Sono pessimista. Ormai non è più questione di bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, perché l’acqua si è asciugata del tutto. E, sinceramente, le stesse polemiche attorno al “pacco” rifilatoci dalla Regione Puglia nella ripartizione degli investimenti destinati ad infrastrutture dal Patto per il Sud (solo il 5% del totale pugliese), somigliano alla diatriba se sia meglio somministrare ad un malato terminale, aspirina o sciroppo per la tosse.
Da qualche settimana, con grande professionalità ed altrrttanta onestà intellettuale, il capo della redazione foggiana della Gazzetta del Mezzogiorno, Filippo Santigliano, parla di un disegno ad excludendum, ordito verso la Capitanata dalle classi dirigenti delle aree più forti della Puglia, che l’hanno portata all’emarginazione.
Non sono del tutto d’accordo con Santigliano, nel senso che non credo che ci sia un progetto consapevole ai danni della provincia di Foggia, ma la sostanza e soprattutto le conseguenze sono proprio quelle. La Capitanata è stata praticamente espulsa dalle direttrici dello sviluppo pugliese a causa di improvvide (per quanto inconsapevoli) scelte operate dai governi regionali, soprattutto quelli del passato.
A ben vedere, è stata proprio l’inconsapevolezza il peggior nemico della Puglia settentrionale.
Il grande Andre Gunder Frank insegnava che lo sviluppo di un territorio non è mai un processo neutro. Date certe condizioni (per esempio, una politica di sovvenzioni nazionali e internazionali) allo sviluppo di un’area corrisponde il sottosviluppo di un’altra.
La mia tesi sullo sviluppo diseguale della Puglia è precisamente questa: allo sviluppo esponenziale che negli ultimi decenni hanno marcato Bari e il Salento, ha corrisposto il sottosviluppo dell’altra parte della Puglia, quella settentrionale.
Ripeto: non credo ci sia stato un disegno consapevole, ma è stata proprio questa inconsapevolezza dei processi che si andavano scatenando a produrre i danni più nefasti per la Capitanata. Sull’onestà politica e intellettuale di Niki Vendola sono disposto a mettere la mano sul fuoco: ma l’ex governatore non si è reso conto che, quando ha inventato il termine foggianesimo, per stigmatizzare la tendenza foggiana a lamentarsi sempre e comunque, ha prodotto un danno enorme, iniettando nel tessuto politico e civile pugliese un antidoto alla consapevolezza, alla possibilità di prendere coscienza che lo sviluppo a macchia di leopardo della sua e nostra Regione viene da lontano. E che è un dato di fatto, al di là delle lamentazioni foggiane.
La maggior risorsa della Capitanata è il suo territorio, che, almeno dal Settecento, è stato oggetto di politiche ed interventi da parte dei governi che si sono succeduti alla guida dello Stato. Prima i Borbone, quindi i governi monarchici, e poi fascisti per finire a quelli repubblicani.
Ci si rese conto improvvisamente, e direi traumaticamente, della importanza nevralgica del Tavoliere quando una gravissima carestia, nel 1764, rilanciò l’annoso dibattito sull’affrancamento dai giochi demaniali di quella vastissima pianura che era stata per molti secoli il granaio d’Italia.
Allora il Tavoliere era quasi tutto a pascolo, e quasi tutto governato dallo Stato, attraverso la Dogana: affittare i pascoli ai proprietari delle greggi che scendavo a svernare in Capitnaata era un buon affare per le casse dello Stato, ma sottraeva alla comunità un enorme potenziale di cibo.
Come sottolinea lo storico americano John A.Marino, tra il 1764, anno della carestia e il 1806, anno in cui venne abolita la Dogana (per l’affrancamento del Tavoliere bisognerà invece aspettare al 1865, e fu opera del governo sabaudo) vennero pubblicati sulla Dogana e sulla necessità di roformarla, la bellezza di 36 trattati.
Questo per dire quanto il Tavoliere, la Capitanata, Foggia fossero al centro di una riflessione corale che impegnava economisti, apparati dello Stato, politici.
“Affrancate” le terre del Tavoliere dalle imposizioni demaniali, bisognò attendere decenni perché l’enorme potenziale offerto dal Tavoliere potesse cominciare a sprigionarsi.
Il fascismo avviò la bonifica dei campi, in larga parte acquitrinosi e malsani, si sforzò di renderli abitati, attraverso la costruzione di una rete di borgate, e nel contempo varò il progetto della Grande Foggia dotando il capoluogo di un nuovo e consistente sistema di servizi e palazzi pubblici: il municipio, il palazzo della prefettura, il palazzo degli studi, il palazzo degli uffici, il palazzo della bonifica.
La guerra inferse un colpo gravissimo alla città e alle sue prospettive di futuro. Tutti presi dalla speciosa polemica sul numero delle vittime, non si invece è mai parlato abbastanza del “peso” della tragica estate del 1943 e dei bombardamenti sulle prospettive di Foggia. La mia tesi è che il processo di crescita della città fu nella migliore delle ipotesi fortemente rallentato.
I governi democratici del dopoguerra, a trazione democristiana, non si sottrassero a quella stategia dell’attenzione verso Foggia e la Capitanata che era stata inaugurata dai Borbone un paio di secoli prima: la bonifica venne completata e affiancata da un solido programma irriguo che, in uno alla meccanizzazione dell’agricoltura (e grazie anche a quella che era allora un’eccellenza del territorio, la Fiera di Foggia), propiziò quella che è stata definita un’autentica rivoluzione verde.
Lo sbarco delle partecipazioni statali, seppure quale risarcimento al territorio del metano prelevato dalla viscere del Subappennino e dirottato a Taranto, avviò un serio processo di industrializzazione e la valorizzazione turistica del Gargano. Sotto il profilo infrastrutturalequesti processi vennero sostenuti dalla mai troppo compianta Cassa per il Mezzogiorno. La Capitanata recitò una parte di primissimo piano in quella stagione dell’intervento straordinario.
E poi? Poi vennero istituite le Regioni.
La Regione Puglia perseguì altre logiche di sviluppo territoriale, spostando, consiliatura dopo consiliatura, in altre province il baricentro dei propri interessi, anche per evidenti ragioni di natura geopolitica. La Puglia nord è la sola area pugliese che non è mai riuscita ad esprimere un presidente della Regione Puglia.
Gli anni Settanta segnano l’avvio della esperienza regionalistica ma anche il progressivo disimpegno delle partecipazioni statali e della Cassa per il Mezzogiorno. Il terremoto del 1980 fece il resto quando venne trasferito nelle vicine aree lucane e irpine danneggiate dal sisma il cuore di un sistema di incentivi, di convenienze ed opportunità che, di fatto, allontanò (e forse definitivamente) il baricentro dello sviluppo dalla Capitanata.
Non è un caso che l’ultima grande iniziativa di politica industriale per la Capitanata coincida con la “pezza” messa dal Governo alla chiusura del più grande polo industriale del territorio: il contratto d’area di Manfredonia, che doveva sostenere il processo di diversificazione dell’apparato industriale sipontino, dopo la chiusua dell’Enichem.
Il contratto d’area fu affiancato da un bel sistema di patti territoriali che introdusse una certa vivacità soprattuto nella filiera agroindustriale.
Ma con gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo Millennio giunse il grande freddo che dura ancora oggi, punteggiato da beffe che gridano ancora vendetta, come il fallimento del sogno dell’authority agroalimentare, il definanziamento del piano irriguo nazionale che ha comportato lo stop alla costruzione delle seconda diga sul Fortore, la grottesca vicenda dell’aeroporto Gino Lisa di Foggia.
La Capitanata ha pagato più di altre aree pugliesi la rinuncia degli ultimi governi (sia di centrodestra che di centrosinistra) a serie politiche meridionalistiche ed industriali, mentre queste stesse aree hanno potuto giovarsi di un’attenzione che la Capitanata non ha più ricevuto dai governi centrali e regionali.
Il territorio ci ha messo del suo, non riuscendo più a trovare il bandolo della matassa, ovvero quella visione strategica e condivisa del futuro che alimentò la stagione dei patti territoriali e, più recentemente, la progettualità di Capitanata 2020.
E adesso? Si sta facendo notte.
Ecco perché, al di là degli esercizi di retorica che si sono puntualmente ascoltati durante la seduta della “giunta terrigoriale” che il governo regionale pugliese ha voluto celebrare a Foggia, sono purtroppo convinto che neanche una politica di riequilibrio (ovvero dare alla provincia di Foggia gli stessi soldi che si elargiscono a Bari e Lecce) sia più sufficiente a risalire la china.
Per dirla in soldoni (mai come in questo caso il termine è azzeccato) occorrerebbe una vision regionale che, facendo tesoro della lezione di Gunder Frank, desse alla Capitanata più – e parecchio di più – rispetto alle altre province pugliesi, il che vorrebbe dire che baresi e salentini dovrebbero rinunciare a qualcosa.
Ma ce li vedete, voi, un barese che rinunci alla megagalattica stazione centrale oppure un leccese che dica no alla metropolitana di superficie del Salento? Io no, non ce li vedo.
Geppe Inserra
(1. continua)
La foto che illustra il post, dotata di licenza Common Creative License è di Stefano Chiarelli.
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