Per gentile concessione dell’autore, Angelo del Vecchio, e su segnalazione di Antonio del Vecchio, pubblichiamo per l’archivio delle storie di Lettere Meridiane questo racconto, che giunge da Rignano Garganico.
Il brano è contenuto in “Lupi Mannari, Streghe e Fantasmi del Gargano” di Angelo Del Vecchio, pref. di Joseph Tusiani, Araiani, 2008.
La foto che illustra la storia è invece di di Alfred Eisenstaedt. Scattata a Rignano Garganico, è resa disponibile dall’archivio di LIFE Photo Collection, di cui Lettere Meridiane ha parlato in questo post di qualche mese fa.
Accade spesso nei piccoli centri abitati del Meridione italico che una storia realmente accaduta diventi una vera e propria leggenda di paese. E’ il caso di un aneddoto che viene tuttora raccontato tra gli anziani di Rignano Garganico, una vicenda comico-surreale che solo per l’intervento di un becchino-ladrone non si è trasformata in tragedia. Si tratta di un fatto realmente accaduto – almeno così giura zja Rosétte, un’arzilla signora del posto, che l’ha sentita raccontare a sua madre e a sua nonna – in un periodo indefinito, probabilmente tra Ottocento e Novecento.
Due giovani sposini rischiano di essere seppelliti vivi per non lavare i piatti e non perdere una ridicola scommessa. Per meglio capire cosa e come sia potuto accadere occorre ritornare indietro nel tempo ad un periodo dell’esistenza umana fatta di miseria, ma anche di tanta allegria e voglia di vivere.
Michele e Concetta (tutti i nomi che troverete nella storia sono di fantasia), due giovani ventenni di Rignano si incontrano per caso in una stretta viuzzola alla “Rotte”, il quartiere più antico del piccolo comune garganico. Il colpo di fulmine tra i due è immediato. Michele giura fedeltà eterna a Concetta. La stessa cosa fa la ragazza (con la speranza che papà Gennaro approvi la relazione). I due continuano ad incontrarsi di sera e di mattina, nei campi e in chiesa, al Pezzo dell’Orto e alla strettola. E’ un amore indescrivibile, quelle relazioni che uniscono un uomo e una donna per tutta la vita.
A distanza di alcuni mesi, fatti di incontri fugaci e furtivi, di baci mediati e di abbracci veloci, per non rischiare le ire di genitori anziani e assai poco avvezzi a questo tipo di cose, Michele e Concetta decidono di presentarsi alle rispettive famiglie e chiedere loro di poter convolare a nozze future. Concetta informa della cosa cummara Nicoletta, l’unica che poteva mediare con mamma Frusina, che la voleva sposata con il figlio di zje Lazzare, un omaccione di 43 anni capace solo di piantare patate e di potare ulivi. Michele informò, invece, tatà Jeséppe, il più anziano della famiglia, lui che sapeva tutto di tutti e tutto di tutto, lui che aveva compiuto 83 anni proprio l’altro ieri, lui che aveva avuto tre mogli e una quarta ammazzata chissà da chi in un pozzo alle Frustédde.
Le famiglie fecero presto ad accordarsi per il “parentato”, una sorta di contratto pre-matrimoniale fatto di miseri scambi e di tanta tensione. Un sottano, un sacco di tela, due pantaloni, due camicie, due calze, un rasoio, un paio di scarponi, un pastrano, cinque coperte, due cuscini, tre lenzuola, 20 piatti, tre galline, una pecora e 6 pezzi di formaggio la dote di Michele. Due scodelle, quattro forchette, due bicchieri, due coltelli, due cucchiai, un cuppino, quattro damigiane di vino, mezzo chilo di ceci, dieci chili di farina, una gonna, due sottogonna, una maglia, una camicia, un pastrano e un paio di pantofole la dote di Concetta, molto diversa e meno ricca di quella della sorella Mariettina, che aveva sposato un marinaio delle Tremiti e partita chissà per quale destinazione.
Al “parentato” ci sono un po’ tutti i familiari che contano. C’è mamma Frusina, c’è papà Gennaro, ci sono anche zja Miuccia, zje Vecenze, cummara Rocchine e ‘mpà Coline. C’è mamma Rosine e papà ‘Ntuniucce, ci sono pure zje Lazzare con la figlia Ninétte, cummara Velucce e ‘mpà Savérje. Tutto e pronto, i due non vedono l’ora di presentarsi al prete e unire le loro vicende per tutta la vita.
Il 2 maggio, alle 9.30 del mattino, sono già pronti per il passo più importante della loro esistenza. Il sottano alla Rotte, dove vivranno per il resto della loro esistenza, è stato imbandito di ogni ben di Dio. Patate lesse, fave fresche, carduzzi, uova, prupati, cacioricotta e vino rosso disposti su una tavolaccia, con due sedie nell’angolo sinistro. Nella stanza poche cose: una buffetta di nonna Celine, un saccone a mo’ di letto (posato su due tavole sorrette da due tieniletto in ferro battuto), una zappa, un forcone, un naspaturo, una corda, una cucina a legna, un priso, un “zje Péppe” (vaso da notte), un cassone, un lavaturo, una tina in ferro. Sotto al letto-saccone le tre galline e la pecora. Sopra uno scaffale, ricavato con due ferri al muro e una tavolaccia tarlata, le pezzotte di formaggio e l’occorrente per cucinare. Dietro la porta, appesi a chiodi arrugginiti dal tempo e conficcati nel legno chissà quando e chissà da chi, un ferro di cavallo, una croce e i due pastrani. Al centro del sottano un caminetto. Sul lato destro della porta una finestrucola 10 per 10. Michele e Concetta si presentano dal prete, si fanno sposare, salutano i compari Rinuccio e Santina, salutano i parenti (una cinquantina di convenuti) e iniziano la loro vita da dannati in uno dei centri abitati più poveri e isolati della Montagna del Sole. Ed è proprio a partire dal fatidico “sì” e dallo scambio degli anelli che parte la nostra vicenda tragi-comica, che solo per un caso non si è trasformata in sciagura.
Nonostante la povertà, Michela era vissuta per i suoi primi vent’anni nel vizio e nell’ozio. Non sapeva cucinare e fino ad allora non aveva mai lavato piatti, rassettato la casa e fatto il bucato. La prima settimana dopo il matrimonio, per non darla a vedere al marito, tentò di preparare a Michele pietanze più o meno veloci: pancotto, pane “iasckate” (tostato) e pomodoro, verdura lessa, cacio e fave ed altro.
Si mangiava una sola volta al giorno, la miseria era tanta e la paga di don Antonio non era delle migliori. Michele lavorava a Pescorosso, calava in campagna e risaliva in collina sempre a piedi. Tante volte era scampato alla “punture” (la polmonite o la broncopolmonite, che portava alla morte). Ritornava a casa puntualmente distrutto, mangiava qualcosa e piombava sul saccone, sognando forse scene d’amore con la sua amata Concetta, che non sfiorava più dalla notte delle nozze.
L’undicesimo giorno di matrimonio la catastrofe. Michele rientra a casa più distrutto e affamato del solito. Apre la porta di casa e trova Concetta intenta far di maglia. “Che fai? – le chiese meravigliato l’uomo – Non hai preparato nulla da mangiare? Ho una fame da lupi, dai smetti con quei ferri e cucina qualcosa. Domani al cantar del gallo devo già stare a Pescorosso, ci sono le fave da caricare sui carri. Forse don Antonio parte per un viaggio a Napoli e ci anticipa la paga settimanale”. “Ma non vedi che sto lavorando? – rispose la donna con gli occhi abbassati e le mani tremanti – Là c’è un po’ di pane e formaggio, serviti da solo”. Michele, forse intontito dalla stanchezza, non fece tanto caso alla risposta dell’amata e si diresse verso il cassone. Ed è qui che la vicenda inizia a farsi comica. Michele apre il portellone e trova quello che non avrebbe mai voluto trovare. Venti piatti sporchi, due padelle unte, un tozzo di pane, un pezzo di formaggio e un topo morto.
“Che ci fanno queste cose nel cassone e perché i piatti e le scodelle sono così imbrattati e anneriti – chiede l’uomo alla moglie, quasi in preda ad un attacco di panico o ad un infarto – Mi vuoi spiegare?”. “Ma caro non ti ho detto forse che non ho mai lavato i piatti a casa e che non so nemmeno da dove cominciare? – spiegò la donna – e poi dove li lavo nella tina o nel bacile? Non abbiamo un secchio e poi il pozzo comunale è troppo lontano, mi stanco ad andare a prendere l’acqua ogni volta”. “Aaaahh!!! Dannato il giorno che ti ho incontrata – esclamò furioso Michele – ora ho capito perché tua madre rideva quando gli ho chiesto se eri una buona donna di casa e se eri esperta di faccende domestiche. E ora?”. “Ora niente, facciamo una scommessa – gli propose Concetta – da ora in poi se uno dei due parla va a prendere l’acqua al pozzo e lava piatti e scodelle. Ti va?”.
L’uomo non rispose e piombò in un mutismo senza fine. I due evitando di guardarsi in faccia si mettono a letto e senza mangiare. La notte lo stomaco brontola, ma nulla accade, nessuno dei due dice una parola. Viene l’alba. Michele non vuole perdere la scommessa e vuole vedere se la moglie parla o meno. La pecora e le galline fanno chiasso, hanno bisogno di bere e di mangiare. Lo sposo è talmente indispettito che decide di non andare al lavoro. Passa la mattina. Passa il pomeriggio. Viene la sera e viene la notte. I due non parlano e restano a letto senza muoversi. Passa il secondo giorno, passano il terzo, il quarto, il quinto e il sesto. Nessuno in paese sa che fine hanno fatto. All’ottavo giorno papà Gennaro e papà ‘Ntuniucce decidono di andare a casa dei due sposini. Bussano alla porta. Ribussano. Nessuno dei due risponde, questa volta non per paura di perdere la scommessa, ma perché debilitati dalla fame e dalla sede. Passa il nono giorno. I genitori decidono di informare della cosa i carabinieri. Gli agenti si recano alla Rotte. Bussano alla porta. Ribussano. Non risponde nessuno. Decidono di riprovare. Michele aveva lasciato aperto il cassone, da dove veniva fuori un odore nauseabondo, per la decomposizione dei corpi del topo nel cassone, delle tre galline e dell’ovino, ormai deceduti da qualche giorno. La puzza è tanta ed arriva anche ai nasi dell’Arma.
“Qui c’è puzza di cadaveri – esclamò il primo agente al secondo – buttiamo giù la porta, forse uno dei due è ancora vivo”. Intanto il panico si fa strada tra i parenti di Michele e Concetta, mamme e nonne, cummare, zie e conoscenti iniziano a recitare le prime preghiere e ad urlare, a piangere, a battersi il petto e a tirarsi i capelli e a cantare inni e sonetti appresi chissà dove, chissà quando, chissà perché in qualche chiesa di paese. I due carabinieri prendono la rincorsa e assieme buttano giù la porta. Non ci voleva tanto, visti i tarli, vista l’epoca di costruzione.
Agli intervenuti appare subito agli occhi una scena raccapricciante, mista ad un forte odore di morte. Michele e Concetta, sembrano morti. Forse avevano deciso di passare a iglior vita assieme, di suicidarsi per l’esistenza di stenti che li attendeva. Forse avevano mangiato funghi avvelenati. Forte erano morti di paura per aver incontrato qualche lupo mannaro. Forse avevano subito gli attacchi di qualche megera di paese. Forse di notte un defunto deluso aveva provveduto a succhiare le loro anime per un torto subito in vita. In realtà i due erano talmente testardi che si fingevano morti pur di non perdere la scommessa dei piatti e delle scodelle.
“Chiamate il prete, chiamate il becchino – disse una delle guardie alla folla intervenuta – questi son morti!”. Nessuno controllò il cassone e il topo morto e le tre galline e la pecora e i piatti e le scodelle non lavate e il formaggio andato a male e il pane ammuffito. Seguirono urla e pianti e poi di nuovo pianti e urla. E non è finita qui la storia dei due amanti testardi.
La vicenda che narriamo si sposta all’indomani del ritrovamento. Michele e Concetta sono stati stipati in due bare di legno di mandorlo. Cinque tavolacce disposte a mo’ di parallelepipedo. Sul coperchio una croce rossa, disegnata alla rinfusa rende ancor macabra una vicenda già macabra. Nessuno dei due parla. Nessuno dei due vuole perdere una scommessa che crede vinta. La fame e la sete e i bisogni corporali non sono sufficienti a farli svegliare da quell’incredibile follia. Al funerale c’è mezzo paese a piangere i due sposini morti chissà come, forse rapiti in sogno per la vendetta di qualche spettro o di qualche “mascjare” (megera).
Vengono portati al cimitero ed è qui che volge al termine la nostra storia, uscita dalla fantasia di chissà chi o forse realmente accaduta. Ormai è sera, i parenti e il prete decidono di seppellire i due la mattina seguente all’alba, alla stessa ora in cui Michele iniziava a lavorare i campi a Pescorosso. Si dà l’ordine al becchino Ninuccje di sigillare le bare. L’uomo annuisce e riferisce di volerlo fare di lì a qualche ora. La decisione del becchino si rivela importante e decisiva per Michele e Concetta. Infatti, ricorda zja Rosétte, Ninuccje aveva il “vizio” di “ispezionare” i cadaveri di notte e di rubare loro oggetti di valore. Così fece anche per i due sposini. Concetta era una bella donna, molto avvenente e ben formata. Ninuccje, probabilmente proprio per questo, decide di iniziare da lei. Le toglie le pantofole, le toglie i calzettoni, poi la maglia, la gonna, i fermagli sulla testa, le due collane, l’anello e infine il reggiseno. L’uomo si rende conto di non aver mai visto un corpo simile. Rimane a fissare ogni sua parte per qualche minuto. Ritornato in se, decide di ultimare il suo lavoro, ovvero di levarle l’ultimo panno, una vecchia mutanda realizzata a mano da nonna Nannuccje. Ninuccje decide di proseguire lentamente e di scoprire il membro femminile senza fretta. Si avvicina alla bara dalla parte inferiore, quella dei piedi. Ed è proprio in questo momento che accade l’incredibile.
Concetta, in preda ad un attacco di pudore e incurante della scommessa afferra il becchino per i capelli ed esclama scocciata: “che cavolo, non hai rispetto nemmeno per chi è morto, anche le mutande mi volevi levare?”. Ninuccje rimane di stucco e scappa via a gambe levate dal cimitero, urlando come un pazzo. Michele si alza di scatto dalla bara e inizia a saltare per la gioia e per la certezza di aver vinto una scommessa dall’incredibile finale. La moglie ha parlato e tocca a lei lavare i piatti. Finisce qui questa vicenda che sa tanto di barzelletta d’altri tempi, ma che in realtà potrebbe essere realmente accaduta in una Rignano molto diversa e molto più povera di quella attuale. Almeno così giura zja Rosétte, almeno così ci dicono gli anziani del paese, che in quanto a storie simili ne hanno ancora tante da raccontare.
Angelo Del Vecchio
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Caro Angelo. Il racconto è carino e intrigante. Ma siamo sicuri che le donne abbiano un… "membro"??!!!
Ciao. Con simpatia. Maurizio De Tullio