di Geppe Inserra
All’Ikea di Bari puoi vedere la Puglia tutta intera. Anzi le Puglie, come recitava il suo antico toponimo al plurale che qui, all’Ikea, trova una sua pregnante espressione: un crogiolo di lingue e parlate, che è in se stesso un inno al pluralismo e alla diversità, intrinseci al’ essere pugliese.
Ci sono stato per la prima volta qualche giorno fa e lì, tra una tartina d’aringa e mobili minimalisti e funzionali, ho capito perché da decenni Foggia annaspa senza riuscire ad esprimere al meglio il potenziale rappresentato dalla sua posizione geografica d’eccellenza, il suo essere una naturale (ma sempre più sterile?) cerniera tra Nord e Sud. L’Ikea è sorta lì perché Bari, oltre ad essere il capoluogo, sta giusto al centro delle Puglie, di questo crogiolo di genti, lingue e culture.
La morale è che per svilupparsi, per non essere periferia, occorre essere al centro di qualcosa. Messa in questi termini la questione può sembrare una banalità, e forse lo è. Ma, piaccia o meno, è proprio questo il nocciolo dello sviluppo inceppato della provincia di Foggia.
Rivendicare centralità rispetto alla fatalmente baricentrica Bari è problematico per la Capitanata, che avrebbe potuto e dovuto valorizzare diversamente la sua invidiabile posizione geografica, tanto più che siamo nell’era della globalizzazione, e non hanno più senso i confini nazionali, figuriamoci quelli regionali.
Ci sono stato per la prima volta qualche giorno fa e lì, tra una tartina d’aringa e mobili minimalisti e funzionali, ho capito perché da decenni Foggia annaspa senza riuscire ad esprimere al meglio il potenziale rappresentato dalla sua posizione geografica d’eccellenza, il suo essere una naturale (ma sempre più sterile?) cerniera tra Nord e Sud. L’Ikea è sorta lì perché Bari, oltre ad essere il capoluogo, sta giusto al centro delle Puglie, di questo crogiolo di genti, lingue e culture.
La morale è che per svilupparsi, per non essere periferia, occorre essere al centro di qualcosa. Messa in questi termini la questione può sembrare una banalità, e forse lo è. Ma, piaccia o meno, è proprio questo il nocciolo dello sviluppo inceppato della provincia di Foggia.
Rivendicare centralità rispetto alla fatalmente baricentrica Bari è problematico per la Capitanata, che avrebbe potuto e dovuto valorizzare diversamente la sua invidiabile posizione geografica, tanto più che siamo nell’era della globalizzazione, e non hanno più senso i confini nazionali, figuriamoci quelli regionali.
Oggi lo sviluppo ha una dimensione nuova: è relazione e relazioni. Un territorio vince ed è competitivo se riesce a tessere rapporti positivi con altre aree. Anziché attardarci in una competizione difficile (e destinata alla sconfitta) con Bari, avremmo dovuto esplorare altre possibilità. Al limite anche quella di un eventuale distacco dalla Puglia, che avrebbe dovuto essere però un punto di arrivo e non un punto di partenza (com’è successo con il progetto della cosiddetta Moldaunia) nel senso che avrebbero dovuto essere preventivamente chiariti e condivisi, con gli altri territori interessati, il percorso e gli obiettivi.
Qualche anno fa, l’allora presidente della Provincia, il mai troppo compianto Antonio Pellegrino, ebbe la folgorante intuizione delle “Quattro Province “. Assieme ai suoi colleghi di Benevento, Avellino e Campobasso promosse un accordo strategico che prevedeva interventi coordinati e sinergici di sviluppo della “quasi regione ” che si andava profilando.
L’importanza di quella intuizione fu capita solo in ritardo dai sindacati (e solo per merito dell’allora coordinatore della Cgil, Salvatore Castrignano) e per niente dalla classe politica (con la sola, bella eccezione di Antonio Bassolino, che la sostenne), forse timorosa che il protagonismo delle Province potesse sottrarre potere alle Regioni.
Non fu soltanto l’ennesima occasione perduta. Forse fu l’ultima spiaggia.
Le Quattro Province non avrebbero mai costituito una nuova Regione, ma avrebbero potuto dar vita ad una relazione forte, diventando un autentico sistema territoriale.
La storia non si scrive mai con il senno di poi ma se questo sistema fosse divenuto realtà chissà che avrebbe fatto l’Ikea, nel momento in cui avrebbe dovuto scegliere dove aprire in Puglia.
Se la Capitanata vuole veramente valorizzare la sua posizione geografica deve smetterla di competere con Bari ma deve piuttosto guardarsi attorno e oltre.
Soprattutto non deve lasciarsi tentare dalla suggestione di modelli di sviluppo autocratici, fatalmente autoreferenziali.
Il rilancio della naturale vocazione alla relazione della Capitanata può diventare una importante opportunità per gli anni a venire, ma paradossalmente sono proprio i dauni a non accorgersene. L’idea di Rfi di realizzare a Foggia, lungo la bretella ferroviaria già in esercizio, una fermata sul tracciato dell’alta velocità Bari-Napoli, inspiegabilmente osteggiata da diversi ambienti foggiani, va proprio nella direzione di questa vocazione da riscoprire.
Riflettiamo. Se Rfi intende investire danaro nella costruzione di una fermata a Foggia (così come ha fatto, per esempio, a Reggio Emilia) è perché deve aver fatto i suoi conti e dev’essersi convinta della remuneratività dell’operazione. La fermata foggiana sarebbe una espressione della vocazione alla relazione del capoluogo dauno, nel senso che attrarrebbe passeggeri potenziali non solo dai centri della provincia di Foggia, ma anche da Termoli, Potenza, Barletta.
Ma a Foggia si litiga, come succede del resto sull’aeroporto, sulla superstrada del Gargano, sulla diga di Piano dei Limiti. Non sarà anche per questo che occupiamo stabilmente i gradini più bassi della classifiche economiche e sociali?
Geppe Inserra
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