La relazione-saggio di Lello Vecchiarino che Lettere Meridiane ha il piacere di pubblicare ha un valore storico importante. Quando era a capo della redazione foggiana della Gazzetta del Mezzogiorno, il bravo giornalista e scrittore lucerino è stato il primo teorizzare l’opportunità di non chiamare più il Subappennino con questo antico toponimo, che col suo prefisso “Sub” evoca un’idea di inferiorità… Vecchiarino fu un battistrada: si deve proprio a quella bella intuizione se oggi le colline che dividono la provincia di Foggia dal Molise, dalla Campania e dalla Basilicata vengono definite, più propriamente, Monti Dauni.
Quella idea suscitò l’interesse e l’attenzione di molti ambienti culturali, anche foggiani, e di molti politici e intellettuali, tra cui Carmine Tavano, amministratore intelligente, uomo di buone letture, particolarmente attento ai temi della cultura. Non ricordo se Tavano, che è stato anche un apprezzato assessore alla cultura, fosse allora vicepresidente della Provincia o Sindaco di Foggia, carica che ricoprì dopo l’esperienza a Palazzo Dogana. Di certo era Presidente dell’Associazione degli Amici del Museo, ed in questa veste invitò Lello Vecchiarino a tenere, al Museo Civico di Foggia, una conferenza sul tema, assolutamente intrigante, Subappennino Dauno, il futuro nelle radici.
Lello accolse volentieri l’invito, pronunciando un’autentica lectio magistralis, in cui affrontò i problemi delle aree collinari e interne con un approccio decisamente originale, guardando al genius loci, alla identità e alla cultura profonda di questo territorio.
Siamo negli anni Ottanta, nel pieno della stagione della ricostruzione post-terremoto. Il Subappennino si trova in un momento di crisi particolarmente acuta. Escluso dalla provvidenze per la reindustrializzazione, percepisce il rischio di una ulteriore marginalizzazione. Nonostante i molti anni passati, l’analisi di Vecchiarino è lucida, ed ancora attualissima.
Buona lettura. Leggete, riflettete. (G.I.)
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Devo confessarvi che l’invito rivoltomi dal presidente Tavano a tenere una conversazione sul Subappennino ha creato un certo scompiglio nei miei calcoli. Avevo previsto che, dopo la ventata di aiuti finanziari legati al cosiddetto terremoto e la foga di progetti più o meno validi, ci sarebbero voluti ancora altri anni prima che un’attenzione disinteressata cominciasse a nascere intorno al Subappennino.
Avevo fatto male i conti, e la vostra associazione culturale me l’ha dimostrato.
Quando penso a questo spicchio di provincia nostra, mi accade di soffermarmi su un’intima riflessione: e cioè che a volte, più che nelle cose, il destino è nei nomi. Quel Sub-Appennino sembra quasi una sentenza. E ricorderete quando con gentile eufemismo e speranza di incentivi statali quelle zone le chiamavamo zone svantaggiate.
Cosi che, per concetto di relatività, chi è in SUB lo è rispetto ad altri che sono in alto (e potremmo dire che si è sempre il Sub di qualcos’altro) e lo svantaggio presuppone vantaggio altrui. E si obietterà: nel primo caso si tratta di una individuazione geografica; nel secondo di una specificazione socio-politica. Daccordo: ma perché nell’un caso e nell’altro la scelta nominalistica – ammesso che soltanto di questo si tratti – deve essere fatta in negativo? E dico ciò perché so che per molti il Subappennino si è fatto destino.
Un destino che attraverso il minimalismo inventato dai cronisti di provincia può essere raccontato, ma che pure a volte annichilisce. Spesso penso con apprensione a ciò che continua ad essere – o a non essere – il Subappennino dei giorni nostri. E ne provo disagio. Eppure, io che abito a Lucera e lavoro a Foggia, in uno dei suoi piccoli paesi mi ci sono nato.
È una contraddizione che mi pesa; e pesando mi costringe a indagarmi. Indago con logica, con ragione: ma logica e ragione mi fanno accostare soltanto parzialmente alla verità. E la ragione, poi, rischiara il mondo non più dello stretto necessario; nei pressi di quei bagliori, di quelle schiarite si insedia il paradosso. E li mi ritrovo, nei pressi del Subappennino, nei pressi di un paradosso che non è soltanto mio, e mi illudo che sia verità che appaga.
Verità di vite paesane in contrappunto alle menzogne metropolitane. Verità di luoghi e cose e uomini e monotono ondivagare di umori e passioni. Verità spente di vita stracca in paesi dove il rapporto tra amministratori e amministrati spesso è di tipo medievale.
Spesso la giustizia violata è nelle cose di ogni giorno, ma il lamento è debole. Da queste parti, i parroci sembrano non avere più acqua santa negli aspersori: tutto quello che c’era da benedire è stato benedetto, ma dicono che la grazia nessuno l’abbia ancora ricevuta.
IL SUBAPPENNINO NON DECOLLA; e quand’anche decollasse, quale rotta dovrebbe seguire? Su quell’aereo sono saliti per anni i satrapi dell’opportunismo, delle chiacchiere sparse ai quattro venti.
Quando in ognuno di questi paesi qualcuno deve mettere mano e pensiero alla costruzione di un caminetto per la propria abitazione, non si preoccupa se per quell’anno avrà sufficiente legna da ardere, ma si preoccupa che NON FACCIA FUMO. Fare fumo, capite?
E quanto fumo è stato venduto per queste contrade?
Scusate, ma anche LE METAFORE SONO MICIDIALI quando l’angoscia di chi è rimasto s’impasta con la rabbia di chi ha dovuto lasciare il luogo dell’anima, il sistema degli affetti che vive di luogo e si fa luogo aggrappandosi, nella lontananza, ai ganci della memoria.
Sopra il loro cielo è passato il boom economico, la santa programmazione, la favola dell’industria un tanto a campanile, i miliardi del terremoto, la grande promessa del riscatto: insomma, la GRANDE IMPOSTURA.
E al di sotto di quel cielo cosa accadeva, cosa è accaduto?
Tutto e niente, e spesso il niente è stato il tutto. Quali nuovi sacerdoti reciteranno salmi nelle nuove cattedrali costruite nel deserto pedemontano con i soldi dell’intervento straordinario?
E dicono i sindaci: se non l’avessimo fatto noi, l’avrebbero fatto gli altri. E chi può dargli torto? Ma non si può imbandire una tavola per chi ha fame spendendo tutto il denaro per acquistare 1’argenteria!
Penso che nei prossimi mesi – anche auspice questa vostra iniziativa – di tutto ciò si parlerà: quando, cioè, ci si dovrà interrogare, ad esempio, perché le grandi opere realizzate con i fondi della legge “64″ a Castelluccio dei Sauri, a Faeto e a Castelnuovo della Daunia (Vecchiarino parla dell’Ippodromo a Castelluccio, del complesso sportivo di Faeto e delle terme di Castelnuovo, n.d.r.) non producono economie né ricadute occupazionali in queste zone dove il lavoro risolleverebbe le sorti dei paesi.
Ma è anche giusto dire che negli ultimi vent’anni qualcosa è cambiato nel Subappennino. Vent’anni fa gli amministratori di questi paesi invocavano un modello di sviluppo turistico in concorrenza con quello realizzato nel Gargano. Ci sono voluti tanti anni e fiumi di inchiostro, parole, per far capire che ognuno deve far sviluppare il modello di turismo che gli è proprio.
Ora chi ama la montagna o l’alta collina riempie i nostri boschi e anche le tasche dei ristoratori. Ora è aumentata la folla di chi fugge la città per perpetuare la filosofia del caminetto, dello stare insieme, del paesino-presepe dove ogni saluto scambiato per strada ti allarga il cuore.
IO NON SO QUANTI SI SIANO PROVATI A DECIFRARE L’IDENTITÀ del Subappennino, ma so che in tutta la Capitanata non c’è altro luogo, altra zona dove sia più facile cogliere significati e valori più prossimi alla proprie radici; a prescindere dal proprio luogo natio e dall’anagrafe di ognuno di noi.
Da questo sentore di radici, dalla schiettezza di certi umori ritrovati anche il raccontare di cronaca ne risente. E allora mi accade che nel narrare storie paesane, storie raccattate qua e là tra una tavolata e una passeggiata serotina, scorgo nei miei amici del presente una tale curiosità intorno al COM’ERA che subito si tramuta, quella curiosità, in domanda sul COME SARÀ. E mi è capitato di parlare e scrivere del passato cogliendo metafore che a me sono servite per illuminare il presente.
Eccone un piccolo campionario.
NON PIU’ TARDI DI QUINDICI-VENTI ANNI FA, in un piccolissimo paese del Subappennino meridionale era in voga una parola che evocava divertimento ma anche intimi drammi. Una parola semplice che a primo sentire rimanda a una qualche forma di prestazione artigianale. Ma così non è.
La parola è questa: A’MPAGLIATA.
Accadeva che ogni qualvolta in paese, in quel paese, prendevano a girare voci su presunti amori corsari, i due amanti non tanto principiavano a temere di essere da qualcuno scoperti, quanto piuttosto dì essere vittime della ’mpagliata.
Grumi di gelosia o invidia armavano la mano di ignoti che nottetempo – il NOTTETEMPO DEL SUBAPPENNINO che una volta era più presente nelle cronache di quanto non lo fosse nelle favole – nottetempo, dicevo, si incaricavano di cospargere una certa quantità di paglia a disegnare sulla strada una scia, una linea di paglia che collegava i rispettivi usci di casa dei due amanti.
All’alba – a volte e per alcuni, alba tragica – tutto il paese sapeva quel che in tanti sussurravano e che pochi si erano presi la briga di ufficializzare, di sancire con la ’mpagliata. Tutto il paese da quel momento sapeva di quell’amore corsaro e degli incontri galeotti. Roba da tregenda. Roba che metteva in gioco la buona sorte dei malcapitati amanti. E dicono che in alcuni casi le vie dell’emigrazione siano state percorse non soltanto per fame, ma anche da qualche possessore di foglio di via… impagliatorio. Ma io ancora continuo a chiedermi, pensando ad una scia di paglia che percorrendo vicoli e stradine congiunge due usci, se in alcuni casi il VENTO NOTTETEMPO soffiando come soffia sempre da quelle parti non abbia segnato il destino di qualche innocente. È il caso di dirlo: LA VERITÀ LA SA IL VENTO.
E pensando alla ‘mpagliata non vi viene da chiedere se, prima della teoria profilata da un esperto di masmediologia, non fosse già praticato, dalle nostre parti, un costume da villaggio globale? Tutti dovevano sapere tutto di tutti.
Da dove nasceva, in quel paesino, la necessità di informare con un sistema che – per quanto abbia ricercato – non ha eguali neanche nelle regioni a noi limitrofe? Ma tra le tante risposte che ho ricevuto, una sola continua a intrigarmi: “Ma sa -mi è stato detto – prima non c’era la televisione…”.
E quando indagando su un’altra antica vicenda cercavo di capire perché una donna di facili costumi e dal cuore generoso si attribuiva maternità e quindi figli non suoi con false denunce all’anagrafe per evitare che su notabili locali e specchiate signorine cadesse il marchio del disonore, l’intrigo è aumentato di spessore. Tentando di scorgere ancora elementi legati a quelle storie intrise di segreti amori e ancora caldi talami ho chiesto: “Ma davvero un tempo in questo paese accadevano di queste cose?”. Mi è stato risposto: “Ma cosa vuole, prima non c’era la televisione…”.
Lello Vecchiarino
(1. continua)
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