Per l’archivio delle storie, ecco un’altra bella narrazione di Angelo del Vecchio, che attinge dalla memoria orale degli anziani di Rignano Garganico (in questo caso, zia Giuseppina). È una storia dalle tinte fosche, che si tramanda nella cittadina garganica da più di un secolo, e che – come tutte quelle che si tramandano di generazione in generazione, nasce probabilmente da un fatto realmente accaduto, ma che la tradizione popolare ha via via arricchito.
Il racconto è tratto dal volume di Angelo Del Vecchio, Lupi Mannari, Streghe e Fantasmi del Gargano, con prefazione di Joseph Tusiani e Vittorio Stagnani, Araiani, 2008, pagg. 11 – 14
Tra le leggende di paese ce n’è una a Rignano Garganico che resiste dagli inizi del Novecento. Si tratta della scomparsa”sospetta” di un agricoltore del posto, morto nel capoluogo dauno dopo una folle corsa a cavallo per sfuggire ad una strana “ombra”.
Il racconto, ripropostoci in chiave moderna da un’anziana signora rignanese, per il popolo Zia Giuseppina, inizia in una fatiscente masseria in Località Duanero, tra Rignano e Foggia.
Michele, così chiameremo fittiziamente il nostro malcapitato, era un piccolo possidente terriero. Un cavallo, due mucche, qualche maiale, una ventina di galline, quattro papere, un pozzo malconcio, un orticello, una casupola fatiscente, una moglie rompiscatole e due figli fannulloni, facevano da contorno ad una vita fatta di miserie e poche passioni.
Michele, tutte le sere, dopo una giornata passata a spaccarsi la schiena nei campi e a tirar su l’acqua putrida e puzzolente dal pozzo di famiglia, cenava davanti al fuoco, caldo e suadente, dell’annerito camino. Amava accompagnare il suo tozzo di pane “trumpate” (fatto in casa) con un fiasco di vino”slavato” (si usava aggiungere acqua al vino, ci dice Giuseppina, non tanto per evitare ubriacature e problemi di salute, ma per miseria; anzi non c’erano i soldi per acquistarne in quantità e chi lo produceva in proprio se lo teneva ben stretto). Il companatico variava di sera in sera, poteva essere una cipolla, una patata lessa, una scarola, due pomodorini o, per i più fortunati, un pezzo di formaggio o di lardo. Solo i ricchi pranzavano e cenavano a mezzogiorno e alle diciannove.
Una sera, legato il cavallo al solito anello in ferro, posto a mezz’altezza sul lato destro della porta, una specie di “tavolaccia” messa in verticale in maniera improvvisata e tenuta su da “centre” e “centrone” arrugginiti , e pulite le scarpe con la “sderrazze” (una paletta in ferro), Michele entrò in casa e iniziò a prepararsi la solita misera cena. Moglie e figli erano in paese per un lutto, ignari di quello che stava per accadere. Accese le candele, coni in cera fatti in casa e poggiati sui soliti due fiaschi verdastri, e mise a riposare il suo corpo, affaticato dalla dura giornata lavorativa, sul “saccone”, una specie di poltrona (o letto) artigianale realizzata con sacchi riempiti di paglia o foglie secche di mais.
Tutte le sere, prima di mangiare, aveva preso l’abitudine di verseggiare antiche filastrocche in dialetto e il suo “murte e vive, se vulite, menite a magnà pe mmè, sennò javetene venne a ‘llicase vostre” (morti e vivi, se volete, venite a mangiare con me, altrimenti ritornatevene a casa vostra). Anche quella sera non mancò di recitare quello che ormai era diventata un’abitudine. Prese il pane, i solito fiasco di vino “slavato”, mezza cipolla, una “vurrajene” (la comune borragine, servita con olio e sale) e cominciò a borbottare versi, prima a bassa voce e poi ad alta voce. Fuori pioveva a dirotto. L’acqua, caduta copiosa, si infiltrava tra le fessure della vecchia porta, riempiendo tutta la stanza – munita di un enorme letto, dove dormivano i quattro componenti la famiglia, una “buffetta”, una dispensa, un tavolo, tre sedie e un “verascire” (braciere) ricolmo di cenere – di un forte odore di fango e letame. “murte e vive,, se vulite, menite a magnà pe mmè – iniziò a recitare Michele – sennò javetene venne …”. Non finì di pronunciare la frase, che un colpo alla porta lo fece sobbalzare dal “saccone”. “Chi può essere a quest’ora – si chiese fra sé e sé – fuori piove, lampi e tuoni, fango e nebbia rendono impossibile stare là fuori”. “Chi è? Chi è che bussa?”, disse ad alta voce, ma nessuno rispose.
Michele si fece coraggio, aprì la porta e fece lentamente capolino all’esterno dell’uscio. “ Chi è? Chi è?”. Fuori non c’era anima viva. Pensò che fosse stato il vento o magari qualche animale. Tornò dentro. Chiuse la porta e si rimise sul “saccone”; prese vino, pane e companatico e ritornò a cenare. Intanto, il cavallo sembrava nervoso. I suoi nitriti si facevano sempre più agitati. Saverio, così era stato chiamato l’equino, iniziava a scalciare a destra e a manca. “Ma che succede adesso – pensò Michele – è possibile che non si può stare un po’ in pace? Se esco fuori ti prendo a “parruccate” (a mazzate col bastone) e sai che “sagghjuccate” (palate) ti aspettano?”.
Si alzò di colpo dal saccone e si diresse, più nervoso del cavallo, verso la porta. Non fece tre passi, o forse ne fece quattro, che la “tavolaccia” si aprì di scatto e uno strano figuro apparve sull’uscio. “Chi sei e che vuoi?”, chiese subito Michele, tra paura e stupore. “Non ho soldi, se vuoi ti posso dare due olive, un po’ d’olio, qualche cipolla e una dozzina di uova”, continuò il nostro malcapitato, pensando ad un ladro.
La figura sulla porta rispose con voce rauca “vugghje a ttè”(voglio te) e cominciò ad inseguirlo per tutta la stanza, buttando per aria tutto ciò che trova davanti. Dopo un paio di minuti di “fuggi fuggi”, Michele riuscì a guadagnare l’uscita e a salire a cavallo. Slacciò Saverio e, montato in sella, scappò senza meta lungo l’unica strada che legava la sua masseriola alla civiltà, la strada per Foggia. L’animale non aveva mai corso così veloce. Michele ogni tanto si girava indietro per vedere se scorgeva quella strana figura e continuava a bastonare Saverio per farlo andare sempre più spedito. All’improvviso, lungo l’arteria costruita chissà quanti anni prima dai Borboni o forse dagli Aragonesi, smise di piovere. Giunti sotto un alto cerro, Michele decise di fermarsi, anche per far riposare l’incolpevole cavallo. Passarono alcuni minuti, tuoni e lampi si scorgevano ormai in lontananza.
L’animale iniziò a nitrire nuovamente e ad innervosirsi. Una voce a distanza di qualche metro fece sbiancare il contadino. “Jé jnutele che fuje , tante sempe da mè a méni (è inutile che corri, tanto sempre da me devi ritornare). Michele non esitò un attimo, si rimise in sella e continuò la sua folle corsa verso il capoluogo foggiano. L’ombra, intanto, iniziò a seguirlo e più Saverio correva più l’oscura figura sembrava avvicinarsi. Come andò a finire?
“Michele venne trovato morto all’ingresso di Foggia, vegliato dal suo cavallo – ricorda orgogliosa di sapere Zia Giuseppina – fu stroncato, mi disse mio padre , da un infarto. E quell’ombra? “Era la morte! – conclude l’anziana rignanese- aveva anche il falcione”.
A questo punto, tuttavia, qualche dubbio ci viene. Accettiamo che la storia sia vera, però se Michele era solo in casa e morì a Foggia, chi raccontò al papà di Giuseppina tutta la vicenda?
“Che vuoi dire? – conclude confusa la nostra interlocutrice – che ho avuto paura per oltre settantacinque anni di quella storia, che non restavo mai da sola in campagna o qui a Rignano, per timore di incontrare quell’ombra, che ho raccontato tante volte quella vicenda ai miei nipotini, e che è tutto falso?”
Pare proprio di si.
Angelo Del Vecchio
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