Ugo annebbiato dai fumi de’ liquori non comprese il motto in tutta la sua misura; anzi prendendolo per lieto augurio, applaudì dando de’ bravo al giovane conte di Manfredonia.
Eleonora lo guardò gravemente in viso, quasi volesse rimproveranelo, ed accennogli risedesse. Al quale guardo, al quale cenno tanto autorevole per Viscardo, s’ intese calmato, e direi pentito; dubitando essersi forse troppo azzardato in fare e dir cosa che era potuta dispiacere a quella donna ch’ ei tanto venerava e teneva in luogo di amorosissima madre. Ma il fatto era già fatto e non v’era da rimediare. E comechè educato era ai delicati e gentili costumi, risedè, e con tal disinvoltura seppe agire ed intavolar nuovo discorso che di ben poco, se non di nulla se n’ebbe ad accorgere qualcuno o qualcuna delle commensali. Se non che Raimondo temendo forte non si fosse offeso il suo amico e collega :
— Il signor Viscardo — prese a dire, lanciando sul giovane un’occhiata di rimprovero— il signor Viscardo, nostro benemerito amico, cresciuto nel nostro castello ed affezionato alla nostra casa, non ci riguarda che come suoi parenti, anzi come genitori; sicché alle volte vinto da affetto, si lascia scappar fuori de’ motti spiritosi… E poi nell’allegria della mensa ed in mezzo ad amici così cordiali certe parole riescon belle e brillanti—Ma l’agitazione del barone si dileguò quando alla sua volta si accorse che il duca un po’ brillo come stava, in nulla avea compreso la forza delle parole di Viscardo, che in altri termini, se si era inteso pungere, valevano una sfida bella e buona.
Ognuno mangiava i frutti; le prime fragole della montagna erano alla mensa del signor Della Scala. Dopo di che rientrati i donzelli riportarono i bacili e i boccali d’argento per dar l’acqua alle mani. La brigata si levò, e malgrado un certo silenzio che imponevano il luogo e le persone, pure nacque un po’ di strepito, elemento indispensabile in simili congiunture; massime quando si è trattato di lauto e brillante convito. Chi rientrava nelle camere, chi andava nelle logge e chi altrove. La compagnia si sparpagliò pel castello; il duca e il barone entrarono nel suo gabinetto, o camera da studio, e quivi sdraiati su due di que’ seggioloni a bracciuoli la passavano in familiari discorsi e in isviscerate vicendevoli offerte. Eleonora, la figliuola e Viscardo uscirono a passeggiar ne’ viali del giardino. Ed adagiatesi le due donne su d’uno di que’ sedili vicino alla fontana, godean di quella vista e di quell’ aria imbalsamata.
— Il benedetto uomo che voi siete —prese a dir la signora al giovane con viso amorevole e battendolo leggermente sul braccio destro.
So — rispose Viscardo eh’ era rimasto in piedi innanzi a loro — so d’aver fatto cosa che avreste forse voluto non fosse avvenuta; ma in quel momento, in quella situazione, m’era impossibile infrenarmi a vista di tanta alterigia. Ad ogni modo vi domando perdono…
— Non dico per questo; che anzi mi duole ad udirvi parlare a tal modo — soggiunse interrompendolo Eleonora, stringendogli la mano per affidarlo del suo affetto — Io v’avrei già dovuto ringraziare. È pe’ rimbrotti che dovrò immancabilmente udirmi da mio marito. Basta, non si pensi più al passato — seguì amorevolmente ed appoggiandosi al braccio di lui quasi volesse lenire quel po’ di amaro che avean potuto produrre (se pur ne avean prodotto per immaginazione) le sue parole al cuore di Viscardo così generoso, che per lei s’ era messo al rischio di perder, se non altro, la buona grazia del barone, già così caldo e tenero pel duca.
Frattanto le campane della maggior chiesa suonavano a festa chiamando il popolo ad assistere ai vesperi che dovean cantarsi al santo Arcangelo. A quel suono, a quelle voci de’ popolani che dalle vie sottoposte salivano confuse sin lassù, Eleonora intese agitare il suo seno a sacre commozioni.
—Oh, se potessimo andare a salutare S. Michele  —disse ella, sul volto di cui leggeasi la viva brama che sentiva di essere in chiesa.
Il desiderio della signora fu comunicato al barone, il quale volle compiacerla, e diede, col beneplacito del duca, gli ordini perché fossero allestiti i cocchi. La voce si diffuse subito pel castello, e la brigata già dispersa per le logge e per le ampie sale, si radunò in un batter d’occhi,
— Si va in chiesa, si va in chiesa — diceano or l’uno or l’altro di loro — E poi alla passeggiata— seguia qualcuna tra le signore.
Si, si — soggiungean parecchi —il barone vorrà andar per la fiera.
— Faremo volentieri un giro per la città — rispose Raimondo — E giusto che renda gli onori dovuti al mio illustre ospite, e gli mostri il brio del paese, e quanta vita e prosperità lo animi—Ed accennò al duca il quale ringraziò compiaciuto con un chinar di capo, accompagnato da un segno colla mano.
L’avviso era già corso: i sergenti ed i servi di città con le braghe a vari colori spazzavano ed inaffiavan le vie pel passaggio di S. E., il barone, e de’ principi forestieri.
I cocchi erano in fila nella corte. Raimondo ed Ugo salirono su uno d’essi, Eleonora, Gabriella e Viscardo occuparono l’altro. Le dame e i cavalieri montaron sugli altri al seguito. Le guardie schierate in fila abbassaron la bandiera, e gli strumenti militari suonarono l’inno cittadino. I valletti precessero [precedettero ]le carrozze, che usciron l’una dopo l’altra avviandosi in Chiesa.
La Basilica di Montesantangelo è nel centro della città su d’un vasto spianalo. L’interno n’è maestoso, gran vaso a tre grandi navate con lunga fila di cappelle ai laterali, parecchie delle quali contan quadri di famigerati [nel senso di famosi, n.d.c.] autori che han fondato una scuola in Italia; come a dire una pietà dello Spagnoletto ed una Sacra Famiglia del Maratti. Ricco di marmi offriva il tempio il puro ordine corintio, che al gaio unisce il solenne. Le colonne co’ capitelli a mille fogliami e con  agilissime volute, rcggeano le grandi e maestose arcate che mostravano ad un tempo la sveltezza congiunta alla solidità del lavoro. Un cornicione su fregio à scannellati e snelle modanature vi mettea capo, da cui s’innalzavan la curva volta ed una grandiosa cupola, auguste per la loro semplicità, e per gli affreschi di Luca Giordano che le ornavano. Un vasto ed armonico organo accompagnava ne’ giorni rituali il canto delle salmodie, e un pergamo ingegnosamente intagliato e reso bruno dal tempo, mostrava esser lavoro di mano pagana in alcuni altirilievi mitologici incisi nel fronte e ne’ lati di esso; ma qual buona opera d’arte non l’avean velato in nulla o barbaramente mutilato, risparmiandolo dal guasto di profano scultore. Peccato che oggi non esiste più !
Per alcuni gradi [gradini], vicino all’altare maggiore, si scende alla grotta dell’Arcangelo S. Michele, difesa da una porta di metallo. Una balaustrata di ferro circonda l’altare su cui è la statua dell’Angiolo coronato di gemme (dono di parecchi sovrani) in alto di uccidere il drago infernale. Stillano le volte acqua per ogni parte, senza lasciar infuso il suolo, e spira l’orror medesimo divozione; la qual si accresce col culto d’insigni reliquie, ministrato da canonici, e penitenzieri e dei voti che pendono intorno alle pareti che vi portarono i devoti. Quest’antico Santuario fu visitato da molti Re e Papi, che vi andarono in pellegrinaggio, e lo arricchiron di doni; e ancora da S. Bernardo. S. Francesco d’Assisi più tardi vi andò pure in pellegrinaggio, e nel fervore della sua anima piena di celesti contemplazioni, vi operò prodigio singolare, incidendo e lasciandovi impressa col dito la croce su d’una pietra che quivi gelosamente si conserva.
Le carrozze giunsero nello spianato, e fermatesi innanzi a’ gradi della cattedrale, vi discesero le signorie loro e il  seguito, ed entrarono in chiesa. Gran gente accorsa ed affollata assisteva ai vesperi che i canonici in rocchetto [abito sacerdotale di lino e pizzo] ed almuzio [abito canonicale di pelliccia] cantavano al suono dell’organo. L’altare maggiore era illuminato da torcetti e candele, e sotto a raggiante baldacchino v’era esposto il Santissimo. Le pareti, gli archi e i pilastri erano adorni di veli celesti e rossi, frammischiati al bianco, tempestati di stelle d’oro, e con frange dorate a’ lembi. Com’entrarono in chiesa gli augusti personaggi il popolo si divise in due ale, dando luogo al loro passaggio. Tre inginocchiatori coverti di arazzi, e con cuscini di velluto cremisino, sui quali era ricamato con fogliami d’oro intorno lo stemma della citta, stavano innanzi alla balaustrata dell’altare maggiore. In quel di mezzo s’inginocchiò Eleonora, e nell’altro d’appresso Gabriella. Viscardo rimase in piedi accosto a loro, e all’altro lato s’eran messi il barone col duca. Quel suono e quelle cantilene, che erranti sotto le antiche volte del tempio si disperdeano nell’ampiezza di esse; le fiamme di que’ ceri accesi, la fede che quivi adunava un popolo intero, l’idea di trovarsi al cospetto del Verbo incarnato che sa scendere nel cuore dell’uomo e leggerne fino a fondo il mistero, infusero un sacro terrore nell’anima di Eleonora, la quale poggiata la fronte alla palma della man dritta, parendole a tal modo di raccoglier meglio i suoi pensieri, apriva il suo cuore al soave della preghiera; e vinta da sacre commozioni, alcune lacrime le caddero sul viso. Ed ella che vedea che tutto qua giù è disinganno, e come sono transitorie e nulle le umane speranze, ad ogni vana lusinga avea anzi tempo volto le spalle, e solo a Dio aperto aveva il suo cuore. E il precetto della sua scuola che consiglia PAZIENZA, l’era pur soave; e tanta fede, tanta rassegnazione l’erano all’anima aura di cielo, di cui già ne presentiva l’ineffabile sorriso. In quell’estasi di raccoglimento ella pregava non con parole distinte, ma col cuore e cogli affetti, per la pace del suo popolo; pregava perché l’animo del marito fosse mite nel governo di quelle genti, e lontano dalla compagnia dell’iniquo e fraudolento; pregava per la sua figliuola e piangeva, pensando qual sarebbe il destino di lei rimanendo orfana della genitrice.
Gabriella guardava la madre cosi deperita, e nel candore dell’anima alzava fervidi voti perché il cielo le ridonasse il primiero vigore a conforto de’ suoi giorni. Quell’ingenuo e sacro sorriso, al quale schiudeasi il suo volto  ti davan tal quale l’idea d’un serafino addormentato accanto al trono di Dio.
Viscardo mirava or l’una or l’altra, e sentiva un tal interno commovimento a scena di tanta pietà; e pur l’assaliva un fremito e un forte conturbamento, pensando come Raimondo era tanto da esse dissimile, e come più le mali compagnie dei perversi, anziché nativa malizia lo dilungavano di gran passi da que’ doveri che debbon esser come specchio a chi sta al governo della terra.
Il barone e il duca or fingean di pregare, or giravano intorno lo sguardo, fissandolo di lancio, ma quasi a scrutinio, sul popolo, scambiandosi spesso sottovoce delle parole.
Levatesi quindi dagl’ inginocchiatori la baronessa e la figliuola si avvicinarono ai gradi della beata grotta, la quale era illuminata da ceri e da lampade d’argento pendenti dalla volta. La folla si aprì al loro passaggio ed esse vi discesero. E risalitene dopo breve preghiera, usciron tutti di chiesa, e montaron su’cocchi andando in giro per la città. Passando di mezzo al gran mercato, la genie si scuopriva il capo salutando il loro Signore. Ma tale ossequio non usciva spontaneo dal cuore, come avviene presso popoli che il cielo rende felici d’un giusto governatore. E qua e là succedean questi dialoghi.
— Che dici, Matteo, eh? mi guardi e tentenni il capo.
— Per tutti i santi e per tutti i diavoli! ne hai tu occhi in fronte per sbirciare? Che ti pare di questo esser cuciti a filo doppio da tempo in qua il duca di S. Giovanni col nostro messer barone?
— Che mi pare, che mi pare, Colantonio! — rispose un omicciattolo zoppo e chiuso nel suo pastrano che gli era alle costole, appoggiato ad una mazza e sulla sua gamba dritta — Questi grossi personaggi non pensano e non fanno che tirar fuoco alla loro pentola.
— Consiglio di volpi distruzion di galline! Povera carne magra! Se non piove fuoco su le loro castella ad arderli anima e corpo, chè già scommetterei la testa che stanno ardendo vivi a casa del diavolo, come accadde di Sodoma e Gomorra… A proposito, sentisti il racconto che ci spiegò domenica il Curato dopo il vangelo?
— Stava anch’io alla predica.
— Sii benedetto; se non piove dunque fuoco sulle loro castella,son guai seri! per la nostra pelle.
— Che Iddio e l’Arcangelo S. Michele ci scampi da’ loro artigli. Già la carestia ci consuma da due anni e mezzo, e il nostro prelibato signor barone non si degna diminuir neanche le gabelle delle grasce [vettovaglie, cereali]!
—Che diavolo fantastichi! Hai forse dimenticato la baruffa che avvenne lì a S. Giovan Rotondo un par di mesi addietro?
— Se la ricordo, compare! Fu perché il Duca Ugo volle aumentar le imposte, mostrando penuria di cereali, mentre avea fatto anticipatamente monopolio co’ mercanti della sua terra, e perfino con que’ di Foggia e di Campobasso.
— Appunto. —
— Credono che i loro imbrogli rimangano allo scuro, ma c’è chi gli scopre la tigna !
— Birboni, birboni ! — rispondea l’altro tentennando il capo—Per ora la malannata e la morte tocca alla povera gente; pazienza ! — e diede un profondo sospiro — Ma verrà giorno però, e non sarà lontano, in cui Iddio ci farà veder coi nostri occhi anche essi in parapiglia, e quindi sul quattro piedi a porli a marcire dieci palmi sotto terra—E si allontanavano tutti, perdendosi nella folla.
Altre persone nella via, e parecchie signore dai balconi delle loro case guardando Eleonora: — Poveretta ! — diceano nel loro cuore — aver la disgrazia di quel marito! — E mandavano un sospiro. — Signore — soggiungeano quindi volgendo gli occhi al cielo—prolungate i suoi giorni e non ci togliete la nostra madre !…
Tanto può nel cuore del popolo l’odio pe’ tiranni, e l’amore per chi lo accarezza e lenisce il peso del dominio che grava su desso !
All’ avvicinarsi che fece il convoglio al castello, alcuni mercanti e cittadini di Manfredonia accorsivi chi pe’ loro interessi, e chi per la venerazione dell’Angiolo, trovavansi ridotti insieme sullo spianato: nel passar la carrozza ov’era Viscardo si tolsero dal capo le berette ed i cappelli gridando: — Viva il Conte di Manfredonia! Viva il prode cavaliero !
Queste voci posero un nobile orgoglio nell’animo del giovane, e volto a chi le profferiva, li salutò col piegar più volte della persona e col chinar cortese del capo scoverto.
Eleonora e Gabriella che tanta stima ed affetto avean per lui che amavan qual figliuolo e fratello, sorrisero a sì generose dimostranze di devozione, manifestando a Viscardo la loro gioia.
Lo stesso non era avvenuto nel cuore del duca di S. Giovanni, al quale quelle grida avean cagionato turbamento, anzi pronunziato disdegno.
I cocchi rientraron nella corte e poco dopo le sale del castello illuminate a giorno da doppieri e candelabri, accolsero la reduce compagnia. Il barone secondo l’usanza dava ogni anno in quella sera una brillante festa da ballo; ma questa volta volle che fosse più splendida per render maggior onore al duca. Il Sindaco col corpo di città, il primo magistrato e l’uffizialità maggiore erano quivi radunati. Le famiglie nobili del paese v’intervennero parimente, e quelle sale si andavan mano mano popolando di eletta e festante moltitudine. La sala di ballo (quella appunto ove vedemmo il barone a parlar colla moglie quando vennevi il messo del duca), era sontuosamente addobbata. Le pareti eran coverte di damaschi celesti e bianchi a larghe fasce, e ornate da grandi specchi con cornice frastagliata e ad oro lucentissimo, sostenuti ne’ due capi da grossi lacci rotondi di seta a vivaci colori. Molli doppieri e due grandi lampadari di limpido cristallo, pendenti dalla volta, v’ardeano : i quali riflettendo negli specchi facean maggiore lo spettacolo de’ lumi. Un palchetto era situato in fondo alla sala,ove sedeano abili suonatori, e in giro in giro de’ canapè e sedie a bracciuoli con spalliere dorate, pe’ convitati.
D’incontro al palco della musica sedevano la famiglia del barone, il conte e il duca, circondali da ampio corteggio di dame e cavalieri.
L’ora è avanzata: la brama della danza ferve in ognuno : già son dati gli ordini perché si cominciasse. La musica suonò da prima un allegro preludio; quindi principiaron le danze. Parecchi cavalieri levatisi da vari punti fecero invito alle dame, lietamente vestite ed adorne di fresche rose, e di brillanti e di altre pietre preziose, luccicanti al riverbero de’ lumi; le quali alzatesi intrecciarono in breve delle quadriglie e balli figurati, e quindi de’ balli a coppia che guardati un po’ alla moderna corrisponderebbero a Walzer o Polke.
Viscardo aveva una vestetta di sciamito [tessuto di seta, simile al velluto] bianco trapunta in oro, con bragoncini dello stesso colore. Levatosi da sedere invita Gabriella ad una danza, la quale accetta e si mette in piazza col suo cavaliere. Aveva ella una veste di raso bianco, ed una reticella d’oro le scendea dalla testa con fermaglio di brillanti ne’ capelli, giù per le spalle fino alle ginocchia. Lo snello piede era calzato da scarpe ugualmente bianche, ricamate in oro. La maestria e la modestia al tempo medesimo con cui ballò la fanciulla destarono nella sala un grande entusiasmo, e molti bravo e prolungati applausi scoppiaron da tutti i punti. II giovane ringraziava col chinar del capo l’adunanza, e conducea la sua dama a sedere. La quale vinta da certo ritegno, rimase come confusa, e il suo volto si colorò di vermiglio. E più crebbe la confusione quando il duca di S. Giovanni alzatosi le andò vicino a far i suoi complimenti.
— Evviva—le disse —da brava; avete superato ogni mia aspettativa.
La fanciulla lo ringraziò modestamente e timida, senza levar occhio da terra.
Il duca avvicinatosi a’ genitori di lei magnificò loro la valentia della figliola, per le grate impressioni ricevutine.
Temendo Gabriella non avesse a ritornare ad impegnarla per un giro di ballo, destramente alzatasi e preso per braccio Viscardo s’allontanarono uniti, ponendosi silenziosi nel vano d’un verone [loggia] a respirar liberi l’aura serena, e a contemplare i misteri della luna addormentata su d’una nube. Quasiché i loro teneri cuori dai quali esalava un affetto, un sospiro fraterno, rifuggissero dal fragor della festa, isolandosi nel chiasso, ed elevando la loro mente ad un ideale che non potea per vero rintracciarsi nel seno d’una gente tutta sensuale e terrena. Non s era infatti male apposta la fanciulla, che Ugo si mosse verso il luogo ove ella sedea per pregarla a voler valzare [danzare]con lui, e non la ritrovando, tornò indispettito al suo luogo.
La sottoposta piazza e le circostanti vie eran gremite di gente d’ogni ceto, gran parte forestieri, accorsi a Montesantangelo a causa della festa e della fiera; costoro guardavano lo sfolgorar de’ doppieri che irraggiava i vetri de’ balconi, a traverso de’ quali si vedean passar volando e come larve d’incerte forme le coppie delle danze, udendosene la giù confuso lo strepito  e chiaro il suono de’ musicali strumenti. In mezzo al popolo si aggirava un uomo con una mezza cappa fino alle ginocchia e col cappuccio tirato sul viso; il quale appressandosi or a questo ed ora a quel crocchio mormorava Qua giù si muore di fame e lassù si sgavazza e si tresca!… Maledetto pecorame — brontolava poscia, guardando la genie che paziente sopportava la miseria e’l disagio.— È suo destino morir servo ed abbrutito!— E si confondea rapidamente tra la moltitudine. Ma chi era mai questi? era un di coloro a cui lo splendor delle feste sono lutto, e le melodie e i canti sono nenie pel loro cuore, quando una calamità pesa sulla patria; e come la ruggine fa del ferro, la rode lentamente!
Lautissima cena era ben allestita; sicché passata la mezza notte l’adunanza si andava or raggruppando, ora sciogliendo, ora si univa a crocchi nelle sale contigue; e dopo d’aver fatto un po’ di cicaleccio si scioglieva schiamazzando, ridendo e passeggiando disordinatamente. E uscivan talvolta a respirare un po’ d’aria fresca fuor quelle lunghe loggiate ad archi acuti, stufi dal caldo della festa. Le danze divennero più rade: si sciolsero finalmente, e tutta la signoria passaron nella stanza ove la mattina s’era dato il pranzo. I suonatori si disposero nel giardino illuminato da torchi [torce]e da lampade in vetri colorati, ed al suono di lietissime musiche la cena era di com- pimento a divertimenti dell’intera giornata.. E chiudevanla varii brindisi di evviva al barone, alla sua magnifica famiglia, ed a nobili suoi ospiti, il conte Viscardo e ’l duca di S. Giovanni.
Quindi la riunione augurata la felice notte, man mano si disciolse.
Ugo intanto ridotto nelle stanze assegnategli si pose a letto; ma poco potè chiuder occhi, tra perché l’immagine di Gabriella gli s’ora confitta alla mente, chè già su lei fatto avea disegno; e tra pensando alla disdetta di non aver potuto ballar con colei che avea fatto beato il giovane signore di Manfredonia, la memoria di cui, non so per qual ragione, gli era di sconcerto alla mente.
Il dì appresso successero nel castello gli stessi conviti, la medesima festa, ed una simile cena. Nella vegnente dimane [il giorno successivo] il duca partì pe’ suoi domini tra gli abbracciamenti del barone, con patti e solenni promesse che si sarebber fra non guari [tra non molto] riveduti.

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Author: Geppe Inserra

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