Cronache dalla periferia del mondo (di Antonio Fortarezza)

Ho parlato già in altre lettere meridiane dello sguardo di Antonio Fortarezza, della sua capacità di “guardare le cose ad altezza d’occhi” come gli angeli di Wender ne Il cielo sopra Berlino. Saper guardare implica il prender parte, la rinuncia al ruolo dell’osservatore. Sporcarsi le mani. 
Antonio ama guardare e raccontare gli invisibili: malati di mente, immigrati che si spaccano la schiena raccogliendo pomodori, bellezze archeologiche sottratte alla vista e alla loro funzione. 
L’ho conosciuto in occasione di un memorabile convegno sulla salute mentale. L’ho apprezzato lo scorso anno, quando è stato anima ed animatore del convegno sulla Filiera non etica, sulla vergogna del Grand Ghetto.
Per guardare e raccontare, bisogna immergersi nelle cose. Ecco come Antonio Fortarezza  racconta una delle storie rimosse dalla “narrazione” della Capitanata.
Il Grand Ghetto. Che siano parole o immagini, lo sguardo, la sua rara capacità di portare alla luce e alla coscienza ciò che non è visibile, restano intatti.
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* * *
Foggia, un pomeriggio torrido di un giorno qualsiasi d’agosto. 
È un percorso a ostacoli fra buchi e bivi senza indicazioni. Nel pieno della raccolta del pomodoro le strade fra i terreni coltivati sono come il sistema vascolare di un organismo vivo, macchine agricole che si spostano fra un campo e l’altro e autoarticolati che percorrono strade troppo strette, con su cassoni vuoti in una direzione e stracarichi in quella opposta. E furgoni sgangherati, che vanno e vengono …

Incrociamo alcuni in bicicletta che tornano dal lavoro, altri che la bicicletta se la portano a piedi perché la ruota s’è bucata, o rotta in qualche parte. Se ti riconoscono sorridono e ti salutano prima ancora che sia tu a farlo, altri aspettano un gesto prima di risponderti, sorridendo poi. E ogni volta, seppure per un attimo, incroci il loro sguardo che, dagli occhi tuoi, t’arriva fin giù alla bocca dello stomaco, passando per il cuore.  
La strada ora si fa stretta, l’asfalto già sconnesso sfuma nello sterrato. Durante questo tratto qualsiasi mezzo deve rallentare. Davanti a noi un furgone, uno di quelli coi finestrini tutt’intorno, procede quasi a passo d’uomo ma le buche non può evitarle tutte e su una buona parte ci passa sopra, scuotendo se stesso e gli occupanti. Ci accodiamo. 
Il furgone è incrostato di terra e polvere, un’anta dello sportello posteriore è trattenuta da una mano che la mantiene schiusa, forse la serratura non funziona oppure serve a farci entrare un poco d’aria. Dentro in tanti, stipati al limite, non sarebbe possibile se non togliendo le file dei sedili posteriori. Stanno tutti uno addosso all’altro, stretti …, e costretti da quel vitale bisogno che, sradicandoli dalla terra loro li ha spinti fin qui, in terra di Capitanata.  
Dal finestrino sporco, ma non a sufficienza da impedirlo, lo sguardo dell’uomo che tiene lo sportello incrocia il mio. Mi sembra di intuire pudore nel suo mostrarsi in quelle condizioni. E quell’espressione si fa finestra aperta sulla storia e sul percorso che l’ha portato qui. E attraverso i suoi occhi cominci a immaginare le persone a lui care da cui è dovuto allontanarsi e che, spesso inconsapevoli di quel che sta vivendo, da lui s’aspettano l’aiuto. Da lui, – costretto in quelle condizioni -. E poi moltiplichi sguardi e occhi per tutti gli uomini stipati in quel furgone e poi ancora per tutti i migranti – invisibili ai più – che in quel momento popolano i campi intorno, ne più ne meno che carne da lavoro, senza diritti e senza identità. E immagini le loro mille storie, in fondo più vicine a noi di quanto non si possa immaginare.
Il furgone si ferma infine, escono ad uno ad uno, il primo della fila quasi chiede scusa, o forse mi ringrazia con un gesto, per essermi fermato affinché passasse. Anche noi siamo arrivati, scendiamo preparandoci a mischiare, per quel che ci è possibile, le nostre vite con le loro.
Il “Ghetto”, un grosso grumo di baracche, tenute insieme dal bisogno e dal profitto, lontano dagli sguardi e da chi non sa vedere. Sembra periferia del mondo e invece è crocevia di storie e vite che attraversando il Mondo lo segnano con solchi profondi. Proficui anche, se solo fra quei solchi ognuno lasciasse cadere un po’ lo sguardo. 
Sembra che sia vita d’altri, storie lontane seppure ‘sotto casa’ e invece è parte di un sistema che ci tocca, in una connessione articolata e salda che tiene tutto insieme. 

Quando al supermercato passo accanto ai barattoli di pomodoro esposti sul bancone penso a loro, e alla porzione di vita loro  contenuta. 
Antonio Fortarezza

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Author: Geppe Inserra

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