Nella primavera del 1929, Riccardo Bacchelli venne inviato da La Stampa di Torino in provincia di Foggia allo scopo di raccontare il Gargano, che il direttore del quotidiano torinese vedeva come una terra insolita, ricca di fascino, di mistero e di religiosità.
Lo scrittore bolognese aveva trentotto anni, e si stava segnalando all’attenzione del pubblico e della critica come uno degli autori più importanti dell’epoca. Il romanzo, anzi, il ciclo che gli avrebbe fatto occupare un posto di assoluto rilievo nella storia della letteratura del Novecento, Il mulino del Po, avrebbe visto la luce una decina d’anni dopo.
Al Gargano Bacchelli dedicò tre reportage (uno dei quali già pubblicato da Lettere Meridiane nel post Quando Bacchelli venne alle Tremiti )
Oggi offriamo ai lettori quello che comparve su La Stampa del 29 marzo 1929, forse il più bello e ricco di valore letterario dei tre.
Muovendo da San Marco in Lamis, Bacchelli racconta da par suo la religiosità popolare del Gargano, soffermandosi particolarmente sulla transizione dai riti pagani legati soprattutto a Giano (il cui culto era diffuso a Rignano, San Marco in Lamis e San Giovanni Rotondo) a quelli cattolici, legati alla leggenda del passaggio sul Gargano di San Francesco d’Assisi. Bacchelli scrive passaggi memorabili sull’arte popolare degli ex voto.
La vera meta del viaggio dello scrittore è però Padre Pio, la cui fama di santità cominciava a spargersi in quegli anni in Italia e nel mondo. L’articolo è intitolato, non a caso, Colloquio con uno che un giorno sarà forse sugli altari.
Bacchelli si reca a San Giovanni Rotondo, dal frate delle stimate, da agnostico, ma desideroso di capire quanto più possibile l’uomo padre Pio. Il ritratto che ne traccia è insolito, ma pieno di attenzione umana. Bacchelli capisce di trovarsi di fronte a una persona straordinaria e conclude dichiarando la sua meraviglia e il suo rispetto. Ecco il testo. Buona lettura.
San Marco in Lamis, se non nacque, si ingrandì come ospizio di pellegrini longobardi, i quali si recavano per la via di San Severo (l’altra è quella di Manfredonia) a venerare la grotta e l’impronta dell’Arcangelo Michele sul famoso Monte Sant’Angelo. E uno storico tedesco, il Gotheim, fa l’ipotesi che questa devozione longobardica sia la forma cattolica assunta presso i convertiti di Teodolinda dal culto pagano del guerriero Odino. E questo potrebbe anche dimostrare una delle ragioni per le quali i longobardi si sono fusi così bene coi latini; se è vero, come è vero, che una delle più spiccate e delle più belle attitudini italiane nel gran trapasso fu quella che salvò nel cattolicesimo popolare tanta e cosi poetica parte del paganesimo, e specialmente del più umano, che fu quello rustico. Anche, lungo questa via, che per un incerto seguito di valli carsiche e lungo le pendici di terraferma del Gargano conduce fin dietro la parte interna e dirupata del Monte degli Angeli, dove l’aggredisce con ardite svolte; anche s’incontrano etimologie che fan fede — più tenaci delle pietre — d’un culto di Giano. Quel che a San Giovanni Rotondo si vuol che fosse, ribattezzato in Chiesa di San Giovanni, il tempio rotondo del dio della pace, poco saprebbe dire, ma c’è una vicina località detta Castel Pirgiano, e c’è la tradizione, e, come dicevo, una quantità di ètimi.
Quel dio italico, dio delle porte e d’ogni entrata e d’ogni cosa che s’inizia, e del cominciar del giorno e del capodanno, protettore d’ogni opera che gli fosse consacrata sul principiarla, e dio di pace, fu dunque molto onorato in queste valli. Mi immagino che i contadini l’invocassero per le semine, che gli consacrassero, sull’aprire, il solco degli aratri, gli innesti, le piantagioni, le opere delle loro stagioni varie e immutabili. L’agricoltura è arte di speranze fiduciose e di molti inizi, perciò molto augurale nelle sue devozioni, e Giano non si onorava solo qui; ina qui si trova, lungo queste valli, un Jancuglia, ossia Jani Culla, un Rignano, ossia Ara Jani, uno Stignano, ossia Ostiuni Jani, e Pirgiano, ossia Castello di Giano.
San Giovanni, dove la tradizione pone il tempio, è al centro della regione in costiera, dalla parte di lena, dove le selve furori dapprima vinte, dove si stabilì primamente l’agricoltura, dove si rifugiavano gli esuli cacciati dalle città distrutte del piano, e dove le memorie riposarono e si trasmisero, col sangue e coi costumi, più intatte, difese e separate dalle insidie e dalle tentazioni del mare, dai saraceni e dai turchi e dai pirati.
Lungo questa via, a Stignano, a San Marco e a San Giovanni, vi sono oggi del conventi francescani, ai quali si svolge e si sofferma la devozione dei pellegrini, mentre gli abitanti dei paesi li visitano con quelle feste che tengon vive, nelle ricorrenze sacre, le cerimonie di propiziazione del paganesimo ingenuo campagnolo. Così nel santuario di Monte Sant’Angelo si mostra, poco distante dall’altare che copre l’orma dell’Arcangelo, il segno a T che lasciò nella ròccia San Francesco, quando vi arrivò in pellegrinaggio, e non volesva entrare per umiltà, e s’appoggiò colla faccia alla roccia vicino all’entratura, e la segnò così colle orbite e col naso, mentre pregava chiuso contro il sasso. Noi non crediamo ai miracoli; troppo si sa. Resta a comprendere il miracolo per il quale le turbe, ignoranti di Odino e di Giano, abbiano con una leggenda chiarita così sicuramente tanta storia, unendo in due segni sul sasso il culto angelico della Chiesa primitiva con quello che gli storici chiamano «il moto francescano». Parliamo solo di storia, come a me conviene, e riconosciamo che le favole e le allucinazioni dei caprai d’Abruzzo e dei contadini del Tavoliere sanno trovar termini molto ma molto più espressivi che non gli storici.
Alcuni di questi conventi furono in origine benedettini e cistercensi, e oggi sono francescani, come quello di San Matteo, o abbandonati, come quello di Stigliano cadente. Altri sono dei cappuccini; e questi nella loro rozza semplicità sbiancata, ricordano vivamente quel che dovettero essere le prime case fondate dall’assisiate; ma Stigliano cadente dà l’immagine di quel che fu il passaggio di guerre e di pestilenze e di carestie.
In un convento di San Benedetto non manca mai un cortile con un bel pozzo nel mezzo. E c’è, elegantissimo fra l’erbaccia, a Stignano; c’è nel cortile austero ed alpestre di San Matteo, il quale domina dall’alto, severo e forte e bastionato, fra le roccie, la valle, che accoglie in basso, il viandante, soavemente fra colli leni ed olivi, col sagrato sereno e la piana fronte della chiesa di Stignano.
Quando vi fui, aveva smesso di piovere da pochi giorni, e c’era ancor la muffa fresca nel refettorio, poiché l’ acqua trapela dai tetti e franano pezzi ed angoli di muro nei corridoi quadrati, dove le esigue finestre aprono viste amenissime sull’apertura della valle nel piano. Muffa, tristezza, rovine e minacce di rovine: fuori il sole di marzo brilla, come se vi fosse piovuto di fresco, sugli olivi e sul frumento verde. In uno dei due chiostri un ignoto, un pittore forse di quelli che hanno riempito di «ex-voto» un corridoio di San Matteo, ha affrescate le lunette colle storie della vita di San Francesco. Sono pitture del genere popolaresco, nelle quali un’ingenua audacia o una scorrezione timida possono conferire molta forza e carattere figurativo. In Gargano se ne vedono molte, e, attorno ai suoi numerosi ed antichi santuari miracolosi, colla fede si è stabilita una certa, unità e continuità di tradizione pittorica particolare. Quanti ne stanno infracidando sulle pareti bianche e umide!
Cerignola ha molta e speciale devozione per San Matteo, ed essendo città di grandi armenti e di commercio di ciuchi e di cavalli, vi ha mandato molte storie di pericoli e di miracolati con bestie da tiro e da sella. Mi pare che il tempo migliore per quest’arte sia stato nel secolo scorso, quando la diminuita bravura dei pittori e l’esempio della fotografia indussero, così mi è parso, gli artisti a sforzare certe qualità di evidenza, che nell’arie istintiva ed ignara toccano, collo sforzo appunto, valori di stile popolaresco. Scende da queste raccolte di vignette un senso fra penoso e consolato della pena e del pericolo quotidiano. Oggi si tende a mandar la fotografia in abito delle feste, con iscrizioni narrative. Non si salva più niente, salvo l’intenzione dei fedeli. I Padri cortesissimi ed accoglienti di San Matteo mi indicarono dalla loro stupenda loggia una sorgiva dove i pagani venivano a bagnar d’acque sacre a Giano le bestie ammalate. Il popolo, poiché nel convento si venera un dente di San Matteo, ha favoleggiato che l’Evangelista abbia fatto il viaggio che stavo facendo io, e mostra la pietra dove, inginocchiandosi egli per bere sarebbe rimasta l’impronta.
Io andavo a visitare un cappuccino del convento di San Giovanni Rotondo, Padre Pio, del quale i giornali hanno discorso già più di una volta, e che porta le Stimmate come San Francesco. La sua fama di santo va lontana e chiama molta gente, quantunque, mi fu assicurato da persone degne di fede, egli, obbediente ai superiori, cerchi di non aumentarla. Avviandomi al convento, che sorge solitario coi suoi cipressi e il bianco recinto in una stesa di magre erbe e di sassi, io mi tenevo in una disposizione equanime, non prevenuta dalla incredulità e neanche da quella voglia di meraviglie, che è quanto ci resta della fede antica nei miracoli. Insomma, ero disposto a rispettare un fatto ed a scrutare un uomo senza vana curiosità, ma fermamente. So bene quanto si possano spiegare scientificamente simili fatti, e so benissimo quanto non si spieghino scientificamente lo spirito umano, la storia e quel che si chiama vocazione. Dopo visto e parlato con questo cappuccino, non so se ho discorso con un santo, e di ciò se mai dovrà deliberare a tempo suo la Chiesa, ma so di aver trovato un uomo il quale, per quanto ha mostrato a me in un’ora di colloquio agevole e sereno, porta l’insegna di ciò che deve percuotere più di ogni altro mistero la sua coscienza di fedele, o per lo meno costituire la più possente e insidiosa tentazione d’ogni peccato dello spirito, con semplicità indubbia, senza equivoca umiltà, con una chiara nerezza negli occhi, e con dignità modesta di frate e di sacerdote.
Lo trovammo che stava facendosi rifare la tonsura da un fraticello, e la macchina da radere, visibilmente disaffilata, gli dava notevoli strappi ai capelli. Per qualche minuto egli, che ci voltava le spalle, non si addiede della nostra presenza; e sottostava alla fastidiosa operazione, a spalle tonde, rispondendo con affettuosa condiscendenza alle facezie del frate barbiere, che lo rimproverava di curar poco il taglio dei capelli. Quando s’accorse di noi, non mutò atteggiamento nè umore. Padre Pio porta i mezzi guanti per celare le stimmate, e svia la conversazione se qualcuno gliene fa parola. Discorremmo del più e del meno, scherzando anche, e non capii se nel parlare d’argomenti seri egli si esprimesse con giustezza e criterio, come faceva, per naturale buon discernimento o per esercizio di studio. Diceva cose fini con parole illetterate, di solida semplicità insolita. Così, discorrendo di un suo detrattore invelenito, si espresse con risoluzione e fermezza, con una severa carità, che mi dissero molto sulla saldezza convinta dell’animo suo. Questa nasceva da un non so che di più spontaneo e nativo della umiltà ascetica e degli esercizi spirituali, che avevano contribuito a fortificarla.
Parlando d’una ritrattazione del detrattore (pare, assai violento e velenoso), e dicendosi che costui pareva dire e fare sul serio nel pentirsi, il frate disse: — Questo lo spero per lui; per me non ne ho bisogno.
Delle stimmate e dei miracoli non si discorre, quasi ci fossero usciti di mente. E questo, per quel che ne posso dir io con criterio naturale, mi fece al ripensarci più disposto alla meraviglia ed al rispetto insieme.
Tale è stato il mio incontro con uno che un giorno sarà forse sugli altari, e che vive nella valle che fu di Giano, ed è oggi francescana, in Gargano.
Riccardo Bacchelli
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