“Bradisti” all’assalto delle Tremiti, il reportage vintage di Aldo Varano

La Tribuna di Foggia è stato un periodico di ispirazione democristiana, che si stampava a Foggia nel 1954. Poteva annoverare buone, di intellettuali, scrittori e giornalisti, più o meno direttamente impegnati in politica, come Gabriele Consiglio, Anacleto Lupo, Giuseppe D’Addetta, Antonio Manuppelli.
La terza pagina era dedicata ad argomenti culturali, ed ospitava pezzi e reportage di buona qualità, come quello, che pubblichiamo di seguito, che uscì nel numero del 18 ottobre 1954 con il titolo Felici alle Tremiti i nemici delle Miss. L’occhiello e il sommario erano invece, rispettivamente: Vita primitiva dei «bradisti». a S.Domino e S.Nicola e Nella vita, prima o poi, tutti cerchiamo un’isola appartata. Spesso ce la fabbrichiamo con la fantasia. Noi l’abbiamo trovata realmente qui e ci sentiamo come a casa nostra.
Il neologismo bradista si richiama all’aggettivo brado, ed intende evidentemente indicare turisti amanti della vacanza naturalistica ante litteram, non senza un pizzico di snobismo. Cosa che piacerebbe certamente a Briatore.
Come si capisce bene leggendo il bel testo, si tratta in realtà di un turismo, anche se povero,  parecchio esclusivo, che l’autore dell’articolo paragona a quello in voga in quegli stessi anni a Capri, che si caratterizzava per le mode particolarmente eccentriche, come il portare a spasso, al guinzaglio, una gallina.
Confesso che per quante ricerche abbia condotto, non sono riuscito a risalire a trovare approfondimenti sull’autore, Aldo Varano, che nell’articolo esibisce un notevole livello giornalistico e letterario. Impossibile si tratti, per ragioni anagrafiche, dell’omonimo scrittore calabrese.
Non è escluso che si possa trattare di uno pseudonimo. In quelle stesse settimane, si era occupato del fenomeno dei bradisti anche Il Messaggero di Roma, con un articolo di Matteo De Monte intitolato Itinerari lungo le spiagge italiane – Tre giorni felici coi bradisti nel solitario arcipelago delle Tremiti. Buona lettura.

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ISOLE TREMITI, ottobre.
« Tutti i miei guai vengono da Capri — mi diceva con aria sconsolata il comandante del « Pellestrina » giorni fa. mentre il vecchio trabicco verniciato di bianco, che due volte la settimana collega Rodi alle Tremiti, arrancava fuori del porto. — Se a Ischia e a Capri, in questi ultimi anni, non avessero fatto pazzie colle cornacchie negli accappatoi e le galline al guinzaglio, sarei forse ancora un uomo tranquillo».
La giornata era splendida. L’Adriatico, senza una increspatura pareva una tavola di zinco incollata alle rocce del Gargano. Dal pontile si vedevano rimpicciolire nel sole gli aranceti della riviera e il nastro d’asfalto del lungomare di San Menaio, con le cabine di legno allineate nella sabbia e i puntini neri dei pescatori di telline curvi a quell’ora sulla rete a mezza luna che rastrella il fondo dove l’acqua è più bassa.
A bordo eravamo in quindici tra passeggeri ed equipaggio distribuiti a gruppi in coperta tra casse di spaghetti, sacchi di patate e balle di granturco, rimasti fuori dalla stiva destinati ai nativi di San Domino e di San Nicola, le due isole maggiori che affiancate dagli scogli inabitati della Caprara e del Cretaccio, costituiscono l’arcipelago delle Tremiti.
«Il fatto è — continua a lamentarsi il capitano, impeccabile nell’uniforme bianca stirata di fresco — che senza le idee originali di quei pazzi, in maniche di camicia a fiorami che pullulano tra Positano ed Amalfi, le Tremiti non sarebbero state prese di mira dai bradisti ed io non sarei costretto a togliere il pane ai miei figli per sfoggiare tenute da contrammiraglio».

« E chi sono, di grazia, i bradisti? ». gli chiesi, senza perdere d’occhio un carico di pistacchi che il rollio minacciava di gettarmi addosso.
« Ah, lei non sa niente » fece il capitano sgranando gli occhi. « Eccoli lì, li vede?». E, con un cenno del capo, mi additò un gruppo di ragazzotti sui 19 anni, seduti a poppa, in circolo, attorno a due o tre signorinelle dai capelli alla tifo. Sono quelli i bradisti. Vanno a Tremiti a fare il romitaggio. Per loro, poco ci manca che mi obblighino a circolare con le decorazioni e la feluca. Lo hanno persino scritto in una circolare: i turisti diretti alle isole debbono essere trattati con tutti i riguardi. Ed eccomi qui parato a festa. Lei capisce: due divise di diagonale. scarpe, calze e camicie bianche. E questo basta per rovinare anche un ammiraglio autentico! »
Un pistone difettoso e una chiamata urgente dal reparto macchine mi hanno salvato in tempo dalle giaculatorie del capitano del « Pellestrina ». Ma sono sbarcato allo scalo di San Nicola con il desiderio di assodare al più presto le misteriose attività dei bradisti delle Tremiti
Mentre costeggiavamo le pinete affacciate sull’orlo del dirupi di San Domino, tagliati a strapiombo sul mare, andavo chiedendomi cosa mai venissero a fare nei paraggi quei ragazzi dalle zazzere arruffate, che di solito, dopo la chiusura delle Università, si affollano dinanzi ai bar di Forte dei Marmi o di Spotorno. pizzicando la chitarra e canticchiando in sordina le novità di Harlem, tra la compiaciuta ammirazione delle coetanee in prendisole.
Qualcosa doveva necessariamente attirarli tra le mura dirute dei vecchi fortilizi che videro le imprese dei Benedettini barbuti e guerrieri all’alba del quattordicesimo secolo e serbano, nel silenzio delle celle diroccate, l’eco dei tamburi che chiamarono a raccolta i canonici, gli speziali e i muratori dell’Abbadia all’alba del 5 agosto 1567, quando le vele della flotta turca comparvero ad un miglio da Caprara.
Forse il ricordo di Diomede, che ha qui la sua tomba sfiorata dal volo degli aironi? O le avventure lascive di Giulia, l’adultera nipote di Augusto, che le piccanti rivelazioni dell’Ars amandi di Ovidio relegarono a Tremiti per sempre?
Ho sciupato tre giorni per venire a capo della faccenda. Giusto i tre giorni che impiega il « Pellestrina » a completare il suo viaggio verso Vieste. prima di gettare di nuovo l’ancora dinanzi allo scalo di San Nicola, dove le barche, ogni sera, vengono tirate a secco ai primi rintocchi della campana del vespro.
I bradisti, in fondo, sono dei bravi ragazzi. Non costituiscono né una setta segreta né un’associazione tenebrosa. Vecchi amici di scuola o di collegio hanno deciso di trascorrere le vacanze in un luogo appartato, primitivo, lontano dai carnai delle spiagge famose o dai grandi alberghi di montagna dove l’etichetta più severa regola le varie fasi della giornata, dalla prima colazione al pranzo serale, col cameriere in guanti bianchi eternamente appostato alle spalle degli ospiti.
Sono partiti da Roma, da Milano e da Venezia e qualcuno è giunto qui dalla Sicilia, con un unico scopo: vivere trenta giorni allo stato brado. Di qui il termine di «bradisti».
Hanno affittato una stanza presso le famiglie dei nativi e pranzano nelle osterie di via Diomede, in pantaloncini di tela e canottiera bianca, facendo a meno del tovagliolo. I loro sacchi di montagna — nessuno dei «bradisti» concepisce l’idea di possedere una valigia – sono irti di canne da pesca, di coltelli a sette lame con il cavatappi e l’accendino incorporati e di maschere, respiratori, fiocine, fucili  e pneumatici per la pesca subacquea.
Quasi tutti hanno letto Mantegazza e adorano Hemingway. Come il maestro cacciatore, si lasciano crescere la barba e i baffi a ciuffi caprini che l’adolescenza non riesce a indurire né a infoltire.
La mattina si alzano prestissimo, rifanno il letto, spazzano i pavimenti, lavano la biancheria, la stendono al sole e scompaiono nelle selve o per le mille cale che frastagliano le coste delle isole. Conoscono gli anfratti più inaccessibili delle scogliere di Tremiti meglio dei topi che qui vivono tra le rocce da sette generazioni.
La filosofia è semplicissima. Me l’ha illustrata spontaneamente una sera, dinanzi al caffè Santoro, l’unico ritrovo dell’isola dove è possibile bere in pace una bottiglia di birra fresca, il nipote di un grosso industriale torinese, che viene considerato il capo morale dei bradisti.
«Innanzi tutto, mi ha assicurato il giovanotto, noi non intendiamo dar noia ad alcuno; in secondo luogo, desideriamo essere lasciati in pace Nella vita, prima o poi, tutti cerchiamo un’isola appartata. Spesso ce la fabbrichiamo noi con la fantasia. Talvolta giungiamo persino a sospirarne il possesso senza riuscire neppure a delimitarlo in uno spazio concreto e ben definito».
«Noi l’isola, l’abbiamo trovata realmente. Qui ci sentiamo a casa nostra sul serio. Tra i muraglioni della fortezza o nella Grotta del Bue Marino che,  detto per inciso, è identica e precisa alla Grotta Azzurra — riflessi e colori compresi — la storia, la leggenda, il mito ci parlano un linguaggio avvincente e sincero che proviene soltanto dalla natura intatta e dalle cose morte da secoli. Su queste isole — ha proseguito il giovanotto—, in tutti i tempi, dall’epoca romana a quella borbonica, fino al ventennio fascista, sono stati costretti a vivere degli uomini in cattività. Da Giulia a Paolo Diacono, fino a Dumini, il domicilio coatto ha legato troppa gente alle scogliere di S. Nicola e di San Domino. Noi ora intendiamo viverci spontaneamente e liberamente. anche se per un periodo breve. Siamo convinti che non vi sia libertà maggiore di quella che si può godere qui. aggirandosi in appena quattro chilometri quadrati di roccia e di bosco tra le vecchie cisterne costruite dai Lateranensi e i ruderi delle dispense, dei chiostri, delle foreste e delle botteghe d’arte, che testimoniano la potenza e lo splendore dei Benedettini, metà guerrieri, metà pirati. I nativi ci rispettano e ci amano e noi li amiamo e li rispettiamo. Ci piace la vita dura, al di fuori della catena penosa degli obblighi di società. Arrostire il pesce che riusciamo a catturare nei fondali e mangiarlo sotto un albero, appena cotto dai tizzoni ardenti, per noi è una gioia. Siamo per le vacanze scomode, ecco tutto. Odiamo gli smoking, le elezioni delle miss e i balli al chiaro di luna. Alle Tremiti ci proponiamo di sperimentare un nuovo genere di svaghi. Lasciate passare un paio d’anni e vedrete cosa diventeranno queste isole splendide e solitarie».
La teoria dei « bradisti » mi ha convinto. Per tre giorni mi sono trascinato per le Tremiti su una barca a remi, di scogliera in scogliera. Ho acceso il fuoco soffiando sulla legna umida e fumosa, ho gustato i calamaretti crudi con un goccio di limone ed ho pescato alla lenza per ore intere senza riuscire a migliorare di molto le provviste dei miei amici abituati a cercarsi il cibo a 20 metri di profondità con la fiocina pneumatica, stanando polipi e cefali dalle stesse case di pietra sottomarina. S. Nicola, la Caprara, S. Domino non hanno segreti per me. Dalla Cala delle Morene alla Grotta delle Viole, dove sull’acqua stagnano gli acuti profumi delle centauree, dei fiordalisi e delle ambrette, sbocciate miracolosamente dalla roccia, fino alla Grotta del Sale alla Cala del Diamante, alla Grotta del Coccodrillo, a quella della Testa di Morto alla Cala dello Straccione, del Sergente, dei Vermi, dei pesci e del Caffè, ogni angolo più segreto della scogliera mi è stato presentato e illustrato con tutti gli onori dai giovani hemingueiani seminudi e abbronzati come negri.
Neppure l’orrore della Ripa dei Falconi mi è stato risparmiato dai «bradisti». Dall’alto dei ciclopici roccioni a strapiombo sull’Adriatico i falconieri francesi si calavano, due secoli or sono, legati ad una corda per catturare nei nidi gli uccelli da preda destinati agli svaghi venatorii dei baronetti di Provenza e di Marsiglia. Uno dei miei accompagnatori ha giurato di aver ritentato l’impresa con fortuna, il mese scorso, per una semplice scommessa fatta col medico condotto di Tremiti. Non posso dare per certe cose che non ho visto, ma se il fatto fosse provato la mia stima per i bradisti crescerebbe di molto.
Sono stati tre giorni di fatiche, di privazioni e di felicità quelli che ho trascorsi sull’arcipelago garganico.
Quando sono risalito a bordo del « Pellestrina » per far ritorno sul continente,  l’impeccabile capitano, dalle immacolate e costosissime divise bianche degne di un ammiraglio, non mi ha riconosciuto. Confesso che la cosa mi ha lasciato perplesso.
Aldo Varano

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Author: Geppe Inserra

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