Le tre Italie di Matteo Renzi (di Geppe Inserra)

Che differenza c’è tra un foggiano, un barese e un valdostano? Non è l’inizio di una barzelletta, ma un interrogativo maledettamente serio. In una democrazia normale, la risposta dovrebbe essere: nessuna, visto che i tre appartengono al medesimo Stato. Ma non è così in Italia, e – anche se non se ne parla molto – la riforma costituzionale su cui i cittadini sono chiamati a dire la loro nel referendum del 4 dicembre, lungi dal correggere gli squilibri, li accentua.
Tornando alla domanda iniziale, tra i tre a stare meglio, in quanto cittadino d’una Regione a statuto speciale, è sicuramente il valdostano. Uno dei punti cardine della riforma costituzionale è il riequilibrio dei poteri tra Stato e Regioni. Queste ultime vengono infatti “alleggerite”, a vantaggio dello Stato, che si riprende tutti, o quasi, i poteri. Ma il discorso vale soltanto per le Regioni a statuto ordinario, non per quelle a statuto speciale. Tanto per fare un esempio, la riforma prevede che consiglieri e assessori regionali non possano guadagnare più di un sindaco di un comune capoluogo. Ma solo quelli delle Regioni “ordinarie”. Le Regioni a Statuto speciale (Val d’Aosta, Friuli Venezia-Giulia, Trentino-Alto Adige con le province autonome di Trento e di Bolzano, Sardegna e Sicilia) mantengono la loro autonomia e i loro privilegi.

Le stesse modifiche al Titolo V che sottraggono competenze alle Regioni per assegnarle allo Stato non si applicano alle Regioni a statuto speciale (e alle Province autonome di Trento e Bolzano.), fino alla revisione degli statuti, che dovrà avvenire – come recita l’art.39 della legge di riforma che definisce le norme transitorie – “sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome.” E se l’intesa non verrà trovata? Semplice: le Regioni a statuto speciale continueranno a godere degli stessi privilegi su cui hanno potuto contare fino a oggi e il valdostano varrà molto, molto di più del foggiano.
Non è un discorso accademico o astrattamente giuridico. Qualche cifra? Nel 2000, la spesa media pro capite di un ente a Statuto speciale era quasi il doppio di quella di un ente ad autonomia ordinaria (3257 euro contro 1852 euro). E solo in parte questo benefit deriva dall’autonomia impositiva concessa alle Regioni a statuto speciale.
Nella maggior parte dei casi, il differenziale è dovuto al fatto che le Regioni “speciali” trattengono una quota di compartecipazione ai contributi erariali (le tasse che i cittadini versano allo Stato centrale) molto più alta rispetto a quella  della Regioni a statuto ordinario. Il caso limite è stato raggiunto dalla Sicilia, con una compartecipazione del 100 per cento. In pratica, ogni euro versato per tasse da un siciliano è finito alla Regione Sicilia. Mentre lo Stato ha elargito gratuitamente i suoi servizi. Vi sembra giusto?
L’autonomia riconosciuta alle Regioni a statuto speciale poteva avere senso nell’immediato dopoguerra. Oggi non più. È solo un’ingiustizia, che privilegia alcuni territori, a scapito di altri. La riforma costituzionale era una ghiotta opportunità per  normalizzare la situazione. È stata invece un’occasione perduta. Per insipienza, per sciatteria o forse soltanto per cinico realismo politico.
Va detto anche che, per una sorta di contrappasso dantesco (o più verosimilmente a causa dell’impressionante superficialità e pressappochismo con cui  è stata scritta la riforma) almeno per i primi tempi i consiglieri delle regioni a statuto speciale non potranno far parte del Senato delle Autonomie. Lo vietano espressamente gli statuti regionali che dovranno essere rivisti.
E la differenza tra un foggiano e un barese (ma il discorso vale anche per un salernitano e un napoletano, un pisano e un fiorentino, un veronese e un veneziano)? La riforma abolisce le Province, e a dirla tutta, la questione è puramente nominalistica nominalistica per quanto riguarda il referendum. Le province sono state soppresse già da tempo, prosciugate di ogni potere (e risorse finanziarie) grazie alla riforma Delrio.
La riforma costituzionale si limita a cancellare definitivamente la parola Provincia dalla Costituzione. Ma è proprio così? Anche in questo caso, è vero solo in parte perché le riforme di Renzi hanno creato province di seria A, province di serie B e province di serie C, indipendentemente dal peso reale dei territori interessati (ad esempio l’estensione territoriale). Così la Capitanata è la seconda provincia d’Italia per superficie, ma milita, manco a dirlo, in serie C.
In serie A ci sono le 24 province ricadenti nel territorio delle regioni a statuto speciale, comprese la provincia di Aosta che coincide con la Regione valdostana e le province autonome di Trento e Bolzano che godono della stessa autonomia di una Regione. Poi vengono le dieci province metropolitane ovvero quelle che hanno come capoluogo una città metropolitana: Roma Capitale, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.
Prima delle “riforme” renziane le province erano 110, ma di fatto sono finite sotto la scure soltanto  76.
Forse la riforma avrebbe dovuto riscrivere anche l’art.3 della Costituzione che sancisce che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Non è vero. In Italia la geografia discrimina. Eccome.
Geppe Inserra

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Author: Geppe Inserra

1 thought on “Le tre Italie di Matteo Renzi (di Geppe Inserra)

  1. Mi sarà permesso osservare che la nuova Costituzione di Renzi non si limita a conservare i privilegi delle Regioni a Statuto speciale, ma li eternizza. Infatti, mentre con la Costituzione attuale una legge costituzionale può rivedere gli statuti delle Regioni a Statuto speciale, con la Renzi-Boschi (art. 39, co. 13) le nuove norme costituzionali non si applicherebbero alle Regioni a statuto speciale se non con il loro consenso: che mi pare difficile aspettarsi

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