Un caro amico, Pasquale Bonnì, fine intellettuale e dirigente scolastico, mi ha inviato una sequenza di fotografie che ha scattato ieri sera nell’isola pedonale, attorno alle undici, in un tratto di circa 150 metri, compreso tra Corso V. Emanuele e il Teatro Giordano. Praticamente, il cuore della città.
Sono le immagini che vedete raggruppato nel collage che illustra il post.
“Mi rivolgo a te perché so che ami molto questa nostra città , come me del resto, come tanti (la maggioranza). Non faccio commenti e mi affido ai tuoi.”
Caro Pasquale, difficile fare commenti. Di fronte a uno spettacolo così avvilente, la sola parola che mi viene in mente è “incuria”, che è poi il male sottile che avvelena la città, il più insidioso, perché per debellare l’incuria – scusami il gioco di parole – non c’è altra cura possibile, se non la cura, appunto.
Le tue fotografie, così eloquenti da parlare da sole, sono un’amara antologia di quella incuria collettiva, che sta abbruttendo Foggia. Dalle erbacce che ormai crescono indisturbate perfino nelle crepe dei marciapiedi e delle strade, ai manifesti funebri che vengono allegramente affissi su tutti i manufatti, ai rifiuti lasciati dai passanti nelle aiuole, nei vasi, è il trionfo del disinteresse collettivo.
La grave crisi finanziaria in cui l’amministrazione comunale si dibatte, ormai da anni. non contribuisce a migliorare la situazione. La manutenzione del verde è approssimativa, la manutenzione delle strade viene effettuata a singhiozzo, quella dei marciapiedi invece non si fa da anni, se non da decenni.
Ma i problemi finanziari del municipio non possono diventare un alibi. Per esempio, chi dovrebbe estirpare le erbacce e non lo fa? L’impresa che si è aggiudicata l’appalto per l manutenzione del verde, oppure l’Amiu che si occupa della pulizia e dell’igiene dell’abitato? Potete star certi che a girare la domanda alle autorità comunali la risposta sarebbe: nessuno.
Vorrei poterti credere, caro Pasquale, quando dici che quelli che amano Foggia sono in maggioranza. Non ne sono proprio sicuro. L’incuria è anche una diretta conseguenza dell’approssimazione con cui si guarda alla città, e stare da dire si vive la città.
Sia da parte delle istituzioni locali, che degli stessi cittadini, che a questo punto sarebbe meglio chiamare abitanti, residenti, anzi, lasciamelo, indigeni.
Per indigeno non intendo ovviamente il buon selvaggio di rousseauniana memoria, ma chi nasce in un posto e continua ad abitarci, senza averlo scelto. Così come abitanti e residenti sono termini che rinviano ad un concetto meramente spaziale, o se preferite geografico. Si sta in un posto. Vi si risiede. Vi si abita. Lo si subisce.
Essere cittadino è invece qualcosa di più complesso perché, quand’anche l’essere cittadino si limiti soltanto a votare chi deve governarci, implica una partecipazione – attiva o anche soltanto emotiva – al destino del posto in cui si risiede.
Il concetto di cittadinanza anticipa quello di senso civico, che possiamo definire come una partecipazione politica al destino della città. Attenzione: politica nel senso originale della parola che deriva da polis, ovvero città. Possedere senso civico significa, in definitiva, occuparsi della città, non esserne soltanto “indigeno” o “abitante”, ma farsene carico, prendersene cura. Come se fosse casa nostra, ma in questo caso il congiuntivo potrebbe essere ingannevole: perché la città è casa nostra.
g.i.
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