Piovene racconta Troia, Lucera e il Gargano

Il reportage radiofonico implica e richiede una scrittura più letteraria rispetto a quello televisivo. Sul piccolo schermo si ha modo di far parlare le immagini. In radio no: sono le parole che devono evocare atmosfere, raccontare storie, svelare e far vedere.
Sotto questo profilo, il monumentale Viaggio in Italia che Guido Piovene scrisse per la radio negli anni Cinquanta, è un capolavoro, un testo che fa scuola.
Piovene passò anche per la Capitanata, ed era facile immaginare che nel racconto di una provincia così ricca ed affascinante, lo scrittore veneto riuscisse a dare il meglio di se stesso.
La puntata, che andò in onda il 6 novembre del 1956, è tra le cose più efficaci e belle che mi sia mai capitato di leggere ed ascoltare sulla nostra terra.
Lettere Meridiane ne sta curando la trascrizione. Potete leggere quelle precedenti cliccando sotto, qui titoli ed i relativi collegamenti:

Il viaggio di Piovene prosegue oggi per Troia, Lucera e quindi il Gargano, con la Foresta Umbra e, soprattutto, Monte Sant’Angelo. Pagine magistrali, da leggere e rileggere. La leggenda dell’apparizione di San Michele Arcangelo è raccontata da un testimone locale, non citato nei credit. Durante il racconto di Piovene si ode anche la voce di un banditore, che invita chi avesse trovato un braccia d’oro smarrito, a riconsegnarlo al proprietario. Buona lettura.
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Lucera con la splendida fortezza svevo-angioina, Troia con la sua cattedrale, dalle porte di bronzo capricciosamente scolpite, che mescola il bizantino all’arabo e al toscano, ci introducono nel meraviglioso e composito stile romanico-pugliese, a poca distanza da Foggia.
La grande bellezza turistica della provincia, è il Gargano. Promontorio montuoso, attorno al quale la letteratura è scarsa, in paragone alle sue attrattive, e che perciò conserva qualche segreto, mi è apparso diverso da quello che le descrizioni altrui mi avevano prefigurato.
Pensavo ad una montagna selvatica, scura, aspra, tendente all’orrido. Mi sono trovato davanti ad una delle terre più greche d’Italia, nel senso del grazioso e del lieve. Con l’aiuto della stagione, vedevo un paesaggio dolce, fiorito, quale si incontra nei posti greci più lirici. Quei mandorli metà bianchi di fiori e metà verdi di foglie, i greppi ricoperti di ireos selvaggi di colore violetto, e i gruppi degli ulivi, contorti, sopra la roccia. Anche i villaggi, dalle case basse e intonacate a calcina, erano di una pulizia lucida, luminosa. Gli asini e i muli, le pecore, le capre nere attraversandoli spiccavano su quel bianco e andavano ad abbeverarsi  a fontane di marmo da poema cavalleresco. Ricchezza di paesi poveri e fino a ieri isolati dal mondo. 
Nel mezzo delle strade, le donne lavoravano a maglia, e i banditori portavano le notizie e le ordinanza del Comune. 

 (Si sente la voce dialettale di un banditore che chiede di riportare in via Giuseppe Verdi, se qualcuno l’avesse trovato, un bracciale d’oro, promettendo una ricompensa) 

Un’aria classica, civile per antichità. Ai margini delle grandi concentrazioni  bracciantili, è una terra di contadini, pastori e pescatori.
Si pesca lungo tutta la costa, fino al golfo di Manfredonia, e nelle Isole Tremiti al largo. Leggera è anche la foresta cosiddetta Umbra, non si sa bene se in memoria degli Umbri, antichi abitatori di queste terre, o solamente perché è ombrosa. Posta in alto sul monte, unico avanzo delle foreste che ricoprivano il promontorio. Vi predomina il faggio, albero chiaro, ma vi crescono l’agrifoglio e il tasso venefico, ed è popolata di uccelli. Folta, ma senza orrore. 
Sul Gargano si accavallarono, lasciando ciascuna un deposito, genti diverse di passaggio. La preistoria, la Grecia, Roma e il medioevo  vi lasciarono i loro segni non tutti ancora messi in luce. Nelle Tremiti, belle e poco note, secondo la leggenda fu sepolto Diomede. Il santuario di Monte Sant’Angelo fu il più famoso nel medioevo. Mitologia pagana, magia, devozione cristiana si confusero in modo pressoché inestricabile. Il Gargano poi cadde in un oblio quasi totale, da cui solo ora si risolleva.
Agricoltura e pastorizia vi danno poco reddito. Squisita la pesca, e ricca di pesce pregiato, oltre ad anguille e capitoni nei laghetti costieri; ma condotta ancor oggi con sistemi artigiani, senza trasporti ben organizzati, tanto che si è dovuto talvolta ributtare il pescato a mare. Questa situazione provoca forti malumori che contrastano stranamente con il grazioso arcaismo ambientale. Il turismo potrà alleviarla quando il Gargano sarà conosciuto di più. Lo amarono soprattutto viaggiatori stranieri, più curiosi degli italiani delle bellezze rare, in cui mitologie diverse sembrano continuare a vivere. Già costruita è un’ottima rete di strade; si progetta ora una serie di piccoli alberghi, come quello esistente nella Foresta Umbra. Vicini a Manfredonia sorgono in solitudine due squisite chiese romaniche, Santa Maria di Siponto e San Leonardo; presso la prima sono in corso scavi archeologici sull’area dove sorse Siponto, altra città scomparsa. 
Che cos’era, che cos’è il Gargano, lo si vede a Monte Sant’Angelo. Il suo castello  fu sede di principi e re. La basilica fu la più famosa meta medievale di pellegrinaggi, e l’itinerario garganico fu forse l’unico in Italia paragonabile ai grandi itinerari di pellegrini che rigarono di fiumi umani il suolo francese e spagnolo. 
Fu il santuario nazionale dei longobardi: qui si inginocchiarono papi, san Francesco d’Assisi, san Tommaso d’Aquino, santa Caterina da Siena, e i crociati in procinto di partire per la Terra Santa in omaggio all’Arcangelo guerriero. Da una basilica superiore si scende, per una scala sotterranea monumentale, fino alla grotta dove, secondo la leggenda, apparve l’Arcangelo. Entra da un’apertura l’aria e l’odore del mare, mescolandosi sotto le volte a quelli dei ceri, della muffa e dei devoti. 

(Voce di un testimone locale) La storia del nostro santuario è molto antica: saranno circa quindici secoli da quando ha avuto inizio. E si tratta precisamente dal giorno 4 maggio dell’anno 490, giorno in cui  un ricco proprietario di bestiame, nel controllare le sue greggi, si accorse che mancava il più bel toro del suo armento, ed essendosi messo alla ricerca, dopo lunga ed estenuante fatica, arrampicandosi per i dirupi di questa montagna, in una grossa spelonca, quella che è oggi l’attuale cripta del Santuario, vide inginocchiato un toro, senza vedere altro. Inutili furono i richiami, per cui ricorse ad una freccia che egli aveva intinto di un’erba velenosa. Ma – e qui comincia il prodigio – la freccia a mezza strada, anziché colpire il toro, si rivolse contro lo stesso proprietario e lo ferì al petto. Il ferito fu portata a braccio, con grande fatica, dall’arcivescovo di allora, San Lorenzo Maiorano, il quale lì per lì non seppe che pensare. Tuttavia indisse, per il suo popolo, tre giorni di preghiera per capire quale fosse la volontà di Dio in questo prodigio e, nello stesso tempo, egli si mise in preghiera. Durante questo suo pregare, gli apparve proprio l’Arcangelo Michele che gli disse che quel prodigio era avvenuto per sua volontà, per dimostrare che quel luogo era da lui prediletto.   

Ancora oggi al santuario salgono, nelle feste, quasi 500.000 pellegrini all’anno. Ma nei giorni normali ogni splendore è spento. La borgata sorge su greppi pietrosi dai quali si domina il mare in lontananza; l’occhio per giungervi sorvola anfratti tra cui spunta qua e là un ulivo, qualche ciuffo di grano che contende la vita ai sassi.
Nella vie, quando giunsi, non vi era festa, ma l’eccitazione nervosa che propagavano i comizi politici. Si accusavano di egoismo i proprietari di quei greppi. Pure, anche quelle accuse, quelle parole della gente con cui ebbi contatto, prendevano uno sfondo tra il mitico e il liturgico. Si attribuivano agli agiati sterminate ricchezze, giganteschi egoismi, cupidigie leggendarie.
I signorotti uscivano dai loro limiti modesti per entrare nella mitologia. Un esemplare del mondo patriarcale così accusato era una vecchia, forse di novant’anni, che incontrai poco dopo. 
Seduta in una piazzetta davanti alla porta, con i piedi lunghi e nocchiuti coperti solo dalle calze, sorvegliava due serve. Una di esse stendeva la biancheria, l’altra setacciava la farina, col setaccio monumentale. La farina cadendo si ammucchiava in un ampio recipiente che ricordava la forma di una culla o una bara.
(3. continua)

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Author: Geppe Inserra

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