Quello che Lettere Meridiane regala oggi ad amici e lettori è forse il più bell’articolo, la più bella narrazione che mi sia capitato di leggere sul Gargano. A scriverlo fu Riccardo Bacchelli per La Stampa, nella primavera del 1924: un pezzo di grande letteratura e di grande giornalismo.
Ciò che maggiormente colpisce dello scritto dell’autore de Il mulino del Po è il suo straordinario potere evocativo. Bacchelli non indulge mai alla descrizione fine a se stessa. Ogni paesaggio, ogni castello o chiesa racconta a sua volta una storia, evoca, talvolta inquita, più spesso trascina e commuove.
Memorabili i passaggi dedicati al ruolo di Monte Sant’Angelo nelle Crociate, alle similitudini tra la Basilica di San Michele e Castel del Monte, alla malattia di Carlo d’Angiò ed infine ai terrazzamenti, colti come emblema dello specialissimo rapporto tra i garganici e la loro montagna, che hanno saputo amare, modellare, trasformare per trarne vita e nutrimento.
Bacchelli venne inviato in Puglia dal quotidiano torinese quando era già uno scrittore affermato. Sul Gargano pubblicò tre pezzi, dedicati a Pare Pio, a Monte Sant’Angelo e San Michele e alle Tremiti. Gli altri due sono stati già ripresi da Lettere Meridiane. Chi li avesse persi può leggerli ai link qui sotto:
Dei tre articoli, comunque memorabili e da manuale di scrittura, il più potente e suggestivo è proprio quello su Monte Sant’Angelo, che uscì nella terza pagina del quotidiano allora diretto da Andrea Torre con il titolo Il miracolo dell’Arcangelo Michele, il 3 aprile del 1929. Un consiglio per la lettura: mettetevi comodi, non andate di fretta, gustatevi tutta la magica atmosfera che Bacchelli è in grado di evocare, accompagnate la lettura con buona musica. Io ho messo nello stereo Gargano elegy di Teo Ciavarella, il grande pianista e compositore originario di San Marco in Lamis, che potete trovare su Spotify, a questo link.
(g.i.)
Passata la verde piana e l’acqua gialla del pantano mezzo bonificato di Sant’Egidio, la melanconia di Val Carbonara, triste nei ricordi della squallida fillossera che distrusse i suoi celebrati vigneti, conduce dietro la costa precipite e sotto i denti della cresta del Monte degli Angeli, aspro contro cielo. Si sale arditamente a ridosso del monte, e all’ultimo svolto si è sotto, d’improvviso, al Castello normanno ingentilito da bastioni aragonesi.
Il Monte degli Angeli, ultimo dosso della prima catena garganica, è come una man dritta che sia posata in piano col pollice verso settentrione, poiché all’ingrosso il massiccio garganico va da ponente a levante, e le altre dita aperte e curve verso il mare. Infatti a settentrione c’è la ripida valle; davanti ramificano gravine franose e contrafforti affilati, mentre da mezzodì, come fa il dorso esterno della mano, il Monte s’arrotonda più dolcemente verso la pianura di Manfredonia.
Nel punto in cui s’articola il dito indice, il paese, anzi proprio la grotta sulla quale sorge la Basilica, incide il dosso del Monte degli Angeli. La cittadina di Monte Sant’Angelo s’apre sul lato più aprico ed agiato; dal castello e dalla Basilica si posson numerare, come da un’aerea spia del Gargano, quante mai cime vedono il santuario. Venti passi cambiano la veduta del mondo, che da una parte è tutto monti, dall’altra tutto pianura e mare.
Solo per la scelta del luogo, arte di generazioni come la creazione della lingua, Monte Sant’Angelo è un capolavoro in un paese, l’Italia, che di tali capolavori sovrabbonda. Ma non è arte soltanto, poiché qui concorse e precedette all’arte e con l’arte uno dei più antichi e venerati miracoli della cristianità: cioè l’apparizione dell’Arcangelo Michele ai pastori e poi al vescovo di Siponto, Lorenzo Maiorano, nella grotta, che apparve in visione mutata in chiesa angelica.
Dunque la scelta seguì la fede illuminata, e l’arte toccò i fondi più imperscrutabili e le più impervie punte di quel che al tempo della sociologia si chiamava la «psiche popolare », e che noi ci contenteremo di chiamare, più umanamente, la religione. Così l’istinto del muratore garganico e la sapienza degli architetti di Re Carlo Primo d’Angiò, fra i quali nel campanile son ricordati singolarmente i frati Giordano e Maraldo, proprio di Monte Sant’Angelo, s’unirono in quel che si potrebbe dir grado eroico, seguendo le parole tramandate, dal 491, che l’Arcangelo disse al vescovo, annunciandogli d’essersi scelta e fabbricata e consacrata da sè a sè stesso la sua sovrumana basilica in quella grotta. Parole che si leggono sulla porta sinistra della facciata della scala, accanto a quelle di destra: «Terribilis est locus iste. Hic domus Dei est et porta Coeli».
La scala, coperta d’alti archi ogivali, severi e puri, è nobile e profonda. D’arco in arco e di gradino in gradino, operai ed architetti hanno sentita, ornata, venerata la traccia del sentiero formato di greppo in greppo fino alla grotta dai piedi dei pastori e dei primi pellegrini. Quel che si dice un sentiero da capre, e l’opera di pietra, che è quanto mai ardita, dotta e superba, gli tien dietro con umiltà somma, come a cosa santa, e ne ricava il suo più singolare stile.
Volendo sforzare il concetto, verrebbe fatto di dire che questi mistici costruttori abbiano inteso di umiliare, in tali fastigi, le origini babeliche dell’architettura, ma il fatto è che solo una natura semplicemente adorata come visibile intenzione divina poteva ispirare un partito ingegnoso così semplice e naturale.
E le volte e le ogive angioine sono fedeli e piene di preghiera, come le devozioni ch’esse accolgono dei pellegrini oranti. Credo che pochi altri luoghi possano far intendere così sul vivo quel che furono dei fatti come quello delle Crociate. La scala e la Basilica, che è una delle quattro palatine di regia giurisdizione e come tale si fregia della croce sabauda, erede di tante dinastie, sono gloria e impronta di Re Carlo Primo, forte, austero ed anche arcigno e spietato regnante, alta mente politica e guerriera; anche fratello di San Luigi di Francia, crociato con lui e per la vita. Monte Sant’Angelo poi era una devozione dei crociati, che venivano in Puglia per gli imbarchi.
In fondo alla scala si ritrova l’aria nel cortiletto, sul quale s’apre la Basilica dalla bella porta bizantina. I pellegrini toccano e baciano, arrivati qui, come per implorar l’entrata, gli eleganti anelli della porta, lustrati da tante mani. Sull’arco risponde alle inscrizioni severe dell’atrio una promessa di indulgenza: «Dove s’apriranno i sassi, là saran rimessi i peccati degli uomini».
* * *
Quando ho visitato io la Basilica, non era l’epoca dei pellegrinaggi, che han luogo specialmente nel mese di Maria; e fu meglio, perché assistere da spettatore alle scene di fervore e di furore mistico che riempiono la Basilica, mi avrebbe messo probabilmente in uno stato di curiosità, forse di diffidenza; e discorrerne freddamente ora mi sembrerebbe dilettantesco. Se le mie impressioni là dentro hanno un merito, è d’essere serene.
La grotta s’apre a destra della porta; a sinistra c’è il coro e una finestra che dà luce quanta può darne, splendidamente, l’aperto orizzonte sulla profonda valle. In coro stavano a dir gli uffizi i canonici. Dietro l’altare, dove splende il piccolo e bianco San Michele del Sansovino, a cui i pellegrini guardano in ginocchio, implorano, s’atterrano, si percuotono, rigano anche di sangue il pavimento, la cupa parete dello speco e la potente volta che s’incurva fino a mezza la chiesa, stillavano acqua miracolosa, della quale si beve in un secchiello d’argento, attinta da un pozzetto in fondo alla grotta.
Credo che senza questo stillicidio perpetuo nella semiluce dei ceri e delle lampade, né la grotta né la chiesa né la stupenda sedia episcopale né le strane e vigorose sculture remote che paion nate a mezzo dal sasso o in via di tornar sasso, mi avrebber fatto tutta quell’impressione che mi fecero. Coteste gelide goccie spiccate dal buio dell’antro, che fan trasalire, cogliendoci in fronte o sulle mani, son l’ultimo tocco di fedeltà al sasso consacrato, e rigano il pavimento così come cadono sulle mense sacre, le quali fanno splendere l’oro ed il candore della liturgia e la sontuosità dell’apparato e dell’architettura, sul fondo scabro e squallido. C’è la fedeltà, e c’è il rispetto intatto e religioso, c’è infine in quel cosi nudo gocciar d’acqua una sprezzatura ultima e potente.
In esso termina, e non può andar più oltre, quello sposarsi in fede dell’arte colla natura, che via via giù per la scala è venuto crescendo. E là finisce ogni anche più vaga estetica dilettosa, in devozione abbandonata ed astratta, in violenza ascetica e mistica. Fra cose elette e cose orride, come le traccie di cera degli ex-voto, nell’opera si legge un pensiero che nulla rifiuta e d’ogni cosa può fare a meno.
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Scendendo, non avevo posto mente alle impronte di mani che da secoli i pellegrini disegnano, graffiscono, scavano nelle pareti, scrivendo poi dentro il contorno della mano aperta il proprio nome. Sono centinaia e centinaia, e, dove lo spazio è venuto meno, sono mani su mani, intricate e sovrapposte. Così l’innumerevole popolo, venuto a piangere ed ardere nella grotta dove vennero a scioglier voti, al par di lui, re, imperatori, regine, papi e santi, lascia il suo segno: le mani che servono a pregare, a faticare e a peccare. Risalendo verso l’aperto, riconobbi in quel bisogno di lasciar il segno della mano sul punto di tornare, sciolto il voto e l’animo, verso la vita solita, un pensiero da Giudizio Finale, una di quelle espressioni senza parole, una di quelle follie egualitarie profonde ed oscure, che covano nell’anima delle plebi. E mi parve un bisogno di rifarsi, imponendo quel segno corporale, dell’annullamento umano che regna nella grotta e nel monumento, tutto fondato sulla verità della morte e sulla certezza del miracolo.
Riccardo Bacchelli
(1. continua)
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