Classi sociali a temperatura ambiente (di Pasquale Soccio)

Pasquale Soccio

Pasquale Soccio è stato uno dei più grandi intellettuali e scrittori del Novecento in Capitanata. La sua copiosa produzione letteraria e pubblicistica è, per molti versi, ancora tutta da scoprire e da inquadrare nelle sue giuste dimensioni, che vanno sicuramente oltre i confini pugliesi e meridionali.
Nelle preziose annate de Il nuovo Risveglio di cui mi ha fatto dono Gaetano Matrella, fondatore e direttore del qualificato periodico, ha ritrovato un delizioso racconto di Soccio. È stato pubblicato in due parti, la prima delle quali uscì nel numero in edicola del 12 febbraio 1987. L’assalto della canicola (di cui Soccio fornisce una memorabile, per non dire epica, descrizione) spinge i professori componenti la commissione d’esame presieduta dallo scrittore a cercare frescura nelle colline dei Monti Dauni (che Soccio definisce, sic et simpliciter, Appennino).  Qui il professore incontra dei notabili dell’epoca, con cui avvia una serena discussione sulle classi sociali.
Il racconto è intitolato, non senza una certa dose di ironia, Classi sociali a temperatura ambiente. Buona lettura.

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Classi sociali a temperatura ambiente

Quando di luglio eruttano le fornaci del Sahara. e un vento d’Africa varca il mare e l’Appennino, e si rovescia indomito sulla prona terra dauna, allora dì pure che l’inferno è certo. E non è forse il Tavoliere, nell’eguale ardenza del solleone, che con le sue stoppie brucianti e con l’acre odore ti prende alla gola e soffoca i polmoni, l’immagine fedele di quel deserto che lo raggiunge col suo respiro impetuoso e impietoso?

Quel vento indiscreto si infila nelle vesti e ti fruga l’anima nelle latebre più recondite; e tu soffri a grembo aperto quel soffio disumano. Egualmente un subbuglio mostruoso solleva alberi, foglie,  tegole; si insinua fra vie e vicoli; esplode il suo cachinno sulle piazze; si infila nei tombini e nelle arterie delle fogne, per zampillare madido di fetore di ogni umana lordura.
È il rabido libeccio che con la sua volontà di ferro ti abbatte e ti desola; e tu inerme ti riscopri automa senza più forza di pensiero: disfatti i sensi e naufrago lo spirito. Tenti una tavola di salvezza che ti guidi verso la fresca castità dei monti.
Rimane un esile filo di speranza; una decisione si impone. Mi accorgo che anche il mio corpo esplode con una improvvisa efflorescenza simile al fuoco dell’erpete. È, non è? e cosi tutto spinge a una disperata fuga.

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Giungevano voci di incendi dai boschi circonvicini. Per certi fumi e schioppettii intorno, anche la città sembrava votata alla combustione. Pareva di stare al sommo di un rogo in attesa di una inevitabile accensione.
Si respirava a bocca aperta, anelanti come cani trafelati dopo una lunga corsa. Uscendo per strade e piazze, si paventava un colpo di sole o un semplice, ma feroce calore. Alcuni erano atterriti da un improvviso colpo ferale: il fulmine di un infarto.
Si sperava allora in un antidoto meteorico o, meglio, in un rimedio omeopatico.
Si invocava un radicale refrigerio, affidati a un inferno diverso, alla violenza tonitruante e grandinosa di un implacabile temporale: acqua e fuoco, elementi che tengono l’uomo in precaria e pascaliana condizione, in un duello apocalittico, inferno contro inferno.

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Liquefatti dal sudore, fu allora, nell’afa palpabile di un’aula di esami, che si decise, unanimi, l’evasione: beneficiando cosi di trasferire in una sezione montana la commissione da me presieduta per la settimana degli orali.
Si partì di buon mattino, ma il mostro canicolare era pure esso mattutino. Con barbagli di luce nera, la strada fluiva per il bitume sciolto dal sole. Ma la promessa speranza del fresco dava già fresca la nostra ansia.
Di lontano un centro abitato ci saluto con un suo primo richiamo di selva anche nel gentile nome antico: llliceto. Passando accanto al convento, la «consolazione» ci venne da Sant’Alfonso che col suo inno natalizio prometteva di far scendere dalle stelle anche un po’ di fresco.
E finalmente salimmo alla «Acqua divina», dono di una benefica dea, ma la storica fontana, memore di battaglie aragonesi, gemeva anch’essa,  piscettando un flebile ed esile nastrino d’argento.
Giunti però al colmo della collina, il paese stagnava in una luce spettrale: una sorta di illuminazione al neon che trasfigurava i rari passati in taciti fantasmi. E nel piccolo bar solo qualche voce dissepolta dal caldo e dalla noia. A pochi passi vi era il vecchio grosso centro distrutto dal terremoto nel luglio del 1930: due Pompei accanto, una distrutta dal sisma e l’altra trafitta dal solleone che non risparmia nemmeno questo paese dell’Appennino.
Baraccati nell’aula degli esami in un edificio improvvisato a istituto scolastico, delusivo era anche il fresco sospirato.
Il desiderio ripiegava, nelle ore di sosta, verso antiche abitazioni private di persone amiche. Il pensiero correva con ansia e fiducia alla casa di due magistrati dai nomi illustri: Visconti, Maulucci.  Andando, come promessa sicura, cercavo di ricordarmi alcuni versi di un gentile poeta dialettale meritatamente entusiasta del suo «natio borgo», letti in una pubblicazione donatami:

Si bbe||’ p’ stu vverd’ ch’ tu tin’ / ch’ sap’ d’er’va freesca e dd’ fien’. / E ssi bbell’ p’ sti ccas’ toi vecchj’ / p’ cchist’ strad’ andich’ e catapecchj.  

Ma la casa del primo di questi due amici era tuttaltro che vecchia. Sorta dall’emergenza del terremoto, nella sua comoda e moderna razionalità, aveva una duplice freschezza: la lieta accoglienza congiunta alla saggezza affettuosa di lui e alla sapienza alchimistica della moglie in cucina. E ben diversa da una «catapecchia» la turrita e centrale, anche se «antica», dell’altro amico magistrato: una fortezza-difesa anche dal caldo.
Per rampe interne ed esterne, fu un gioioso arrampicarci verso il piano supremo. Col raggiunto equilibrio termico. finalmente si ragionava. Nell’attesa, si conversava nella sala conviviale e dalla stanza accanto, ricca di memorie alle pareti e sui mobili antichi, un letto prometteva sonno e frescura. Sognavo già tra quelle morbide piume di scendere agevolmente nei primi decenni del secolo incontro alla Belle Epoque.
Ma, caro Leopardi, sotto quel «patrio tetto » non « sonavan » più le « voci alterne, e le tranquille opre de‘ servi». E, ancora, in quelle « sale antiche », . . .tra quelle « ampie finestre » non più « rimbombavano i sollazzi e le festose  voci » del buon tempo di una volta. tramontate per sempre le « vaghe stelle deI|’0rsa ».
Nel silenzio del luogo, in attesa del pranzo, l’amabile ospite cominciò a recitare una sua melopea, gravida di ricordi e di rimpianti: festivi giorni sepolti e desolazioni incolmabili.
 «Abbiamo ora noi due, qui, soli un’immagine dei nuovi tempi » egli cantilenava con la sua voce profonda di baritono. «Non una persona di servizio in aiuto ». La consorte [dal bel nome biblico] era altrove per impegno.  « Mia nuora, pur in stato interessante, si dibatte in cucina, per farci egualmente onore con una buona tavola, mentre chi I ‘aiuta, improvvisato cameriere, è mio figlio ».
«I servi, i servi: cos’è questa brutta detestata parola e più detestata funzione sociale? Non servi ma persone di famiglia erano quelli nostri di allora, in casa e in campagna».
« Famigli, dunque — aggiunsi—, anzi famoli, servi nati in casa, direbbe Vico».
Di sicura e professata sensibilità sociale, i suoi mirabili occhi mi fissarono incantati e interrogativi. Aggiunsi che Orazio, come usava il costume romano, permetteva al suo schiavo Davo piena libertà di parola in determinati giorni festivi; e, ancor meglio, Seneca, scrivendo al suo Lucilio. cristianamente gli faceva osservare che quegli schiavi che lo servivano in casa e fuori avevano un’anima e un cuore come lui.

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[I servi vanno trattati umanamente. Invece di umiliarli, sarebbe assai meglio ammetterli alla nostra dimestichezza: così Seneca al suo Lucilio: «Con piacere ho saputo da coloro che qui vengono da parte tua che tu vivi in buona familiarità coi tuoi servi. Ciò s’addice al tuo senno e alla tua educazione. Sono schiavi. Anzi sono uomini. Sono schiavi. Anzi dormono sotto il tuo tetto. Sono schiavi. Anzi umili amici. Sono schiavi. Anzi compagni di schiavitù quando tu consideri che la fortuna sugli uni e sugli altri ha lo stesso potere. Pertanto mi rido di quei cotali che stimano indecoroso cenare col proprio servo.
Non abbiamo in loro dei nemici; ma siamo noi che li rendiamo tali.
Vuoi tu considerare che costui, che tu chiami tuo servo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira. vive e muore allo stesso modo di te?
Tanto tu puoi vedere lui il libero, quanto egli può veder te servo.  Vivi con chi è inferiore a te così come vorresti che teco vivesse chi ti è superiore.
Vivi col tuo servo da uomo clemente, anche da uomo affabile, e ammettilo alla tua conversazione, ai tuo consiglio, alla tua dimestichezza.
Non volete neppure considerare fino a quel punto i nostri maggiori abbiano tolto ai padroni ogni sorta di ostilità e ogni ombra di umiliazione ai servi? Hanno chiamato il padrone padre di famiglia . . .
Permisero loro di sostenere cariche in casa, di tenere ragione, e fecero della casa una piccola repubblica.
Non li giudicherò dai loro mestieri, ma dalla loro condotta. La condotta ognuno la dà da sè, i mestieri li consegna la sorte.  Taluni cenino con te perché ne sono degni, altri affinché si rendano tali ». XLVII]
(1. continua)
Pasquale Soccio

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Author: Geppe Inserra

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