Toh, l’Italia è più povera. L’Istat stima che il 28,7% dei residenti sia a rischio di povertà o esclusione sociale. E chi l’avrebbe mai detto? Fino a venerdì scorso, sembra che vivessimo nel paese di Bengodi, dove tutto andava per il meglio: la disoccupazione in calo, il Pil in aumento, tra noi e la felicità c’era soltanto la riforma costituzionale la cui approvazione avrebbe garantito il colpo d’ala, il salto di qualità definitivo, e ci avrebbe fatto vivere tutti felici e contenti.
Invece il risultato del referendum ha fatto tornare tutti con i piedi per terra. E i dati Istat certificano che la politica di riforme intrapresa dal governo Renzi ha prodotto qualche risultato (ma in misura assai più contenuta di quanto non volesse far apparire lo storytelling del premier), i problemi strutturali del Paese restano tali e quali, e in qualche caso si aggravano.
Il dato che forse meglio fotografa la strana situazione italiana degli ultimi anni, è quello che riguarda i redditi. Per la prima volta la curva accenna ad una risalita, dopo anni di calo costante. Il reddito medio delle famiglie è di 2.000 euro al mese, ma mai come in questo caso vale il discorso del pollo di Trilussa. Dal 2009 le diseguaglianze sono state in crescita costante, e la conseguenza è che i ricchi guadagnano cinque volte di più dei meno abbienti e che quindi ogni considerazione sui 2.000 euro di media va a farsi benedire.
Le diseguaglianze non sono soltanto sociali, ma anche, e soprattutto geografiche. La mappa è quella ben nota delle due Italie. Il 28,7% delle persone a rischio di povertà o esclusione sociale è quasi tutto concentrato nel Mezzogiorno, dove il rischio ghermisce quasi una persona su due: il 46,4%, valore in rialzo rispetto al 2014.
“Nel Mezzogiorno un residente su due è a rischio di povertà o esclusione sociale – scrive l’Istat nello studio sul reddito e condizioni di vita 2015, pubblicato qualche giorno fa (potete scaricarlo qui)-. Si stima che quasi la metà dei residenti nel Sud e nelle Isole (46,4%) sia a rischio di povertà o esclusione sociale, contro il 24% del Centro e il 17,4% del Nord. I livelli sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%). Viceversa, i valori più contenuti si riscontrano nella provincia autonoma di Bolzano (13,7%), in Friuli-Venezia Giulia (14,5%) ed Emilia-Romagna (15,4%).”
Questi sono numeri, e non opinioni: in sostanza il rischio di povertà o esclusione sociale è tre volte più grande, per un pugliese, rispetto a un emiliano o a un friulano. Non bisogna essere dei raffinati politologi per comprendere perché sia stato soprattutto il Mezzogiorno a seppellire sotto una valanga di “no” la riforma costituzionale.
Le ragioni che hanno prodotto questo ulteriore allargamento della forbice tra il Nord e il Sud vanno cercate nella progressiva rarefazione dello Stato sociale e nella rimozione della questione meridionale dall’agenda politica nazionale.
Il Sud è diventato un problema strutturale del Paese, ed è questo il primo, vero problema che dovrebbe porsi la sinistra italiana, altro che abolizione del Cnel e del bicameralismo perfetto.
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