Pubblichiamo la seconda ed ultima parte del racconto La suicida del Gargano, di Antonio Fazzini, uscito sull’ottavo numero della rivista Poliorama Pittoresco, che veniva pubblicata a Napoli, durante il Regno delle Due Sicilie.
La prima parte del racconto è stata pubblicata qualche giorno fa: se non l’avete letta, potete farlo cliccando qui.
Antonio Fazzini fu un pregevole, letterato viestano come il suo più famoso zio, l’abate Lorenzo Fazzini, filosofo e scienziato, cui lo stesso Poliorama Pittoresco dedicò alcuni scritti.
Anche il disegno (quello che potete vedere nel corso del racconto, mentre quello che illustra il post è la copertina della rivista) è firmato da un nome illustre: Filippo Molino, pittore e disegnatore originario di Vasto, che si ritagliò una buona fama nello straordinario fiorire di artisti nella Napoli della prima metà dell’Ottocento.
Ma ai miei giorni di gioventù eì ricordami che quei mariuoli erano conciati per le feste. Coi risparmi del Comune e le sovvenenze del Barone avevamo costrutta dei pini de’ nostri boschi una picciola armata, il tutto cinque vele; eli’ era la cittadella ove si riparava in caso d’incursione, e la nostra tomba quando morivasi combattendo per le case e gli altari. Comandava a quelle navi il giovane Arrigo, nome di buona ricordanza fra noi, poichè un suo bisavo, che così pure chiamavasi, aveva messo in fuga il tremendissimo Dragutte, il cui nome ci spaventa ancora come il demonio, quando già aveva preso ed incendiato mezzo il paese; ed il padre era morto in salvando dalle branche di quei feroci una vedovella che traevano alle navi con tre figli.
In un giorno del nove maggio, che si celebrava una festa la quale ricordavaci le nostre vittorie, ed era il paese tutto in allegria, e i contadini, e i borghesi sulla piazza, verso mezzo giorno ecco vedemmo apparir sul mare un punto nero, che avvicinatosi scovrimmo un legno, il quale girava ora da proda ora da poppa, bordeggiava ora a oriente ora a occidente, si fermava, fissava la terra come un falco il colombo che vuol ghermire. È un legno infedele, gridasi nella popolazione, all’ armi si risponde.
E in quel mezzo voi avreste veduto ognuno fuggir dalla festa, come se ci fosse caduto il fulmine, ire e venire dalle navi, un abbracciar di padri di spose, un trasportare un caricar di archibugi.
Le nostre speranze stavano nel valore d’ Arrigo Egli, rivolto prima uno sguardo in che domandava protezione e addio al castello sui merli del quale vedevasi come la regina del mare e del combattimento bellissima Angelina, die ordine dar dei remi in acqua e partire. Tutto il paese gittato sulle rupi vedeva con sensi di segreto orgoglio uscire in alto le nostre navi, che scioglievano dal porto a suono di bellici stromenti, a bandiere spiegate, in tutta la pompa di donne menate a marito. Ecco come nugoli neri minaccevoli di tempesta sbucar dalle rocce di Puntarossa tre grandi legni turcheschi, i cui alberi altissimi s’alzavano sul mare come il pino del cimitero. Impallidimmo ai nuovi pericoli de’ nostri fratelli. Già le due armate erano a fronte, vedevasi dalla terra lo spesseggiare dei lampi, e udivasi il cupo romoreggiar dei cannoni. In quel momento il cielo, che in quel giorno erasi mostrato sereno se non che verso lo spuntar del sole eransi visti di tanto in tanto fuggire, cacciati dai venti grossi e sperperati nuvoloni, s’annera, l’aere si vela di un nembo di nuvole le quali sembravano dapprima opposti battaglioni correnti all’ affronto, poi si vedevano abbracciarsi e formar tutt’uno come eserciti che si scovrono amici. Odesi mugghiante di valle in valle il cupo rombare del tuono, che si mischia al rumore dei lontani cannoni. I lampi del cielo veggonsi scontrarsi con quelli uscenti dai fianchi delle navi: un diluvio di acque che scende va a torrenti nella sua nebbia ci tolse infine la vista delle armate. Allora il popolo dolente, pensieroso, e fuggitivo traeva a casa.
L’ uragano era tanto imperversato, che quel giorno sembrava il finimondo. Il tuono addoppiava i suoi muggiti nelle valli col fragore di cento carra che scuotono la terra. Il mare torbido e spumeggiante sbalzava monti di acque sulle rupi, e urlando rompevasi nelle sottostanti caverne. Eppure la tenera Angelina in mezzo a quella furia d’inferno alla pioggia ai tuoni e alle folgori che le rombavano intorno al capo, stupida immobile senz’abbandonare il pianerottolo del castello fissava gli occhi su quel punto del mare ove il nebbione era rotto ad ora ad ora da un lampo che sembrava uscir dalle onde. Atteggiata di pietà d’ amore pareva una bianca statua d’una Santa posata sulle rupi a implorar dal genio delle tempeste la salvezza dei naviganti.
Qui il cielo volle travagliare la misera. Una folgore che scende su d’una quercia vicina al castello, sguizza di sghembo intorno alle vesti di Angelina, e le brucia quasi tutto il lato destro della persona dal braccio in giù. A quel rumore, a un suo grido i servi trassero da lei. Toltala dal suolo ove giaceva stordita, più in sembianza di morta che di viva la posero a riposare nelle stanze del castello.
Angelina dopo alquante ore si riebbe. Nella sua sventura di non altro dolevasi se non che Arrigo, vedendola cosi malconcia della persona, forse le avrebbe tolto il suo amore.
La domane di quel giorno infernale il Cielo appariva sereno; le onde gittavansi ancora mormoranti al lido, ma era il loro un gemito, di stanchezza e di agonia. Intanto sulla immensa pianura del mare non vedevasi apparir vela alcuna. Il paese, Angelina piangevano o che i nostri fossero caduti prigionieri, o periti nelle onde. Se qualche inviluppo vedevasi trasportato dai fiotti avvicinarsi alla sponda, ognuno pallido in viso vi correva, e tornavasi consolato d’averlo scorto un mucchio di alga marina.
La povera Angelina aveva perduto l’amante, la beltà: come un usignuolo che plora i figli ella rimpiangeva i giorni passati. Tutto il giorno assisa sul verone del castello domandava al Sole che ritornava dall’oriente se avesse veduto nelle sue contrade l’ amor di lei.
Un giorno un vecchio pellegrino, reduce di Terra Santa, divulgò nei terrazzani Arrigo e i suoi compagni essere stati vinti e imprigionati dai Turchi nelle nostre acque, aver poi in oriente rinnegata la Fede e cinto il turbante, Arrigo avere ancora sposata una donna infedele. Quali angosce per la travagliata Angelina vedersi priva di chi tanto amava? Qual orribile dolore saperlo nelle braccia altrui? Sempre udivasi esclamare Ahi! per lui disobbedii mio padre, per lui perdei questo pregio infelice di beltà, e egli ha rinnegato la fede dei padri, e dell’amante? gran Dio! a qual destino più crudele tu mi serbi?
Ella, non reggendo alla piena di tanto dolore, erasi decisa a morire. Voi vedete vicino a quel castello una rupe, ch’elevasi sulle altre come un tempio sulle case della città, ivi scelse il suo patibolo. Un giorno noi marinari ch’eravamo sul lido udimmo un gran tonfo nell’acqua, ci allacciammo al mare, e in mezzo a cerchiolini di picciole onde vedemmo dapprima una veste, poscia un corpo d’una donna, il cui viso non iscovrivasi perchè velato dai capelli. Accorremmo appiè della roccia, e ricogliemmo il cadavere della povera Angelina, a cui il gelo della morte non aveva rapita ancora l’antica beltà.
La Città quasi fosse stata presa d’assalto fu immersa nel dolore, e piangeva la gioventù le sventure l’amore tradito della travagliata donzella. Le campane del paese con lugubri tocchi a quando a quando interrotti, lamentavansi anch’elle al tramonto di quell’angelica fanciulla. Ma un triste pensiero angosciava noi tutti, se Dio poteva ricogliere nel suo Regno l’anima di colei, che senza sua chiamata erasi fuggita dal mondo… Ci lusingavamo che un pensiero di pentimento avesse potuto camparla dalle fiamme eterne.
Il nocchiero a queste parole cessò tutto a un tratto di parlare, si pose una mano al petto, prese un attitudine di preghiera con gli occhi rivolti al Cielo, e ripeteva la solita cantilena:
Per quest’ombra sconsolata
Deh! sciogliamo in sulla sera
Questa unanime preghiera,
Che l’accolga Dio nel Ciel.
«Signore, mi diceva, vedete l’ ombra di quella poveretta che ogni notte viene a visitar il suo avello: fors’ è questo il suo purgatorio. Miratela che ora s’inchina sulla rupe, ora bacia il sepolcro.»
Rivoltomi a quella parte ove cennavami il timoniere, non altro vidi che una bianca aerea nuvoletta la quale lambì la roccia, strisciò sulla tomba e sparve.
Il vecchio continuando il suo racconto mi fè sapere, che in quel giorno stesso in che Angelina era menata sotterra, giungevano nel paese Arrigo e’ suoi compagni. Arrigo all’arrivo, nell’udir da mezzo il mare il tocco della campana che suonava a mortorio, sentissi cercare il seno come da una punta d’ un pugnale: in quel suono lugubre melanconico egli presentiva l’ agonia dell’amor suo. Giunto sulla riva, e avendo domandato a un marinaio chi era trapassato del paese, colui gli aveva risposto: Perchè siete venuto così tardi ? perchè avete rinnegato il nostro Dio ? perchè, crudele, avete tradito quella infelice?
Arrigo col colore d’un condannato che va al patibolo, si allontanò da quell’uomo che troppo gli aveva rivelato. E da quel giorno ei più non apparve nel paese. Una barca che mancava delle nostre ci fè credere che egli si fosse abbandonato in balìa delle onde. Niuna novella ne corse nelle terre vicine. Ma nella notte vedesi talvolta un uomo pallido e sparuto, che ha più somiglianza d’ombra che di persona viva, vestito da pellegrino, assidersi a piangere sotto il salice che ombreggia il sepolcro di Angelina.
Antonio Fazzini.
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