Da quel giorno, niente è stato più come prima, a Manfredonia. Anche se all’inizio la tendenza fu quella di minimizzare l’esplosione della colonna preposta al lavaggio dell’anidride carbonica nella linea di produzione dell’ammoniaca.
La deflagrazione sconvolse la tranquillità di una domenica mattina come tante, il 26 settembre del 1976. La nube che si levò subito dopo lo scoppio investì in pieno il rione Monticchio, il più vicino dell’abitato di Manfredonia allo stabilimento petrolchimico.
L’aria si fece pesante, ma nessuno ebbe immediatamente la percezione della gravità di quanto era successo. Dopo si seppe che l’esplosione aveva provocato la fuoriuscita di un’enorme quantità di anidride arseniosa, stimata tra le dieci e le venti tonnellate.
Furono sottovalutati anche gli evidenti segnali di tossicità emanati da quella nube immensa che si era levata dalla colonna sventrata: l’irritazione agli occhi e all’apparato respiratorio di quanti respirarono quei miasmi, i sintomi di avvelenamento e, nelle settimane successive, la morte di numerosi capi di bestiame che avevano ingerito l’erba contaminata dal veleno.
La grande stampa nazionale cominciò ad occuparsi dell’accaduto soltanto qualche giorno dopo. La conseguenza di quella generale sottovalutazione fu che gli operai vennero mandati ad effettuare le operazioni di bonifica senza le necessarie precauzioni, senza che neanche fosse chiara a tutti la tossicità delle sostanze, tra cui l’arsenico, che dopo essersi sparse per l’aria, ricadevano sul suolo e nel mare.
Si parlò d’incidente, invece fu una tragedia. E il peggio è che nessuno saprà mai con esattezza qual è stato il bilancio, in termini di vite umane.
Però è vero che da quel giorno, niente fu come prima. Perché l’episodio cominciò a mettere a nudo i limiti di un processo di industrializzazione che fino a quel momento aveva badato soltanto alla produzione e ai livelli occupazionali,
L’insediamento dell’Anic aveva fatto discutere molto, anni prima. In fondo era stato il risarcimento offerto al territorio provinciale dal cosiddetto scippo del metano. Gli immensi giacimenti del prezioso gas naturale scoperti nelle viscere dei Monti Dauni erano stati utilizzati per alimentare altri stabilimenti pugliesi.
La popolazione aveva reagito dando vita alla più grande manifestazione di protesta di massa che la storia della Puglia e forse del Mezzogiorno ricordi. Erano scesi in piazza in trentamila, per rivendicare il diritto degli abitanti dei borghi collinari ad utilizzare localmente delle straordinarie riserve energetiche.
In cambio, erano arrivati i primi insediamenti industriali: l’Anic e l’Ajinomoto-Insud a Manfredonia, la Cucirini ad Ascoli Satriano, L’Industria Resine a Biccari, a Foggia la Lanerossi.
Aveva fatto discutere soprattutto la scelta del petrolchimico. Proprio a Manfredonia. Proprio alla porta di quel Gargano che in quegli anni – grazie proprio ad Enrico Mattei, patron dell’Eni e delle politiche nazionali degli idrocarburi – cominciava a scoprire la sua vocazione turistica.
Quell’incidente fu come un brusco risveglio. Ci si rese conto della necessità di ridefinire le politiche industriali sul territorio. Si innescò un lungo e tormentato processo che si sarebbe concluso soltanto negli anni Novanta quando, sulla spinta di altri rischi ed altri timori (la Deep Sea Carrier, passata alla storia come la nave dei veleni, il sospetto che l’Anic, divenuta Enichem, riconvertisse la propria attività utilizzando il sito di Manfredonia per trattare rifiuti tossici) l’opinione pubblica sipontina si convinse definitivamente della insostenibilità di quell’insediamento industriale. La sopraggiunta crisi della chimica rese inevitabile la chiusura e la riconversione dello stabilimento, assistite dalle politiche industriali del governo.
Il dramma è che nel frattempo il miraggio industriale era andato esaurendosi. Il lodevole tentativo di reindustrializzazione intrapreso con il Contratto d’Area ha dovuto fare i conti con questo mutato contesto: nella quasi totalità dei casi le aziende insediatesi nel sito dismesso dell’industria petrolchimica hanno incassato i contributi pubblici, per andare via subito dopo la scadenza dei vincoli contrattuali.
Da quel giorno niente è stato come prima, ma non tutti sembrano essersene accorti. Oggi Manfredonia è un deserto industriale, o quasi. E al danno si aggiunge la beffa: nonostante quelle ferite ancora aperte, la popolazione di Manfredonia è stata costretta a tornare in trincea per fare i conti con il possibile e paventato insediamento del deposito costiero di GPL della Energas.
A volte, la storia sembra non insegnare nulla.
Geppe Inserra
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L'insediamento di queste aree industriali procedendo giù verso Bari e verso il cancro industriale di Taranto hanno impedito alla Puglia il suo sviluppo naturale: pesca, turismo, agriclltura. Un vero e proprio assassinio sociale e anche, purtroppo, di vite umane.