In una terra, come la Capitanata, che è da sempre crocevia di genti, culture e dunque costumi e tradizioni diverse, anche la gastronomia è un melting pot in cui si incontrano piatti di diversa origine ed estrazione.
Come il capitone fritto, pietanza d’obbligo nel cenone della vigilia di Natale, che Foggia condivide con Napoli, e chissà che questa comunanza non tragga origine dal fatto che la femmina dell’anguilla è molto apprezzata nella città partenopea, che era una volta la capitale del Regno delle Due Sicilie, ma veniva prodotta in terra di Capitanata, nella laguna di Lesina.
A voler essere cavillosi, però, si potrebbe osservare che, se qualcuno ha importato la tradizione dall’altro, sono stati i napoletani, e quando capitale era anche un po’ Foggia, perché il primo estimatore del capitone fu l’imperatore Federico II di Svevia, che lo inserì nel menù del pranzo, munifico e pantagruelico, offerto in occasione del Colloquium generale (l’assemblea plenaria dei funzionari regi) convocata da Federico l’8 aprile 1240 per presentare le Novae Constitutiones.
Fu l’imperatore che proclamò Foggia inclita sedes imperialis ad ordinare personalmente (la lettera è datata marzo 1240 ed indirizzata alla Curia) al suo cuoco Berardo di preparare “askipeciam et gelatinam” utilizzando il pesce “de Resina”, cioè del lago di Lesina. Askipeciam sta per scapece, che è il modo con cui, ancora oggi, si “tratta” il pesce fritto sia a Napoli che in alcuni posti della Puglia, tra cui la stessa Lesina e Gallipoli.
La nobile origine del capitone fritto a scapece è stata recentemente riscoperta da Anna Martellotti, docente di lingua tedesca a Bari, nel suo bel libro ” I ricettari di Federico II. Dal “Meridionale” al “Liber de coquina”. (Se volete saperne di più, trovate qui una recensione di Marco Brando sul Correre del Mezzogiorno.)
L’usanza e la passione per il capitone dev’essersi propagata da città imperiale a città imperiale: sta di fatto che sulle tavole foggiane, così come su quelle partenopee, non è Natale se non c’è in tavola il capitone, la cui preparazione ha del resto tempi e cadenze rituali e solenni, così come s’addice ad un cibo imperiale.
Si comincia dalla scelta della materia prima che dev’essere naturalmente freschissima, anzi viva, il che espone chi debba cucinarla anche all’incombenza di mettere fine ai giorni del povero animale, a meno che non si voglia affidarla al pescivendolo. Non è vero che l’anguilla debba essere giovane. Non a caso parliamo di capitone (ovvero della femmina), e le anguille rivelano il loro sesso solo alcuni mesi dopo la nascita.
Sceglierlo e andarlo a comprare era di per sé un rito. E quanti ricordi. A casa mia, così come accadeva per il galluccio a Ferragosto, ad occuparsi dell’acquisto era mio nonno Giuseppe. Lo comprava vivo; glielo incartavano in quella carta gialla per alimenti che si usava un volta, avvolto a sua volta in un foglio di giornale, per maggior sicurezza e…igiene.
Incredibilmente, la bestia giungeva ancora viva e vegeta a casa, e per noi ragazzi era uno spasso andare di soppiatto a spiarla che ancora si muoveva e sgusciava nel tegame. Succedeva anche che al momento della esecuzione, dibattendosi, finisse a terra, e allora era ancora più divertente darsi da fare per acciuffarla ed assicurarla…alla giustizia.
Povero capitone… ma si sa: la morte sua è a Natale, indorato e fritto. Oppure a scapece, vista l’antica e nobile tradizione imperiale.
Vi fornisco entrambe le ricette.
Cominciamo. Se non vi siete fatti aiutare dal pescivendolo, dovete prima di tutto ucciderlo e pulirlo, il che va fatto contemporaneamente. Non è comunque un’operazione difficile. Aiutandovi con un foglio di carta da cucina sufficientemente spesso o indossando un guanto ruvido che impedisca al pesce di sgusciarvi tra le mani, adagiatelo sul marmo dell cucina, immobilizzatelo e tagliate la testa e la coda, quindi eliminate le viscere praticando una incisione lungo la pancia. Asportate il sacchetto della bile che si trova all’altezza delle pinne caudali, cercando di non romperlo e tirate via le interiora, che sono del resto piuttosto piccole.
Adesso tagliatelo a pezzetti di 7-8 cm ciascuno, lavate e risciacquate abbondantemente. Infarinate e friggete in abbondante olio caldo, a fuoco moderano, fino a quando i tocchetti non saranno diventati dorati e croccanti. Fate sgocciolare l’olio in eccesso riponendo i pezzi su un foglio di carta assorbente, quindi portateli in tavola ancora caldi, con l’aggiunta di sale e se gradito, pepe.
Nel caso dovesse avanzarne, seguendo la tradizione secondo cui niente del pranzo di Natale va buttato (vedi l’insalata di rinforzo, di cui vi ho detto in quest’altra lettera meridiana) si può servirlo freddo il giorno dopo, irrorato con aceto e quindi condito con olio extravergine di oliva e foglioline di menta.
Questo è più o meno anche il procedimento per il capitone a scapece, che va preparato almeno un giorno prima, perché dev’essere posto a marinare per un periodo minimo di 24 ore.
Preparate il capitone, friggendolo come descritto in precedenza.
Ponete dunque i tocchetti di capitone, sgocciolati, in una terrina a strati, alternando con aglio tritato, sale e origano. Nel frattempo mettete a bollire un bicchiere di aceto bianco con mezzo bicchiere d’acqua, lasciando evaporare fino a quando la soluzione non si sarà ristretta per circa 1/3. A cottura ultimata, aggiungete al liquido un cucchiaio d’olio, amalgamate, versate sul capitone nella terrina, lasciate marinare per almeno 24 ore.
Il capitone a scapece può essere conservato anche in vasetti di vetro, pressandolo quando basta per eliminare l’aria, aggiungendovi l’aceto e coprendolo con un filo d’olio. In questo caso si conserva anche per un paio di settimane, e questo spiega perché la pietanza fosse così popolare già nel Medioevo, epoca in cui non esistevano i frigoriferi, e per conservare i cibi bisognava affidarsi a conservanti naturali, come l’aceto.
Buon appetito, e buon Natale.
Geppe Inserra
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