Aldo Moro, di cui ricorre oggi il centesimo anniversario della nascita, ebbe una speciale predilezione per Foggia. Tra le molte virtù che punteggiarono la vita dello statista trucidato dalle Brigate Rosse, vi fu anche quella di essere un pugliese integrale. Era nato a Maglie, cittadina della penisola salentina che si trova nella terraferma, giusto a metà tra Adriatico e Ionio, ma venne sempre eletto nella circoscrizione Bari-Foggia.
Nella composita mappa della Democrazia Cristiana di Capitanata, la corrente morotea ebbe sempre un peso importante, sovente determinando cambiamenti profondi nella vita politica cittadina (basti pensare alla istituzione delle aziende municipalizzate e degli organismi di decentramento).
Grazie a Moro e ai morotei, Foggia fu un laboratorio politico di prim’ordine, e sarebbe il caso di studiare un giorno o l’altro questa edificante pagina della storia cittadina, non conosciuta come meriterebbe.
La prima amministrazione di centrosinistra che governò Foggia, fu anche una delle prime d’Italia a sperimentare la collaborazione tra democristiani e socialisti. A guidarla c’era Carlo Forcella, fraterno amico di Moro, come Donato De Leonardis, Franco Galasso, Gaetano Matrella.
Quel laboratorio politico, quell’apertura ai socialisti, erano stati voluti ed ispirati direttamente da Moro, che allora, nel 1962, era segretario nazionale del partito scudocrociato.
Qualcuno dice che l’idea stessa del centrosinistra è nata a Foggia.
Anni fa, ho raccolto alcune attendibili testimonianze che parlavano di un incontro riservato che Moro tenne con alcuni fedelissimi nell’istituto della Suore Marcelline, in via Garibaldi, in cui anticipò la sua idea di una collaborazione più avanzata con la sinistra.
È verosimile supporre che l’incontro delle Marcelline sia servito a preparare, a sondare gli umori, in vista dell’ottavo Congresso nazionale che la Dc avrebbe celebrato a Napoli a gennaio del 1962, mentre cominciavano a svilupparsi, a livello locale, esperienze di collaborazione amministrativa tra Dc e Psi.
Il dibattito si svolse intorno alla possibilità di aprire nuovi coinvolgimenti, anche a livello parlamentare.
Il Congresso napoletano produsse un balzo in avanti degli equilibri politici (altro che balena bianca…) sancendo l’apertura a sinistra della Democrazia Cristiana, il principio della nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’avvio di una “politica di piano” o di una “programmazione economica” per lo sviluppo del Paese, e l’insostituibilità dell’istituzione delle regioni.
A Napoli vinse la linea di Aldo Moro, ma l’apertura a sinistra non venne metabolizzata facilmente dal partito, non mancavano mugugni e resistenze.
Moro scelse proprio Foggia per ribadire la necessità della svolta. Lo fece in un memorabile discorso, che conquistò la prima pagina e l’apertura del Popolo, quotidiano della Democrazia Cristiana.
L’articolo (che vedete nella immagine a fianco) conferma implicitamente quanto fosse speciale il rapporto che legava lo statista leccese a Foggia. Il discorso non viene pronunciato infatti in un comizio pubblico, davanti ad una piazza gremita ma, come si legge nell’incipit dell’articolo, “in una riunione di dirigenti e iscritti” durante la quale “il segretario politico della Dc, on. Aldo Moro, ha detto che gli avvenimenti dei quali siamo stati attori devono essere riassunti e chiariti, al fine di ristabilire l’esatta visione della realtà delle cose.”
È evidente il desiderio di Moro di rilanciare la prospettiva politica che, pur sancita dal Congresso di Napoli, incontrava qualche difficoltà ad imporsi nelle diverse correnti del partito. È significativo che per farlo scelga Foggia, che doveva evidentemente ritenere una sua roccaforte.
Non è stata l’unica volta che il leader democristiano ha scelto Foggia per lanciare messaggi al resto del partito e della comunità politica.
Il bel libro di Antonio Rossano L’altro Moro, pubblicato dopo la morte del presidente della Democrazia Cristiana, contiene notizie molto interessanti sul rapporto che legò Moro a Foggia.
Il giornalista barese racconta, riportandone ampi stralci, il discorso pronunciato da Moro all’indomani della delusione forse più cocente patita durante il suo lungo percorso politico.
Da più parti indicato come possibile Capo dello Stato. Il Parlamento gli aveva preferito Giovanni Leone, più gradito all’ala dorotea del partito.
Il nuovo capo dello Stato viene eletto alla vigilia del Natale del 1971. Moro viene a Foggia a febbraio del 1972 e sceglie, con un gesto di grandissima pregnanza politica e culturale, la remota e periferica sezione democristiana del Quartiere CEP per spiegare al popolo democristiano le ragioni che l’avevano indotto a ritirare la candidatura al Quirinale. Ragioni che rappresentano in se stesse una grande lezione politica, e trasudano un profondo attaccamento al partito e un grande senso dello Stato.
È un discorso di straordinaria caratura morale e politica. Improponibile qualsiasi paragone con la politica di oggi.
Lettere Meridiane ne ripropone il testo, come omaggio alla statura morale di questo grandissimo italiano, di questo pugliese integrale.
Io mi sono comportato in questa vicenda come era giusto, in conformità con i nostri comuni ideali, in disciplinata, profonda adesione della DC, e con quel distacco che credo sia una delle caratteristiche essenziali del servizio politico al quale, frequentemente, si attribuisce in una opinione pubblica critica proprio il contrario, e cioè senso del dominio, interesse, egoismo cieco. E, invece, così come noi lo concepiamo, il servizio politico è veramente un servizio, è veramente un dare quello che sì è richiesti di dare, pronti a non dare quello che non si è chiesti di dare, quale che sia il giudizio che noi possiamo avere sulla opportunità, sulla possibilità di rendere determinati servizi al proprio paese. Credo che, conoscendomi, voi vi attendeste che io non facessi nulla di diverso da quello che ho fatto e credo che non avrei meritato, cari amici, la vostra amicizia se avessi tenuto un comportamento diverso da quello che ho avuto”.
“Io ricordo un incontro, quando ero segretario del partito, con il Papa Giovanni XXIII al quale, in quella atmosfera familiare ed affettuosa che egli sapeva creare, recammo in dono a nome della DC un bel dipinto e questo straordinario personaggio della storia della chiesa e della storia del mondo, prendendo con molta grazia questo dono, che certamente non avrebbe goduto, ci disse: ‘Nulla chiedere e nulla rifiutare’ Era, ricordo, anche il suo motto. E questo mi rimase impresso, perché legato – questo indirizzo di vita – ad una straordinaria personalità che veramente ha segnato con la sua presenza la nostra epoca”.
“E così, in tutto questo periodo, ho creduto di ispirarmi per questa vicenda a questa indicazione; non ho chiesto nulla e non ho creduto neppure di rifiutare pregiudizialmente nulla; non ho chiesto nulla come si è potuto vedere; non ho chiesto ad altri partiti; credo di non avere nemmeno pesato su di voi, cari amici; non l’ho chiesto al mio partito.
So che in un certo senso mi si è fatto carico di non essere andato a confrontare la mia piattaforma programmatica con quella di altri, ma ciò sarebbe stato assurdo perché io non chiedevo nulla.
Avevo mostrato. non detto ma mostrato, che avrei avuto una disponibilità se qualche altro avesse pensato a me, al di fuori del mio partito (il Pci), ma evidentemente la parola decisiva spettava alla Dc che doveva dirla in tutta libertà, come l’ha detta (designando Giovanni Leone alla suprema carica dello Stato, n.d.r.).
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