Viscardo di Manfredonia, la prima puntata

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Così come promesso, Lettere Meridiane comincia, a partire da oggi, la pubblicazione a puntate del romanzo Viscardo di Manfredonia, di Francesco Prudenzano, letterato pugliese originario di Manduria, docente di Estetica e letteratura italiana all’Università di Napoli, dove fu anche vicedirettore della Biblioteca dell’Ateneo.
Noto soprattutto per l’impulso che ha dato alla storia della letteratura, Prudenzano fu uno scrittore particolarmente prolifico. Scrisse drammi, poesie, ma soprattutto romanzi, di taglio popolare.  Pubblicò un romanzo (La corrida incantata) nella collana Romantica Economica di Sonzogno, storico editore che con le sue collane popolari ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo della lettura nel Paese.
Di Viscardo di Manfredonia abbiamo già parlato diffusamente in una precedente Lettera Meridiana, che potete leggere qui.
Il romanzo è ambientato nella Capitanata del 1620, tra Monte Sant’Angelo e Manfredonia, e racconta del contrastato amore tra i rampolli di due famiglie nobili: Gabriella, figlia di Raimondo della Scala, barone di Monte Sant’Angelo e Viscardo Alderani, giovane e coraggioso conte di Manfredonia.
Il primo capitolo, che pubblichiamo oggi, contiene descrizioni molto ricche e suggestive della terra in cui si svolge il racconto. I riferimenti di Prudenzano sono così precisi da far pensare che certamente egli conosceva i luoghi in cui ambiente il romanzo, ed anche approfonditamente. 
Il testo è accompagnato da alcune note (racchiuse tra parentesi quadre) per agevolarne la comprensione. 
Buona lettura.
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VISCARDO DI MANFREDONIA
Racconto di Francesco Prudenzano
Il Tavoliere di Puglia che s’innoltra gran passi ne’ confini della terra di Bari , e si stende quasi per tutta Capitanata , è uno spianato di circa 70 miglia , ove la mano dell’agricoltore non ancora ha reso industre e fruttifero quel terreno. Da un braccio bagnato dall’Adriatico , tocca fior fiore dagli altri la Contea di Molise e la Basilicata. II fiume Ofanto ne lambisce pacificamente il suo seno, e varii laghi e fiumicelli lo ricamano e lo fecondano co’ loro rigagnoli , e lo rendono ameno ; rompendo quella monotonia che è conseguenza del non vedere, se non assai di rado, prati e giardini verdeggianti, o amene colline e poggi e declivi, su cui l’occhio riposandosi possa trovare un non so che di svariato , o il fondo al gran quadro della natura che si offre in quell’orizzonte. Solo il guardar cielo e terra è cosa che ti grava lo spirito. Non pertanto questa lunga parie del regno contiene delle popolose città e delle grosse borgate , gli abitatori delle quali sono alla rinfusa chi più e chi meno industri ed attivi, alcuni, anzi la maggior parte intenti alla pastorizia, perchè le loro ricchezze, siccome quelle de’ Patriarchi , consistono in mandre; alcuni altri alle saline , ed altri ne’ paesi sulle coste, al traffico marittimo con Trieste, Venezia, e fin con la Turchia Europea. 

In un angolo di questa smisurata pianura sorge gigantesco e selvaggio il monte Gargano, famoso ne’ fasti religiosi e civili, per la comparsa dell’Arcangelo S. Michele, per la disfatta di eserciti e bande straniere, e pe’ fatti gloriosi ancora di Ettore Fieramosca , tanto egregiamente narrali dal non mai lodato a bastanza Massimo Dazeglio. All’ uscir che fanno da Foggia i viaggiatori che vanno alla volta di Napoli, lo lasciano a man dritta, e da quella lontananza lo vedono a guisa d’ una nuvola gonfia di pioggia. Le sue radici sono bagnate da un lato dal mar d’Adria, ove si distende per intero il suo promontorio , assai noto per le moltiplici erbe medicinali, chiamato dai naturalisti giardino botanico ; e dalle altre parti si diramano e si perdono nella terra ferma. Sulle sue creste sorge la città di Monte S. Angelo; varii villaggi e siti di diporto sono posti qua e là vicino alla grande strada, che a guisa d’una immensa serpe, fatta a spira intorno al monte , immerge e bagna la coda nel mare, ed alza superba la testa al ciclo , conducendoti alle sue vette. 
Sul declivio d’uno de’gioghi dalla parte di terra è pittoresco il villaggio di Rignano , il quale anziché un gruppo di case e templi e palagi, pare da lontano una scultura ad allo rilievo. Alle sue falde si dalla banda di terra che da quella di 
mare s’ alzano città villaggi e borgate, alle quali stanno come a contrasto punte inaccessibili sopra burrati cadenti a piombo nel mare , e valli profonde e sterminate. 
I sempre verdi aranci che ne rendono odorosa l’aria, le secolari querce, i vaghi abeti ed i fruttiferi ulivi vestono le sue spalle ; e in sullo scosceso dal Iato boreale agita la sua [capigliatura, chioma]al vento ampia boscaglia. Torna pur bello all’occhio vedere tra il folto di quella verdura il bianco delle ville e del caseggiato de’ paesi, ed alcuni rigagnoli che riescono, per via di stradicciole, a cascate ; o zampillano tacitamente nel molle di rigogliosa erba. Il tutt’ insieme offre alla vista un paesaggio de’ più svariati ed ameni d’Italia. 
E se coll’ occhio scrutatore dello storico tu passeggi le falde del monte Gargano , tu vi scorgi torri e castelli abitati ne’ tempi di mezzo da signorotti ed oppressori, ed ora barbaramente rimodernati e ridotte casa di diporto. 
La mano architettrice della natura ha lavorato qua e là alla svariata delle caverne anguste all’entrata, e larghe e lunghe nell’ interno; dove la follia degli antichi faceva abitar delle streghe ch’erano spesso in tregenda coi demoni e coi baroni , quando questi prendeano consiglio a mal dominare. Le quali caverne per vie sotterranee si stendevano fino al noce di Benevento, dove nelle grotte sottoposte abitavano le commari , con cui avean conciliabolo, facendo insieme il più delle sere al chiaro di luna, il ballo della ridda [antica danza di gruppo, che si ballava in cerchio, tenendosi per mano]. E basta consultar le tradizioni popolari , o legger le cronache di que’ tempi , per sganasciar dalle risa le più grasse e smodate, in vedere come que’ nostri buoni avoli , che viveano proprio coll’innocenza battesimale, giuravan fede a queste fole, e con quanta coscienza scrivean fatti che gente di malaffare e volponi sopraffini, di cui l’età moderna non ne ha idea , davano a credere al volgo , per loro fini tristissimi. 
L’onda che or si muove tranquilla, ed ora si frange irata ai piedi del mente , ti dà tal quale l’idea de’ giorni e delle vicissitudini della vita umana, che urtano e si rompono contro al tempo tiranno e vorace distruttore. 
Tanta bellezza ed ubertosità di luoghi sotto un cielo sempre ridente, sempre puro, sempre diafano, veniva ancor essa sui principii del secolo decimosettimo (epoca in cui han luogo i fatti che imprendiamo a narrare) dominata dai baroni e signorotti che infestavano ogni contrada d’Italia. I quali in niente degeneri dal rimanente de’ colleghi , metteano imposte e gravami a loro malsenno ; nulla curandosi della malannata e della penuria de’ ricolti [raccolti]. E se non fosse stato per quel gran lume di civiltà, e per la provvida mente di Napoleone che gli sbaragliò e distrusse tutti quanti come le locuste della Bibbia , mostrando che fra essi e noi non correva alcun divario , a quest’ora il genere umano ne sarebbe pur miseramente oppresso e vilipeso. 
Possedeva a que’ di la terra di Monte S. Angelo Raimondo Della Scala, temuto e potente barone , d’ indole inclinata più al male che al ben fare , dal quale ne lo ritraeva , come veniale in vista, Eleonora Crimelda moglie di lui, di affetti gentili e d’anima religiosa ; e spesso le preghiere e le lacrime della sua tenera figliuola Gabriella spianavano le rughe di quel cuore impassibile ai sospiri , e salvavano alcun misero dai trabocchetti, o dal nappo attoscato [tazza avvelenata], o dal notturno pugnale a cui era destinato vittima. E benché la baronia si estendesse ancora ne’ villaggi dintorno; pure la sua sede ordinaria era a Montesantangelo. 
All’estremità del paese, e propriamente nella parte ove guarda il mare, sorgeva un bruno castello colla fronte cinta di merli ove serpeggiava l’edera antica ; e con torrione su cui sventolava ne’ giorni di gala la bandiera collo stemma baronale. Un ampia corte nella quale si entrava da un cancello di ferro , guardato da sentinelle, conteneva in giro le caserme ove alloggiava la gente d’arme e i bravi del barone ; i quali spesso avvinacciati finivano col graffiarsi il viso , o cavarsi un occhio, o a dirittura, volendosi spicciar più presto, col ricevere spesso or l’uno or l’altro dal compagno più robusto o più lesto il passaporto per l’altro mondo. Nè credete già che di questo si portasse gran pena : tutto stava all’umore con cui accoglieva la novella il Signore ; chè doveva esser proprio uno de’ suoi cariti [cari] il morto per far impiccar per la gola l’ ucciditore. 
In fondo al cortile v’era un ampia scala che mettea capo a un ponte levatoio , il quale , difeso ne’ margini da aste orizzontali di ferro , dava adito in un’ampia sala di gotica architettura. Agili e svelte colonne ad alto rilievo stavano ad appoggio di quegli archi acuti o spine della volta ; e davan luce finestre lunghe e strette a vetri colorali , sostenuti da massicce imposte che resistevan da secoli, a’venti che si rompevano a buffi. E nel vano di quelle ben poteano comodamente dormire due persone , o starne a pranzo una dozzina : tanta n’ era la doppiezza delle muraglie. Contigue alla sala a man dritta , erano gli appartamenti della famiglia ; a man sinistra le stanze ove convenivan gl’ impiegati dell’ amministrazione de’ feudi, tenevansi le udienze, e trattavansi di affari della suprema giustizia. In fondo, o di rimpetto alia porta d’ingresso, si entrava a delle vaste sale, destinate per conviti, per riunioni e per feste da ballo. 
In una di queste sale propriamente la mattina del 5 maggio dell’anno 1620, in circa le 15 ore d’Italia stava gittato a sedere su d’ una sedia a bracciuoli colla spalliera acuta e dorata, il barone Della Scala. Aveva il capo coverto da un berettone riquadrato di velluto cremis, fregiato di gallone di lucidissimo oro ; di sotto al quale uscendo lunghe ciocche di bianchi capelli cadeano intorno ad un viso rigido che di rado si piegava ai sorrisi ; e folta barba dello stesso colore gli era sul mento. Gli scendea giù dalle spalle fino alla mezza persona una zimarra di drappo leggiero , ed avea de bragoncini fin sotto al ginocchio , stretti da fibbie d’ argento, che lasciavan vedere una calza di fina maglia ; avendo le scarpe di velluto alla spagnola. Una bassa predella stava sotto a’ suoi piedi , ed un tappeto a fiorami era spiegato sul pavimento. Un cagnolino gli era accovacciato a’ piedi , ch’egli molestava colla punta d’ un sottile bastone che avea fra mani. E la bestiolina in segno di amore dimenava la coda , senza alzare il muso che tenea disteso fra le due zampe. 
Ad un canapè , alla sua dritta , ad alta spalliera e con cuscini di damasco cremis, sedeva Eleonora allor allora entrata, donna intorno ai 40 anni, che i dolori però d’ una vita travagliata faceano giudicare a chi la guardasse , aver già toccato la cinquantina. Vestiva un abito scuro e semplice con merletti intorno al collo , e polsini ricamati ; ed avea fra mani un libro legato in velluto cilestre con doratura e fermaglio a crocetta. La quale dopo di aver salutalo il marito gli si era messa a sedere vicino. 
— Che vuol dire che stamane vi siete levata più per tempo del solito ? — domandava il barone distraendosi un tantino dal diletto che prendea sulla bestiolina, e fissandole gli occhi in viso.
— L‘è pure un ora ch’ io sono in piedi: ho ascoltata dalla tribuna la messa giù alla chiesetta, e dopo son entrata nelle vostre stanze. Vi trovo invece qui…
—Oltre il consueto, vorreste forse domandarmi — la interruppe Raimondo, accarezzando la sua barba.— Vi dirò. Due motivi mi ci fanno stare: il primo è che ho dovuto ricevere il Conte di Minervino, il quale è venuto a dirmi buon giorno prima di mettersi in viaggio per alla volta della sua terra; il secondo è che ho voluto dar un occhiata all’ addobbo che ordinai venisse fatto a questa galleria: e veramente me ne compiaccio. Trovate anche voi che siano stati di buon gusto i tapezzieri ? 
— Già l’avea vista fin da ieri e non ho cosa alcuna da osservare — Rispose la signora con una tale avvenenza e sottomissione di parere, che sembrava in nulla opporsi al guato del marito. 
— La curiosità è delle donne : sicchè non me ne meraviglio. Dopo domani è la vigilia della festa dell’ Arcangelo  Michele, nostro patrono, e qualche illustre ospite non ci mancherà certo. Un par di feste da ballo saranno il compimento de piaceri che si godranno in queste giornate, viva Iddio ! non mi anderebbe certo a sangue che si vociferasse ne’ vicini castelli che le sale del barone Della Scala eran cosa ben ordinaria e da confondersi di leggieri con quelle de’ nostri sudditi. Già sai l’invidia ch’io m’ho attirata, e come vorrebbe vedermi disteso qualcuno de’ cagnotti colleghi ; ma han da fare con me, han da farla con me — ripetè tentennando il capo, e dandosi leggermente sul ginocchio col pugno chiuso. 
— Non comprendo come voi , uomo di mondo , che già sapete le cose come vanno , dovete discendere fino a dare ascolto alle calunnie che questa vil gente viene a soffiarvi all’ orecchio. 
Solo l’idea di perdere il salario, mancando di che venirvi a rapportare, li fa divenire eloquenti favoleggiatori. Comprendo bene che non tutti ci amano ugualmente ; ma se aveste lor fatto viso duro fin dal bel principio le esagerazioni non sarebber cresciute fino a questo punto , e voi non sareste salito a tanto sdegno , nè avreste sentito tante molestie. 
— Immagino benissimo che le tre quarte parti sieno invenzioni belle e nette; ma certe cose costano proprio a me. Credete voi che questi baronetti, questi conti da tre soldi’, questi duchini e marchesini seminati per le Puglie non odiino la nostra grandezza? Oh Eleonora! scommetterei il mille contro uno, e porrei senza rimorso la mano sui santi Evangeli che la fama non mentisce. 
— Ma a che tali inimicizie? ove stanno le pruove di questa rugine contro di voi? — prendeva a dirgli la signora , congiungendo le mani in atto di persuasione , volendolo indurre ad un tempo ad allontanare d’ intorno a se tanta causa di fomite a discordia, e d’ingrossamento e di continua perturbazione ; tutto quel sudicio canagliume dì delatori che vergognosamente pertiene alla razza umana. Ma l’ era inutile , che è condizione della nostra natura credere più al male ed appigliarci al peggio , anziché ad un po’ di bene e di men rio che in mezzo a tanto guasto rimane sulla terra. 
Eleonora si affrettava vie più a volere sbandire [allontanare] dalla mente dei marito ogni ombra sinistra e malaugurosa alla vita civile e domestica , con tanta soavità di parole e di modi ; ma Raimondo che fino a questo punto avea taciuto tenendo gli occhi sbadatamente giù a terra , gli sollevò in un tratto e gliele fisse in viso, rispondendole a tal modo : 
— Credete voi che il duca di Bovino , che il conte di Campobasso siano proprio quegli amici svisceratissimi che si dimostrano , e si sbracciano a volermi dare ad intendere ? Ecco perchè sento la necessità di stringermi in lega con altri potenti, e star sempre in guardia de’ loro blandimenti e carezze. Alla fin de’ conti poi quando dobbiam trattare a maschera caduta, lo dico e sostengo apertamente che mi sento assai più forte di tutti loro, ed uno sgabellotto glielo potrò dare benissimo. Per S. Michele! seicento fanti e cento cavalli non giungono a radunarli essi in complesso , come gli ha solo nella corte del suo castello Raimondo Della Scala. Basta , saprò dirti più in là cosa che rumino da lunghi anni ; ora non n’è il momento d’ intrattenerci in questi discorsi… A proposito — soggiunse dopo qualche minuto di silenzio , cambiando discorso — il conte di Minervino m’incaricava di presentarvi i suoi ossequi, anzi voleva farveli esso medesimo, ma io che avea la gran voglia di sbarazzarmene , atteso la noia che mi cagiona la sua presenza, ad onta che sia un buon diavolo di amico , l’ho ringraziato dì tanta bontà, dicendogli che una indisposizione che da più mesi v’incomoda , non vi permettea stare a quell’ora fuori le coltri; senza sapere che eravate già nel coretto a dir le vostre orazioni. 
Mentre Raimondo ed Eleonora erano in questi colloqui si aprì la porta di contro, ed uno de’servi annunziò esser giunto in quel momento un messo del duca di S. Giovanni Rotondo, con lettera diretta al barone. 
— Che entri — rispose Della Scala , nel cui cuore era già corso come corrente elettrica un lampo di gioia , che tal nome bastava destargli. 
Il servo uscì, ed indi a poco entrò un Valletto pulito, ben pettinato, tutto inchini; il quale fermatosi a breve distanza del barone gli disse : 
— Il Magnifico Duca mio serenissimo signore, invia me suo servo umilissimo a Vostra Eccellenza Illustrissima , per ringraziarla del cortese invilo fattogli per la festa , prevenendola ch’egli v’ interverrà, in segno di gradimento e della più grande amicizia. — E gli consegnò quindi con un inchino la lettera in cui era scritto presso a poco quanto gli avea riferito a voce. 
— E benissimo — rispose il barone , alzando gli occhi dal foglio dopo di averlo rapidamente scorso. — I nostri ossequi al Serenissimo Signor Duca, soggiungendogli da nostra parte che siam fortunati averlo con noi in questa occasione. 
Il Valletto fatto un terzo profondissimo inchino uscì dalla galleria, e la porta si richiuse dietro alle sue spalle. 
Quell’incertezza e quel fastidio che occupava il cuore del barone si mutarono in sorriso: le rughe della sua fronte si spianarono , come preso da interno compiacimento. All’opposto tal nome, tale annunzio , turbarono Eleonora , la quale levatasi, si ritirò nelle sue stanze. 
(1.continua)

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Author: Geppe Inserra

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