Perché Renzi mi ha deluso

Non sarò tra quanti domani sera ascolteranno il primo ministro al Teatro Giordano. Da tempo le sue parole non mi affascinano più. C’ero però il 7 ottobre di quattro anni fa, nella saletta dell’hotel Cicolella che ospitò la prima volta di Renzi a Foggia. Il rottamatore venne per lanciare la sua candidature alle primarie come candidato del centrosinistra, che lo avrebbero opposto a Bersani e a Vendola.
La sala gremita, ma piccola, offriva tangibilmente l’idea di quelle che sarebbero state le forze in campo nella imminente campagna per le primarie. I renziani erano una sparuta, ma convinta e gioiosa minoranza, e persero le primarie e il congresso, non senza scontri durissimi con la maggioranza bersaniana. “Tanti giovani, tante donne, tante insegnanti ma pochi politici, e pochi dirigenti del Pd“, ebbi a scrivere quel giorno, e se volete leggervi il resoconto di quella domenica pomeriggio  che sembra ormai distante un secolo, cliccate qui.
Domenica sera, il Teatro Giordano sarà  gremito dei bersaniani di allora che sono diventati i renziani di oggi, ma non è per questo che domani sera andrò a cinema.
La coerenza non è la virtù migliore dei nostri uomini politici, che sono al contrario campioni di trasformismo e di gattopardismo. In quelle primarie infuocate, sostenni Renzi in modo convinto e sincero.
Poi rimasi deluso ed amareggiato dalla spregiudicatezza con cui il premier esercita il potere, dalla disinvoltura con cui cambia idee ed opinioni, dal sistematico attacco a quanti hanno il solo torto di non pensarla come lui.
Raccontai il mio malessere in una lettera meridiana che ci vi ripropongo di seguito. È ancora attuale. Purtroppo.

* * *  
Le opere dei grandi autori classici non parlano mai soltanto al pubblico contemporaneo. Si proiettano oltre il loro tempo. Sono in grado di trasmettere valori e cultura a ogni uomo, in ogni epoca.
In questi anni di crisi economica, ma anche politica e morale, sarebbe necessario rileggere William Shakespeare che ha speso tutta la sua opera a cantare la fine di un’epoca – il Medioevo – e l’avvento di tempi nuovi, scanditi dall’ascesa al potere della borghesia, che il grande poeta riteneva in grado di correggere gli errori, di sanare le piaghe lasciate dall’aristocrazia.
Per raccontare questa speranza, Shakespeare ricorre a un espediente drammaturgico preciso. Nelle sue maggiori tragedie. affida ad un personaggio giovane la rappresentazione del futuro, della speranza di tempi nuovi. 
In Amleto, è Fortebraccio che si fa carico di sgombrare dalla scena i cadaveri e “con rincrescimento abbraccia la sua buona sorte”, prendendosi la corona che gli spettava. Nel Re Lear questo ruolo spetta ad Edgar, che uccide il fratello degenere Edmund, raccogliendo la pesante eredità lasciatagli dal padre Lear, e dai suoi errori. Tragedia dopo tragedia, però, la speranza di Shakespeare verso la nuova classe sembra affievolirsi. Nel Giulio Cesare il buono è un politico, Antonio, che si troverà però dalla parte della vecchia classe dominante nel dramma successivo, Antonio e Cleopatra

In questa tragedia, il giovane buono designato da Shakespeare è nientemeno Cesare Ottaviano Augusto, che la vittoria in Egitto porterà a governare i destini del mondo. Però, Augusto non ha più nulla del coraggio, della simpatia e della carica di Fortebraccio o Edgar. È assolutamente politically correct, parla come un libro stampato. Ma è ambizioso, tutt’altro che simpatico.
Shakespeare cambiò profondamente giudizio sul nuovo che stava andando al potere, in appena una decina d’anni tanti quanti ne passano tra l’Amleto e Antonio e Cleopatra. Cosa lo spinse? Non lo so, ma – a conferma di come i classici non cessino mai di parlare a chi li interpella – sto vivendo in questi giorni lo stesso disagio che dovette affliggere il buon William.
Veniamo a noi, dopo cotanta premessa letteraria.
In questa transizione infinita che l’Italia sta vivendo, tra una prima repubblica sicuramente tramontata ed una seconda, o terza, o quarta che non ha mai seriamente messo radici, il nuovo più o meno da tutti riconosciuto è Matteo Renzi. Al quale ho creduto fin dalla prima ora.
Renzi ha vinto, e ne sono stato contento. Ma da quando l’ho visto da Fazio, ospite della trasmissione televisiva Che tempo che fa, ho cominciato a sentire la stessa, strana sensazione che percepiva Pietro, protagonista dell’indimenticabile Ovosodo di Paolo Virzì (renziano anche lui, ma questo è un altro discorso) e che gli impediva di essere del tutto felice: sento, quella specie di ovo sodo dentro, che non va né in su né in giù, ma che ormai mi fa compagnia come un vecchio amico.
Dopo vent’anni di berlusconismo e di veline e di reality, era lecito aspettarsi qualcuno che fermamente credesse che la politica non si fa con le parole, con gli slogan, e che pur quando si debba ricorrere alla battuta ad effetto lo si faccia sempre nel rispetto delle persone, della storia, della memoria. 
Mi  è sembrata del tutto infelice e deludente l’uscita di Renzi riguardo la possibile cancellazione delle Province in Italia. Il neosegretario del Pd ha detto che se 5.000 politici, sostanzialmente delle Province, provano l’ebbrezza di tornare a lavorare sarà un segno di speranza.
Un’affermazione molto calcolata, un tantino cinica. Molto da Cesare Ottaviano Augusto.
A parte il fatto che viene disinvoltamente dimenticato che quei 5.000 politici sono stati eletti democraticamente, dal popolo, grazie a libere elezioni, la dichiarazione di Renzi mi pare rozza, demagogica, populista e stupida. 
Non so quanti presidenti di provincia abbia conosciuto di persona il neosegretario del Pd. Forse solo quel Matteo Renzi che guidò la Provincia di Firenze. Ergo, per dire quel che ha detto, o Renzi non ha una grande opinione di se stesso, oppure ha la memoria corta.
Io invece serbo memoria di grandi uomini che da presidenti della Provincia hanno fatto tanto per le loro comunità e – cancellazione o meno delle Province-, questa memoria voglio tenermela tutta. 
Ho avuto la fortuna di lavorare con grandi presidenti della Provincia di Foggia come Michele Protano, Antonio Pellegrino, Francesco Kuntze, Gabriele Consiglio (per citare solo quelli che non sono più con noi). Hanno lasciato tanto nella storia di questa terra, e la mia speranza – e credo quella di tanti concittadini – sarebbe non già quella che tornino a casa, ma quella che possano ancora spendersi per la nostra terra, se ancora potessero farlo.
Sparare sulla croce rossa è uno sport nazionale, e ciascuno è libero di farlo. Sparare sulla storia è miope. 

[P.S.: Nello scontro decisivo tra Antonio e Cesare Augusto, il primo avrebbe potuto facilmente aver ragione dell’avversario se avesse deciso di attaccarlo a terra. Mal consigliato da Cleopatra, accettò invece la sfida in mare. E fu sconfitto. Io sarei andato per mare. E tu, Matteo?]

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Author: Geppe Inserra

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