Viscardo di Manfredonia, Capitolo 2

Di seguito il secondo capitolo di Viscardo
di Manfredonia, di Francesco Prudenzano, che Lettere Meridiane sta pubblicando
a puntate. Per non perdere neanche un episodio, trovate qui, su questa pagina, l’elenco dei personaggi, i
collegamenti ai diversi capitoli, il riassunto delle puntate precedenti. Buona
lettura.
CAPITOLO
II.
Un colpo di cannone, tirato verso le otto ore del mattino
della vigilia di S. Michele, dai bastioni del castello che guarda la grande
spianata di Montesantangelo; annunziò alla città che s’ era aperta la fiera.
Nello stesso momento fu inalberata in cima al torrione la bandiera collo stemma
baronale (S. Michele che uccide l’infernal drago, in campo bianco). A tal
segnale la gran massa di popolo e di mercanti quivi affollati a preparare
silenziosamente i loro negoziali, si muove, s’agita, schiamazza, compera, magnifica
la sua mercanzia. I giumentari fan galoppare i lor cavalli e le lor mule, per
mostrarli sani e di piè snelli alla corsa. Il bagattelliere sotto una di quelle
tende, delle quali è cinto il largo da sembrare un campo di battaglia, mostra i
ninnoli ai fanciulli ; i quali invogliati, vedendoli ballare ed alzar le
braccia e le gambe, e muover la testa, per via di fili che si tirano, piangono
avviticchiati alla gonna della mamma e alle ginocchia del babbo, tirandoli
verso lì perché glieli comperi.
— Ninnoli, ninnoli — grida il bagattelliere— chi vuole il
Pulcinella, l’ Arlecchino e il Capitan glorioso, venga qui — E leva in alto
colle due mani vari di que’ fantocci, e gli agita; e tirando le corde gli fa
muovere in diverse guise.
— Trombette, pifferi e chitarre — s’ode gridare dalla parte
opposta — comperale, ragazzi, comperale — e per invogliarli dà fiato uno per
volta a quegli strumenti, e ne strimpella quindi le corde dell’ altro.
—Santi e Madonne — dà voce un terzo — tengo S. Giuda Taddeo
e Santa Barbara, che li scampa dai fulmini, S. Vito che ti libera dai cani
arrabbiati, e i briganti al vallo di Bovino. Un carlino la stampa.
E mentre parecchi di qua e di là si moveano affollandovisi
vicino a comperar le figure, poco discosto da lui si aggruppavano altri
popolani innanzi all’aperto d’ un’ altra trabacca [tenda] d’un libraio ambulante, il quale reputava vender meglio la
sua merce tenendo squadernati su alcune tavolette un centinaio di volumi di
colori e forme svariate, e gridando a tal modo.
— Chi vuole le belle storie, e l’almanacco perpetuo. Tengo
D. Chisciotte della Mancia e la Divina Commedia, l’ Orlando Furioso e il libro
per la messa, la novena di S. Antonio e la storia de’ Masnadieri. Romanzi di
cavalleria e novelle galanti.
— San Michele che ammazza il diavolo— vocifera un altro con
voce chiocchia [chioccia]e nasale. —
Delle statuette di pietra molle. Compratelo ch’ è il nostro protettore. In un
lato della piazza lontano dalle trabacche [tende],
si vedea da una porta uscir del fumo, e veniane fuori insiememente un odore
acuto di vivande, e più specificatamente di fritture. E come la cosa più
positiva pe’ popolani e compratori, il masticare un po’ di robba cotta a prima
mattina per star bene e quieti coll’appetito gran parte della giornata; così vi
accorrevano a dozzine, tratti dalle parole del cuciniere, che san tanto bene
stuzzicar lo stomaco e farli venir l’acquolina in bocca. In fatti :
— Ah che triglie! ah che triglie! Son vive le anguille del
lago di Lesina. Correte, escono calde calde dal fuoco — gridava con una specie
di cantilena l’ostiere, ponendosi sotto la porta della sua bettola, con berettone
bianco in capo e con grembiale di canavaccio ai lombi che gli scendea giù fino
al malleolo ; tenendo una mano alla cintola e l’ altra accosto alla bocca, per
far uscir unita la voce che si udiva da un miglio lontano.
— Anelli, collane e orecchini— dice il gioielliere — Tengo
le reliquie con le ossa de’ martiri d’Otranto, con un pezzo della camicia di S.
Paolino, e il dente di S. Apollonia legato in oro. A prezzi discreti.
— Cani, cani — grida poco discosto un uomo che ne ha una
sporta in capo — Cani, cani — ripete — ti guardan la casa dai malandrini, e
prendon gli uccelli alla caccia.
— Gatte, gatte — risponde una donna, avendone a’ piè un
sacco legato in cima che si vede muovere qui e qua, e si ode da dentro
miagolare in vari tuoni — Belle gatte: ti serbano il granaio netto dai topi.
Passeggia in fiera una dama elegantemente vestita, appoggiata
al braccio del marito; e il loro figlioletto che gli va accosto, con que’
capegli ricciutelli e biondi, che pare un sacro bambino,  tira per mano con tanto bel garbo ed affetto
or la mamma, or il padre verso un giovane venditore che dice : — Bel canerino,
signori, il bell’ uccello colla gabbia.
—Tre ducati l’asino di S. Giuseppe colla macchia bianca
sulla schiena — grida uno zingaro con cappello a mo’ d’imbuto e giubetto rosso
con bottoni di stagno a barilotti, tirandoselo a cavezza. — Chi ha i denti
guasti venga qui: glieli tiro a pochi soldi e sparisce il dolore— strilla un
cerretano [ciarlatano], montato su d’
una panca con una tenaglia in mano — Venite, venite, ho l’unguento pe’ calli ai
piedi, il calmante per le partorienti, il sonnifero pe’ bambini, l’ acqua
mirabile per la vista perpetua, e la tintura pe capelli. Accorrete, signori,
correte.
—Chi vuole che gl’indovini la ventura— dice una zingara in
sulla quarantina, snella di membra, bruna e con occhi irrequieti, in gonna e
zendado [tessuto leggero di seta]
rosso — Saprò dirgli quant’ anni campa, chi gli vuol bene e chi gli vuol male,
se la sua ragazza lo ami, o se l’intenda con più d’uno. — E pur non vi manca
chi le si accosti e le dia credula udienza. Veramente non sarebbe da strabiliare,
che in que’ tempi pregiudicati in cui le maliarde despotizzavan delle menti,
era meno reo e perdonabile. La gran meraviglia è in vedere come anche oggidì vi
sien de’gonzi che si pieghino a tali schifezze; quasi che queste straccione
avessero potenza di penetrare nel mistero e rivelarlo su due piedi e all’
impensata; cosa ch’è solo di Dio.
—II ballo dell’orso colla scimmia— s’ode una voce di mezzo
alla calca, e quindi un suono di piffero e di gran-cassa, segno del
cominciamento del ballo animalesco; al quale fan cerchio popolani e zingani [zingari], accorsivi da più punti a
prendersi sollazzo.
E l’agitazione, il movimento, e Io schiamazzo cresce ad ogni
istante. Voci in tutti i tuoni dei venditori, cantilene e fischi, suoni di
strumenti, ragghi d’asini e belato di pecore, canti delle galline e muggito di
buoi, ed altri mille rumori e fracassi che da lontano sembrano il ruggito d’un
uragano. In un tratto quella gente, intenta chi a divertirsi e chi a far negozi
si vede far largo di qua e di là, e darsi in dietro, e aprire uno stradone, e
guardar curiosa verso in fondo alla via.
—Che è? — che non è? domanda or questi or quegli al suo
vicino.
— Non vedi — risponde quell’uomo in beretta e tabarro —
arriva il duca di S. Giovanni: c’è invito al castello.
—Consiglio di volpi, distruzioni di galline— sussurra quel
brunozzo all’orecchio del suo compagno. Fra di tanto giunse una cavalcata di
circa 40 persone, preceduta da due trombette. Il duca con cappello piumato a
larghe falde cavalcava un bel cavallo baio, cui cuopriva dalle orecchie alla coda
una grandiosa gualdrappa tinta d’ un celeste carico, attraversata da linee
giallognole, coll’impresa ducale ricamata sulla spalla e sul banco ; e finiva
da piede in drappelloni che giungevano al ginocchio della bestia. Quattro cavalieri
di compagnia andavangli a’ lati, il resto erano lance, a’ suoi soldi. Al
passaggio di lui i circostanti si scuoprivano il capo, e il duca salutava a
manca e a dritta or con un segno di mano, or toccandosi il cappello, or
curvando leggermente la persona sul cavallo. La cavalcata attraversato il largo
entrava nella corte del castello. I soldati del barone schierati in fila gli presentan
le armi e abbassano la bandiera; e gli strumenti militari lo salutano col
suonare l’ inno cittadino. La brigata scavalca a’ piedi dell’ampia scala, ove
paggi e cavalieri del barone sono discesi a ricevere il duca. I famigli e i
ragazzi di stalla prendon per la briglia i cavalli spumanti e li conducono
nelle scuderie.
Raimondo ch’ era ad una delle logge rientra a tal vista e va
incontro all’ illustre ospite, il quale già passa il ponte. L’incontro è nella
gran sala. Dopo essersi stretta la mano e baciati in volto si domandano a
vicenda conto e della salute e del ritardo del farsi vedere, e cose simili.
Raimondo ed Ugo eran da gran pezzo amici ma o l’uno avesse
gelosia od ombra dell’altro, o come diavolo si fosse, niun di loro fino adesso
s’ era arrischiato di metter piede nel castello del vicino. Non si mariviglierà
il lettore di tanta diffidenza, chè in que’ tempi di rapinaggio i signorotti
cercavano ingrandirsi col farsi la caccia l’un l’ altro ; ponendo il vincitore
grosse taglie per la liberazione del prigioniero.
I due nostri personaggi s’eran dunque spessissimo visti ai
confini de’ loro territori; ma oramai svanito il dubbio, ed ogni sinistro
pensiero, il duca pel primo visitava il castello .del Gargano.
— Par che debba esser obbligato a S. Michele della vostra
venuta, mio caro duca —prese a dirgli Della Scala — Tal fiera vi ha dato la
spinta, e sua mercé io godo degli onori che mi partecipate.
— Smettete le cerimonie, barone; ve ne supplico — rispose l’altro.
— Voi sapete ch’ io son un uomo franco. Se così non fosse già v’ avrei a quest’ora
risposto esser tutto mio l’onore, e via discorrendo.
— Sempre lo stesso amicone cordiale.
— Non muto per nessuna cosa al mondo. Dovrei anch’io
lagnarmi con voi del modo istesso tenuto meco…
— Se molto volentieri sarei venuto a S. Giovanni a passar
quattro giorni nel vostro castello! Ma io non sono scapolo e senza cure di
famiglia come voi ! Mia moglie, che ha tanta premura vedervi e fare i suoi
convenevoli, da tempo in qua è infermiccia ; e Gabriella che l’ è sempre vicino
ad assisterla, non mi ha permesso mai di appagare tal mio desiderio…
— Questa volta, non per cerimonia, ma ve lo dico con tutto
l’ animo, sarei stato l’ uomo più fortunato del mondo aver nel mio castello la
baronessa e la signorina — Lo interruppe il duca—- Ma io son desideroso far i
miei complimenti colle signore: presentatemi loro.
— Le sono ansiose, ve lo diceva — E passarono per una fila
di stanze andando diritti nella galleria. Quivi sedeano in due di quelle sedie
a bracciuoli vicino ad un de veroni [veranda]che
guarda la gran piazza, una d’ incontro all’ altra, in semplice ma eletta vestitura,
Eleonora e Gabriella. Gran numero di parentado, e d’amici tra la nobiltà del
paese, invitati dal barone per far bella accoglienza al duca, faceano eletto
cerchio intorno ad esse. E v’ eran tra loro i Muzi, i Conti Giorgi Della Scala,
il Marchese Torre, la Contessa Perucci, ed altre famiglie illustri di
Montesantangelo. Tra le parecchie donzelle radunatevi la figliuola del barone
riluceva come stella nel cupo della notte, elevandosi su tutte per ingenuità di
bellezza e gentile modestia. Ella toccava appena il diciassettesimo anno, la
sua statura tendeva all’ alto, la fronte spaziosa, bionda e folta capigliatura,
sottili sopracciglia, sotto cui ascondeansi due occhi cerulei, pietosi nel guardare
e chini per natio pudore. Il suo volto era sempre composto a un tal sorriso, da
mostrare il soave candore dell’ anima. Lungo ed agile collo, e il suo colorito
vincea nella bianchezza il giglio, se non che le gote si sfumavano in un
leggero incarnato. Le sue mani, modestamente raccolte sulle ginocchia, eran lunghette
alquanto e strette, dove non v’ era nodo nè vena ch’eccedeva. Da sotto all’orlo
della veste che scendea lungo al suolo, sporgeva a metà un piede snello,
piccolo e ritondetto. Gabriella da natura area ricevuto un non so che tutto
divino: l’anima sua possedeva le stesse ingenue grazie del suo corpo: infinita
dolcezza di sentimenti: e nello spirito tutto soave ed alquanto meditabondo:
della donna possedeva la timidità e l’ amore, dell’ angiolo la purezza e la
melodia.
Quella eletta adunanza era intenta a discorsi svariati, quando
si volge a guardar verso la porta di mezzo, levandosi tutta in piedi. In tal
punto entra il barone, tenendosi per mano Ugo Rocciglione, duca di S. Giovanni,
seguito dal suo corteggio, e lo presenta alla moglie e alla figliuola e quindi
al resto della schiera.
Era Ugo incirca ai 40 anni; ma coi capelli lunghi e ben
arricciati, colla barba coltivata e nera che gli crescea in un largo pizzo al
mento, e in due folte basette, ne mostrava assai di meno. Se non che i peli
de’mustacci [baffi], cominciando a fargli
cattiva rioscita, sdrucciolavano verso l’ estremità un po’ al griggio, che la
malizia del duca per altro cercava coprire col velo della galanteria, incerandoli
con odorosa pomata ; sicché finivano in due acute punte. Un occhio nero e
vivace, su d’un viso stretto ma colorito appalesava una gagliardia di membra e
di pensare. Un circospetto modo nel parlare e nel gestire e nell’andare eran
sua  indole e natura. Nel vestire era
ricco, ma caricato a segno che andava al barocco. Indossava un robbone di raso
trinciato con disegno e guarnito di trine. Sopra il giubbone avea una casacca
di drappo colle maniche dietro garbatamente, dalle quali uscivan fuori le
braccia vestite colle maniche del giubbone. Una mantelletta di saio cremis,
foderata di zibellino, e ricamata in oro, gli scendea giù dall’ omero sinistro
sino alla mezza persona. Avea i bragoncini con tagli ornati di trine d’ oro e
con calze finissime di seta, e calzava scarpe di velluto alla spagnola. Teneva
alle mani lunghi guanti, nel dosso trapunti in oro. Dal fianco gli pendea,
sostenuta da una cinta tempestata di gemme, lunga spada con impugnatura d’ oro
e con fodero di velluto.
— Ho l’ onore — prese a dir il duca ad Eleonora, in un
atteggiamento d’ inchino e col suo cappellin piumato sotto al braccio — Ho l’onore
di conoscer la magnifica signora Baronessa e la sua graziosissima figliuola — E
diede nel profferir le ultime parole un’occhiata di sbiego a Gabriella.
— Vi ringrazio — risposegli la signora levando lievemente
gli occhi da terra — vi ringrazio della bontà, e del pensiero di visitare il
nostro castello.
Il duca le rispose con un sorriso e con un chinar di testa.
— Mi duole — prese a dirle poscia sedendole vicino — vedervi non bene in salute
; pur tuttavolta [tuttavia] un po’ di
distrazione e un po’ d’aria diversa vi risanerebbero interamente, restituendovi
quella sanità, ch’ è pur tanto necessaria alla vostra casa ed a  vostri amici.
— Non per me io la desidero, signor Duca — rispose Eleonora
schiudendo il labbro ad un mesto sorriso — Non per me; che già non avrei troppo
di che compiacermi di questa vita; ma unicamente per la mia figliuola mi può
esser caro un po’ di esistenza ; chè non le resterebbe altri sulla terra se
perdesse sua madre.
Quel rimescolamento, quel leggero susurro, nato per l’arrivo
del duca e sedato per pochi istanti, si riprodusse per l’arrivo di altra
interessante persona che abbiam la voglia di conoscere.
— Oh! siete il benvenuto — esclama il barone levandosi da
sedere ed andando incontro all’arrivato; e presagli la mano lo presenta al duca,
dicendogli — È questi uno de’ nostri carissimi amici, Viscardo Alderani, Conte
di Manfredonia, collegato alla nostra casa.
— Godo in conoscervi — dissegli Ugo, stendendogli la mano e
stringendo quella di Viscardo. Ne avea desiderio da piò tempo, che già il
vostro nome è fatto popolare per tulle le Puglie. Ho sentito dir molto delle
arti, cavalleresche che possedete a maraviglia, e me ne compiaccio. Evviva!
abbiate anche me nel numero de’ vostri amici.
Viscardo che aveva già inteso giù nella corte del castello
l’arrivo del duca, pensò subito esser quegli desso a cui presentavalo il
barone; e con modi cortesi e da gentil cavaliere qual egli era, rispose ai
complimenti di lui.
È pur vero— disse quindi il giovane rivolto ad Eleonora che
gli era vicino—che in questi dieci giorni ch’io manco da qui la vostra salute
ha patito deterioramento?— E mettea un sospiro, e le prendeva la mano che
baciava con affetto filiale.
— Bisogna far la volontà del cielo — gli rispose la
baronessa amorosamente — Iddio così vuole: sia pure.
— Il cuore però mi presagisce che voi starete bene fra non
guari [molto]—Su via, Gabriella e voi
non mi dite nulla? —Soggiunse volgendosi a parlare alla figlia di lei che gli
era andata vicino e gli sorridea con quella amorevole franchezza che suole
usarsi quando si tratta con parenti strettissimi.
E insieme alle due donne Viscardo si avvicinava ad uno
de’balconi in fondo, entrando nel suo vano, ove distratti dal romor
dell’adunata, avean campo di vedersi e parlare a loro agio.
Il barone Della Scala col duca di S. Giovanni uscirono fuori
una di quelle logge a discorrerla all’aria aperta; il rimanente della compagnia
si divise in vari gruppi, appressandosi a questo 0 a quel balcone, e parte
uscendo so’ terrazzini e loggiate.
Ma essendo Viscardo Alderani il protagonista della nostra
storia, è duopo dire acconciamente di lui, degli antecedenti di sua vita, e
farne quindi in iscorcio un po’ di biografìa, e di ritratto.
Sir Roberto Alderani, Conte di Manfredonia, era salito in
fama di mite e generoso governator delle sue genti; sicché veniva acclamato con
amore ed entusiasmo nella sua terra, ed additato come modello di buon principe
nelle altre circostanti. Impallidivano a questo i baroni vicini, e temendo non
avesse a trovar simpatie presso i popoli loro soggetti il buon governo
dell’Alderani, e nutrire a tal ragione qualche frenesia loro contraria,
cercarono unirglisi e stringer con esso lui alleanza e lega politica. Primo fra
questi fu Raimondo Della Scala, barone di Montesantangelo. E malgrado l’unico
fine che ve lo spinse, cioè quello di avere amico un potente di quel calibro;
pure allettato ai modi nobili e cordiali di Roberto, giunse ad affezionarglisi
davvero; sicché divenne amicizia, quanto in origine non erano che schiette cerimonie,
generate da mire politiche. Cresceva frattanto Viscardo, fanciullo a dieci
anni, figlio del Conte Roberto e di Leonilda de Marchesi Capuano. E atteso le
poche miglia di agile salila da Manfredonia a Montesantangelo, succedeano
spessissimo delle visite, e non di rado delle lunghe dimore ora in quello ed
ora io questo castello, fra i due collegati.
Infermatasi e morta a que’ dì la Contessa Leonilda, Raimondo
vi accorse, e dopo le esequie e il pranzo funebre, credè convenevole condursi
nel suo castello Sir Roberto e il suo figliuolo a ricever distrazioni ed esser
consolati nella propria famiglia. Prodigati per tal circostanza maggiori pruove
di affetto, succedeva un aumento di fiducia da ambo le parli, e più nel cuore
addolorato del signor di Manfredonia, che pur tanto uopo avea di conforti per
la morte immatura della sua Leonilda ch’egli amava cosi sovranamente. Come è
solito de’ fanciulli semplici e di cuor verginale, non ancora attoscato [avvelenato]da’ disinganni e dalle
maligne aure della vita adulta, affezionarsi fra loro e farne cosa comune i
balocchi e i divertimenti ; così accadde di Viscardo e di Gabriella fanciulla a
cinque anni appena. Essi eran sempre uniti e si seguian l’un l’altra e nel
giardino e nel boschetto e nelle sale del castello, e nelle camere pia
recondite di esso.
D’indole tranquilla e benigna erasi acquistato Viscardo
l’amore di Raimondo e di Eleonora, i quali anche dopo partito sir Roberto,
riteneano il fanciullo presso di loro, curandone la sua educazione nelle
lettere e nelle armi.
Dopo altri dieci anni sir Roberto Alderani, vinto da crudele
e lento morbo, scendeva nella tomba de’padri suoi, compianto dall’intero
popolo. Viscardo che tanto teneramente amava il genitore, n’era per tal perdita
inconsolabile. Divisò [decise] fare
un viaggio onde potesse addormire il suo dolore, e preso commiato dal barone
Della Scala e dalla sua famiglia s’imbarcava su di una nave diretta a Venezia.
Da quivi andava nella Lombardia, e passava quindi nel Piemonte e finalmente
nella Francia.
Ne’ suoi viaggi conobbe e si strinse co’ vincoli di amicizia
ed amò con sentimento di venerazione Tommaso Campanella, creatore d’una nuova
filosofia in Italia, solla quale ora lavorano i più dotti tedeschi e ne
svolgono l’ampio concetto; il celebre storico e guerriero Caterino Davila ; e
il giovane scrittore e guerriero Montecuccoli, di cui l’Italia avrà sempre una
memoria gloriosa ; e il Bentivoglio, gentile e forbito scrittore; e
l’Arcivescovo Federico Borromeo, illustre per sapienza e pietà religiosa, reso
più tardi immortale dal nostro Manzoni.
Giovane a venti anni, gagliardo, nel bollor della vita e
destro nel maneggio delle armi, aveva Viscardo assistito e preso parte in varie
giostre imbandite in parecchie corti d’Italia; e dai Gonzaga, a Mantova; e dal
Duca d’Este, a Ferrara; e a Capua e a Napoli, dal Viceré di Spagna. E mai non
lo avea colto il sinistro di venire scavalcato dal suo avversario; invece avea
spezzato più d’una lancia nei loro scudo; e talvolta feritili gravemente nella
testa o nel fianco gli avea traboccati [disarcionati] da cavallo. Le gazzette
d’allora narravano con pompa di parole questi fatti, sicché il giovane Conte
ritornò nel suo castello di Manfredonia, ove avean sempre abitato i suoi
antenati, pieno di fama ; e il popolo lo accolse festeggiando il loro Signore,
e le campane di tutte le chiese suonarono per più di a festa, in segno di
comune allegrezza.
Avea nella sua assenza ordinato che si edificasse un palazzo
signorile, che si eresse infatti sontuoso e di disegno gotico, nel cuore della città:
e quivi, volendo dar pruova maggiore di affetto alle sue genti, passò indi a
poco ad abitare. Perchè gli parea che il gemito de’ miseri e le voci che
addimandan giustizia, giungessero rapide all’ orecchio del dominatore, e non
nel castello, ove la superba altezza de’bruni torrioni, l’ampiezza delle
muraglie, e le vigili scolte [sentinelle] e su’fossati e in sulle logge e in
giro in giro ; soffocassero e respingessero il grido del misero che vuole
slanciarsi contro il potente che l’opprime. Anzi pareagli che da tal magione
[casa] il regnatore rifuggisse dall’aspetto e dalla vita delle sue genti. Ogni
cittadino comprese le sante idee umanitarie che lo spingeano ad abitar nel
palazzo, e le feste si continuarono per molti giorni consecutivi. Anziché inorgoglire
da queste solenni dimostranze di popolare affetto, Viscardo giurò a Dio nel suo
cuore di far felice il suo popolo, e benedisse alla memoria augusta del padre
che gli avea da’ primordi inspirato come primo tesoro dell’ anima è la fama, e
gli avea con tanta fede raccomandato dal letto di morte, il buono e docile
governo.
Quanta consolazione ne provasse Eleonora e Gabriella al
ritorno di lui, non si può da mente umana comprendere. Egli giovane, già maturo
nell’esperienza, nella politica, e nella storia di Grecia e di Roma, che tanta
sapienza aveva attinto da quelle assemblee, e da que’gloriosi capitani che
dominarono il mondo d’allora, e vi sparsero tanta luce e civiltà; conoscitore
della storia d’Italia, e di que’ tanti suoi figli magnanimi nelle armi, nella
scienza e nell’ arte che la fama venera con culto religioso e li saluta maestri
e duci di coloro che sanno; assennato e soave ne’modi, sapeva ad un tempo
reggere il governo delle genti, consigliare e dare conforto a’cuori prostrati.
E la moglie di Raimondo che noi vediamo mesta ed infermiccia ben confidava al
cuore del giovane le amarezze di cui l’eran cagione le lussurie del marito, e
la giustizia violata da lui e da’suoi subalterni.
Gabriella d’altra parte priva di fratelli e di sorelle, ed
affezionata a lui fin dalla tenera fanciullezza, seguirà a mostrargli, senza
punto celarsegli, il suo fratellevole affetto, e pur gli confidava i suoi
rammarichi, e voleva in controcambio sapere s’egli ne avesse e di che genere ;
e in caso di si sentivasi tutta desolata e cercava confortarlo. E ralleggravasi
quando ascoltava il suo amico privo di affanni.
E come che le cure del regime di Manfredonia tenessero
abbastanza occupato Viscardo, non di meno come trovavasi un giorno libero e a
sè, saliva al castello del Gargano a passarla in compagnia di anime così soavi,
e temperate alla virtù e all’amore. E perché il nostro lettore vuol saperne più
particolarmente di lui, diciamo che era egli allora intorno ai 25 anni, alto
della persona, gentile e schietto nelle membra, dignitoso nel sembiante e
perfetto di forme, a segno da offrire un profilo di bellezza greca. Il suo
occhio era nero ed espressivo, ed avea neri capelli, cadenti sulle spalle.
Velava il suo viso sfumata tinta malinconica, come fosse presago di tempestoso
avvenire, o come che la sua anima sdegnosa delle carceri della fragile creta, o
degli affanni che ad ogni ora si durano qua giù, aspirasse ad una vita più pura
ed ideale. Poche e caste parole uscian dal suo labbro, ma di tanta bontà che
ponean forte interesse a chi per avventura avvenisse di udirle. Perfetto nel
maneggio delle armi e nel resto delle arti cavalleresche, non avea in tutto il
reame chi gli stesse a paro. I suoi abiti erano eleganti e schietti; e sì
ne’modi, che nel parlare e nel vestire era di tanta dignità, che appalesava a
prima vista l’animo suo nobilissimo.
È dopo queste vicende, ed a tal punto che lo piglia il
nostro racconto.

II parte – continua

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Author: Geppe Inserra

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