Un messaggio lucido e coraggioso, che mette a nudo le tante, troppe contraddizioni che affliggono Foggia, quello che mons. Vincenzo Pelvi ha inviato a fedeli e cittadini della diocesi in occasione del Ferragosto, che per il capoluogo coincide anche con la festa patronale.
Sono ormai due anni che l’arcivescovo è a Foggia e fin da subito aveva dato mostra di avere compreso bene la città e i cittadini. Il messaggio che ha affidato alle colonne della Gazzetta del Mezzogiorno, che lo ha pubblicato nella edizione di oggi, con il titolo La nostra città deve ritrovare il senso della gioia, dimostra di essere ormai parte dell’anima foggiana, di averne capito fino in fondo contraddizioni, difetti, malanni, potenzialità.
Mons. Pelvi indica nella diffidenza il nemico da battere per dare visibilità e far crescere i numerosi germi positivi di cui dispone, una diffidenza diffusa nel tessuto civile che annienta i rapporti interpersonali e la solidarietà. Ecco il testo del messaggio dell’arcivescovo.
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Quanta tristezza scorgiamo sui volti che incontriamo. Quante lacrime versate quotidianamente in Città: una diversa dall’altra, come gocce che formano un oceano di dolore, che invoca attenzione, compassione, consolazione. Un tempo bello il nostro ma contagiato da evidenti contraddizioni di bene e male, positivo e negativo. Mai tanta scienza e tanta ignoranza come oggi. Abbiamo scoperto i segreti dell’atomo, ma non riusciamo a conoscere la verità di un evento. Mai tanta ricchezza e tanta miseria. Più cresce la ricchezza nelle mani di pochi, più la miseria e la fame aumentano in maniera irrefrenabile.
Mai tanta organizzazione sociale e tanta solitudine; tanti divertimenti e tanta disperazione. Si ha tutto e non si ha niente. Foggia sembra una città senza gioia dove ciascuno cerca la propria felicità a prescindere da quella degli altri, considerati vicini ma non fratelli con uguale dignità. Eppure quanti valori belli nelle nostre coscienze, quanta onestà e sacrifici nelle famiglie, quante iniziative di carità nelle parrocchie. Questi germi positivi stentano a visibilizzarsi e crescere per il clima di diffidenza, che frantuma le relazioni interpersonali e sciupa l’opportunità di sostenersi a vicenda, annientando la capacità delle persone di occuparsi degli altri. Chi di noi nei momenti di tristezza, nella sofferenza della malattia, nell’angoscia delle prova, nello smarrimento della paura e nel dolore del lutto non avverte forte il bisogno di qualcuno che stia accanto, provi compassione, pianga con noi e ci coinvolga nella tenerezza silenziosa del suo sguardo?
La nostra Città è piena di ferite. Se voltiamo le spalle dinanzi ad esse, non abbiamo diritto a chiamare Dio. Non ho il diritto di pregare il Padre celeste se non prendo sul serio il dolore del mio prossimo.
La fede che chiude gli occhi sulla sofferenza delle persone non è che una pia illusione.
Solo una fede aperta ai poveri, ai malati, ai deboli, agli stranieri, è autentica e credibile.
Siamo chiamati, infatti, a toccare le ferite di Cristo nelle ferite di chi abbiamo vicino. Purtroppo tendenzialmente ci rifiutiamo ai accostare le ferite, perché ci spaventa la nostra debolezza, la vulnerabilità della vita, la consapevolezza di essere mortali.
Affascina, invece, l’idea che, se abbiamo molti soldi, case e beni, una buona assicurazione; se siamo al sicuro nelle nostre abitazioni, possediamo l’ultimo modello di automobile e frequentiamo una buona palestra, possiamo essere immortali.
Chiediamoci: l’altro è pericoloso o è in pericolo e chiede aiuto? In realtà la capacità di soffrire per il dolore degli altri sta subendo un rapido declino.
La civiltà dei consumi e del benessere ci spinge a dimenticare una delle verità più profonde e antiche: che nella vita umana ci sono molte buone sofferenze, molti cattivi piaceri.
E così, la pubblicità in pochi secondi riesce a farci dimenticare infedeltà e fallimenti familiari, corruzione e sfruttamento, la mancanza di casa e di lavoro. la distruzione dell’ambiente, lo stesso terrorismo e la guerra “a pezzi”. come in Siria e in Libia.
Di fronte alla passione che attraversa i nostri giorni avvertiamo sì un certo malessere. come un sentire naturale. Ciò non serve se non entriamo in contatto con chi soffre. muovendoci e prendendoci cura.
Foggia reagisci e non stare a guardare, perché hai un cuore compassionevole e sai rispondere seriamente alla crisi di una società che non è più in grado di sentire cose grandi e alte e preferisce non contrastare povertà e ingiustizie.
Dinanzi alle criticità. le più svariate, la mente si riempie di domande, ma le risposte non arrivano,abbiamo bisogno di risvegliare le ragioni del cuore, le uniche in grado di farci comprendere i1 mistero che circonda ogni solitudine.
Regaliamo il sorriso a chi soffre, offriamo 1’asco1to a chi desidera comunicare le sue pene, promettiamo di essere presenti a chi è nel bisogno. Sia 1a Città e la nostra Chiesa plasmata dalla fiducia e non dalla diffidenza, allontanando 1a tentazione a isolarci e a difenderci da chi sentiamo diverso.
11 grande nemico di una Città e di una Chiesa aperta è la voglia di autopreservarsi, immaginando di dare risposta a domande che mai nessuno ci ha rivolte e investendo energie in direzioni sbagliate.
Guardiamo alla vita di ognuno di noi, convinti che possiamo aprire orizzonti nuovi e spazi di coraggio. Quante volte immaginiamo di non riuscire a superare le nostre fragilità. Poi, in maniera inedita e gratuita e, perciò, provvidenziale, accogliamo una parola, uno sguardo o un invito che ci fa aggrappare al possibile dell’impossibile.
La nostra vita è viva se coltiva tesori di speranze, viva de custodisce l’ossigeno di persone amate e un capitale di sogni, per i quali trepidare e festeggiare.
Vincenzo Pelvi
Arcivescovo di Foggia
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