Quello che state per leggere è uno dei primissimi reportage turistici che riguardino il Gargano e le Tremiti. Uscito sulla Stampa di Torino venerdì 19 aprile 1929, reca una firma illustre, anzi illustrissima. E’ quella di Riccardo Bacchelli, che all’epoca aveva 38 anni, aveva da poco debuttato come romanziere, dopo aver fondato la rivista letteraria La Ronda ed essersi segnalato come fine saggista ed autore teatrale. Bacchelli diventò uno degli scrittori italiani più amati con la trilogia de Il mulino del Po, da cui venne tratto anche un fortunato sceneggiato televisivo. Fu più volte candidato al Nobel per la Letteratura senza mai riuscire a centrare l’ambizioso traguardo, ostacolato, pare, dalla sua militanza cattolica, poco gradita agli ambienti socialisti e calvinisti svedesi. Fu autore di apprezzati libri di viaggio, ed a questo filone si iscrive senz’altro Le isole delle acque verdi che, più che un reportage turistico sull’arcipelago diomedea, è un racconto del viaggio in piroscafo da Manfredonia e San Domino, scritto con lo stile sensuale e sapido che ha reso celebre Bacchelli. Eccovelo, e buona lettura.
Le Isole delle Acque Verdi
di Riccardo Bacchelli
Il piroscafo che fa servizio, mare permettendo, due volte la settimana per le Tremiti, dà fondo davanti ad ogni rada dei paesi costieri da Manfredonia a Rodi, sollecitando colla sirena i barcaiuoli.
Li sollecita, specialmente il sabato mattina, perché in quel giorno il piroscafo «Epiro» rientra a Bari, sua sede, dove l’equipaggio passa la sera di sabato e la domenica in famiglia. Non gli si può far carico d’aver fretta; non si può far torto ai barcaiuoli di stare all’orario; e allora, dopo mattutine zufolate, che sveglian tutti gli echi delle pinete sopra San Menaio, e delle rupi di Peschici, e delle rade ampie di Vieste, avvengono sotto bordo bellissime contestazioni in lingua pugliese, che mi pare molto adatta a distinguere, sottilizzare, disputare e pungere, tanto nei baresi dell’«Epiro» quanto nei rivieraschi delle barche. Sola differenza l’accento, che è netto e sobrio quello dei garganici, quanto quello dei baresi è vocalizzante e spampanato.
Intanto passeggieri e carico s’imbarcano e sbarcano e la partenza rasserena i contendenti.
Ma questo succede al ritorno. L’arrivo alle Tremiti avviene per l’ora del tramonto.
E’ noto che fin dai tempi del Borboni esse furono adibite a luogo di relegazione e confino. Sul piroscafo «Epiro» s’incontran sempre dei coatti in traduzione, al quali, come son tolte durante la navigazione le manette, è resa un po’ di quella confidenza che il popolo non nega a coloro che, purgando essi la pena del malfatto, non è nostro compito giudicare. Cordialità e confidenza lontanissime da ogni umanitarismo sentimentale di qualunque sorta: che provengono, più che da ispirazione, dalle «opere della misericordia» ; e che il popolo nostro, profondo nella rettitudine del suo buon senso, ricava da un antico e sanissimo concetto della pena purgata.
Quando, coma capita, il coatto, ex carcerato o magari ex-galeotto, sia un gioviale compare, e il mare sia calmo, allora fra massaie, mercanti di pesce e contadini che popolano generalmente la Terza dell’«Epiro», e coatti benevolmente sorvegliati, senza confidenze per altro dai carabinieri, allora il gioviale coatto è capace di farsi il divertimento della traversata.
Quando poi riprende le manette all’arrivo, cambia faccia e non è più lo stesso uomo, si conosce, né per sé né per gli altri, lo non ho mai ricevute le manette (è una cosa che può benissimo capitare), ma tutti mi dicono quelli che le han provate, che per capire bisogna provare.
Mi ricordo che all’imbarco un ammanettato scivolò sul gradini del molo di Rodi, e batté duramente, senza potersi aiutare colle mani, l’osso sacro sul calcestruzzo. Era un giovinastro pieno di sangue. Se fosse stato libero, chi sa qual impeto d’imprecazioni avrebbe avuto il suo sfogo. Invece si rialzò più presto che poté, guardò il gradino dove aveva battuto, non lievemente, e gli vidi la faccia di colui che deve sempre tacere, di quello che il torto è sempre suo: faccia di protervia invilita.
Dopo un paio d’ore scarse di traversata, si palesa attorno alle Tremiti, già ben chiare e rilevate sull’orizzonte, il fatto per cui su tutta la costa si dice appunto, per dire andar coatto: essere mandato alle acque verdi.
San Nicola, San Dòmino e Capperara, cogli scogli del Cretaccio e della Vecchia, il gruppo principale di quell’unico arcipelago della costa italiana in Adriatico, si offrono allo sguardo unite e raccolte attorno al seno d’acqua che fa golfo e porto naturale fra San Dòmino, San Nicola e il Cretaccio. Di lontano paiono anzi una sola schiena collinosa. A tutte le ore del giorno, ma sopra tutto quando il sole tramonta, e all’occhio di chi vi naviga da levante, le acque intorno e davanti le Tremiti appaiono verdi non del verde che si vede sul mare alla superficie specialmente all’alba, ma d’un singolare verde, che par venuto dal fondo. Tutto lo spessore del mare par che sia verde; i colori del tramonto, vittoriosi e cangianti in cielo e sul monti del Gargano a poppavia e sulla costa d’Italia e sul lontano Appennino, quando è chiaro, e sul mare ovunque sia negli altri punti, lì di prua sulle acque delle isole perdono la partita, spariscono in quel color di smeraldo, che di tutti gli splendori del tramonto, lungi da smorzarsi, prende foga, lucentezza, profondità, quasi che se ne nutra.
Su quell’acque posano, radono, volteggiano stormi numerosissimi di gabbiani, che, nel venir meno del sole e nello scomporsi crepuscolare della luce in colori, paiono neri.
Sono i compagni di Diomede, poi che quando l’eroe, che sarebbe stato il primo dei greci se lo scettro non fosso stato di Agamennone e la gloria di Achille, venne a compiere il suo fato in Apulia, i compagni lo seppellirono in queste isole, e furon mutati dagli dèi in gabbiani, che le amano e che non le abbandonarono più
E’ una di quelle leggende che sapevan trovare i greci, ma, se ti capiti l’occasione, lettore mio, non perderla di visitare le isole Tremiti; e mi ringrazierai.
È buona regola, nel visitare i paesi, far in modo che resti voglia di tornarci. Siccome il piroscafo arriva per l’ora del crepuscolo e riparte prima dell’alba, posso ben dire di averla seguita questa regola; e che mi sia rimasta voglia di tornarci si spiega.
Tanto più, se vi dico che l’isola di San Nicola è una sorprendente e solenne cosa. Figuratevi una scogliera ardita tutta cinta di fortificazioni assai ben conservate. Si sale per un sentiero e per alcune scale, difese da muri e da ridotte, e comandate dagli spalti del gran castello. In pochi luoghi ho sentito che cosa fosse un «bello e forte arnese» di guerra, come laggiù. Era un’abbazia benedettina, e dicesi che i frati ci si trovassero così bene e animosamente a battagliar coi mori, coi saraceni e col dalmati scorridori del mare, che finirono per farsi molto più guerrieri che monaci, tanto che nel Duecento il papa li sostituì coi cistercensi. A questi seguirono i canonici lateranensi, che respinsero nel 1567 la flotta di Solimano II. Dentro la cerchia prima delle mura, in un ripiano, c’è lo squallido villaggio delle caserme, che danno alloggio a pian terreno agli abitanti borghesi dell’isola, pescatori, commercianti, appaltatori, e al primo piano ai coatti. I quali passeggiavano negli spiazzi, chiacchierando.
Io, accompagnato dal figlio del cav. Russo, ragguardevole cittadino di Rodi e mio cortesissimo ospite, e dal signor Raffaele Santoro, di San Nicola, badavo a salire in fretta al corpo centrale della fortezza, dov’è il convento e la chiesa. E giunsi appena in tempo per ammirare cogli ultimi bagliori del giorno quel limpido e prezioso esemplare di architettura del primo Rinascimento, che è la facciata di Santa Maria. Non mi rincresce della breve luce, perché questa brevità di tempo aggiunta, alla sorpresa dispose l’animo mio ad accogliere con una specie di appetito festoso e tripudiante la ricca gentilezza e grazia toscana di quel portale e della facciata.
Vi si scorgono i segni di cannonate inglesi durante le guerre napoleoniche. Dopo, San Nicola ha subito qualche tentativo di aeroplani austriaci, e ora una pace stupenda scendeva colla notte sull’isola monastica e guerriera.
Il parroco fu tanto cortese da aprirmi la chiesa, e visitai il bellissimo e fastoso pavimento a mosaico, alcune opere insigni di legno e di pittura, e la mummia del Beato Tobia, protettore dei pescatori tremitani, a cui essi attribuiscono la grazia particolare di non perdersene mai uno in mare, — tutto a lume di candela, come pure i refettori, i dormitori e i lunghi corridoi dei frati, dove ha sede la direzione della colonia penale.
In un torrione di Carlo II d’Angiò — poiché in questa fortezza han lavorato, si può dire, tutte le dinastie del Regno — certi coatti bandisti si esercitavano e provavano musica. Tornati che fummo, sullo spiazzo fra le caserme, era l’ora della ritirata, e sentii parlare il patrio dialetto. Eran certi bolognesi, ladri ed allegri, mi fu detto, i quali si rivolgevano motti «che il tacere è bello». Ebbi la tentazione, lo confesso, di dire: «O bolognesi, io sono della vostra terra», — ma poi mi trattenni per varie ragioni, ed anche perché non mi facesser suonare dietro le spalla nel buio qualcuno di quel patrii motti e suoni sconci.
All’ospitalità nei paesi garganici non è dato né permesso sottrarsi e il signor Santoro ci diede da cena e ci fece graditissima compagnia fino alla mezzanotte e all’imbarco, raccontando qual è la strana vita dei coatti e dei borghesi nella colonia (San Dòmino è coltivata dai coatti ed assai fertile), e parlandoci dei suoi figli pescatori ed abilissimi nuotatori. Aggiungasi che il vino delle Tremiti, dono del sasso e del mare, è ottimo e secco: la serata passò in un lampo.
Mi destò assai per tempo la sirena, che sollecitava i barcaiuoli di Rodi; e poi dall’ alba a mezzogiorno, ora dell’arrivo a Manfredonia, mi godetti la costa. Fino a Vieste l’ho già descritta; da Vieste, dove volge, a Manfredonia, è tutta impervia e deserta. Non vi si vede segno d’uomo fuor che le torri di guardia antiche e in rovina, che si seguono, visibili una dall’altra, di capo in capo, in modo da passarsi l’allarme ai tempi che furono.
La costa dirupata dal mare e dai terremoti è tutta un seguito meraviglioso di caverne e di altissimi archi naturali, scavati in una roccia bianca d’un caldo biancore giallino sul mare azzurro cupo, sul quale giocavano il vento, il sole, la scia, e gli ultimi gabbiani, che ci seguirono fin sulla bocca del porto di Manfredonia.
Riccardo Bacchelli.
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