Foggia Far West. A leggerlo oggi, un titolo di giornale così fa correre il pensiero a uno dei tanti episodi di cronaca nera che hanno portato la nostra terra alla ribalta nazionale. La metafora con il West lontano e selvaggio è mediata dal riferimento alle pistole ed alla illegalità.
Ma non è stato sempre così. C’era un tempo che l’immagine del West veniva usata da chi raccontava la provincia di Foggia, per esaltarne il rapporto con la terra, la sua ricchezza, o per ricordare certe analogie col proibizionismo che s’erano diffuse in città durante l’occupazione americana. In un caso e nell’altro, il Far West veniva assunto come un paradigma positivo.
Con il titolo Foggia come Far West e il significativo sottotitolo “La città è cresciuta di colpo, e presenta grattacieli accanto a catapecchie; quanto tempo è passato da quando re Enzo, prigioniero in una torre di Bologna, cantava Puglia piana laddove è lo mio core nocte e die”, Il Popolo di mercoledì 13 agosto del 1958 pubblicò nella pagina culturale, un bel reportage di Angelo Narducci, giornalista di origine abruzzese, che rappresenta a mio avviso uno dei più migliori ed interessanti articoli che abbia mai letto su Foggia.
L’articolo è molto bello in se stesso: un pezzo di grande letteratura, una narrazione intensa, ma mai fine a se stessa, orientata prima di tutto a capire e a far capire. Sullo sfondo, c’è l’intervento straordinario nel Mezzogiorno che in quegli anni andava consolidandosi, e che vedrà nel capoluogo dauno un suo avamposto importante.
L’ottimismo di Narducci è giustificato, anche se le cose non andranno poi nel senso sperato.
Il pezzo uscito sul quotidiano della Democrazia Cristiana è di qualche anno precedente a quello scritto da Giorgio Bocca (Spider bianca su statale pugliese) sul medesimo argomento: la trasformazione della città, che cresceva ad un ritmo assai già impetuoso di altre realtà meridionali. Laddove Narducci si sforza di indicare l’importanza nevralgica dell’agricoltura nelle dinamiche di sviluppo di Foggia, Bocca racconta in modo impietoso dei palazzinari che cominciavano ad allungare le mani sulla città.
Tra la terra e il cemento, ha vinto il cemento? Ed è forse la ragione della crisi profonda che sta massacrando Foggia? Non lo so. Bisognerebbe parlare e può risultare molto utile, in proposito riflettere sui due articoli.
Leggetevi questo di Angelo Narducci, perché ne vale veramente la pena. Carducci è stato uno dei già significativi esponenti del giornalismo cattolico del secolo scorso. Dopo l’esperienza professionale al Popolo, di cui fu redattore capo e responsabile della terza pagina, diresse per ben undici anni il quotidiano cattolico Avvenire.
È stato anche europarlamentare per la Democrazia Cristiana. Di seguito l’articolo. Se volte scaricarlo nella versione originale, scansionata, cliccate qui.
Quando si viaggia, solo apparentemente ci muove l’ansia del nuovo. Il desiderio di conoscere gente e luoghi nuovi: in realtà si va da un paese all’altro alla ricerca di analogie con i posti che ci sono cari, consueti. “Ecco, questa strada somiglia al vialone che dalla Chiesa portava al cimitero e questo prato è simile in tutto, persino nei fiori di zafferano selvatico, al “Prato della Noce“ dove giocai ragazzo quando, nelle sere estive, il rumore delle trebbiatrici si era fermato e le enormi biche di grano diventavano un piccolo paese con le strade, le case, il campanile.”
Angelo Narducci |
Vale la pena di andare in Normandia a varcare le Ardenne, i Pirenei per far nascere, tra una sosta e l’altra, pensieri così poco peregrini? Forse no, ma non se ne può fare a meno. È più forte di noi: crediamo di correre dietro a una città, ad un paesaggio, di decifrarli ed in realtà ci affatichiamo dietro noi stessi.
Anche se così non fosse, io credo che sia così: ed è diventato un vizio per me, una specie di puntiglio puerile il ricercare, dovunque vada, vicino o lontano, qualcosa che somigli alla mia terra. Questo preambolo per cercare di chiarire il mio stato d’animo, una volta arrivato alla stazione di Foggia.
Non avevo percorso la strada – ma in un comodissimo treno, mi dicevo per frenare gli astratti furori – che i pastori del mio Abruzzo avevano già calpestato per centinaia di anni? Non avevo creduto di intravedere i segni di quel “Tratturo” che da secoli conosceva, insieme alle stelle, i discorsi notturni dei garzoni che dai pascoli, ormai freddi e spogli del Gran Sasso e della Maiella, scendevano al Tavoliere. E non era Foggia la città che doveva, come L’Aquila, a Federico II la sua grandezza, forse i suoi anni migliori? Non era da Foggia che tornavano all’Aquila attraverso pastori, mercanti e goliardi, le canzoni d’amore e di guerra della corte di Federico. Il gusto delle analogie mi portava lontano: davanti al portale della reggia di Federico II, che i buoni foggiani hanno prudentemente fissato in un muro del Conservatorio perché meglio resiste all’usura del tempo, già immaginavo di trovarmi alla corte del grande Svevo, poeta, filosofo, gran donnaiolo, cacciatore, biscazziere, e, quel che non guasta, uomo dotato di un preciso senso del diritto. Pranzi, donne, tornei poetici, cavalli e cavilli giuridici a non finire con tutti quei pastori che protestavano sempre per il balzello e magari cercavano di imbrogliare sul peso della lana e del bestiame.
Da questo accavallarsi di immagini e reminiscenze mi riscossero due manate sulle spalle, rudi e cordiali come forse solo gli abruzzesi – perdonate l’amore del campanile – sanno darle. Erano due vecchie conoscenze del paese di mio padre e non ebbi bisogno di fare domande per conoscere il motivo della loro presenza a Foggia, quasi all’epoca della mietitura. Stava per chiudersi la Fiera dell’Agricoltura e della Zootecnia ed erano venuti in Puglia, come altri abruzzesi e molisani, quasi in comitiva ad aggiornarsi sulle ultime novità nel campo delle macchine agricole, a cercare un trattore usato, a contrattare un paio di buoi, a discutere di sementi.
La Fiera è il grande orgoglio di Foggia. Si apre il 23 maggio per chiudersi il 2 giugno e per tutto il periodo di apertura è sempre affollatissima. Quest’anno a causa delle elezioni, l’inaugurazione è avvenuta con qualche giorno di ritardo sulla data tradizionale ma gli agricoltori della Capitanata, del Lazio, del Molise, della Lucania, dell’Abruzzo hanno lasciato a metà il lavoro nei campi per affollare gli stands.
Naturalmente non tutto va liscio due punti i foggiani non contadini vorrebbero che la fiera, anziché procedere sulla via di una serratissima specializzazione, assumesse il tono di una “Campionaria” ed offrisse anche dei divertimenti: ma i dirigenti dell’Ente Fiera fanno, a buon diritto, orecchio da mercante.
Per chi cerca altro, dicono, c’è la fiera di Bari. L’agricoltore si sente meglio tra agricoltori, in una fiera tutta dedicata ai problemi e alla vita dei campi. Che forse la Fiera di Verona vuol rifare il verso alla Campionaria di Milano? Sono polemici i foggiani nello esprimere le loro idee e nel difenderle, molto diversi da quella specie di “peones” che dovrebbero essere i meridionali in genere. Forse, a ripensarci, un po’ “peones” erano certi gruppi di Foggiani, almeno prima della guerra, mi suggerisce un amico che mi accompagna in giro per la città. E mi parla di alcuni proprietari abituati soltanto a riscuotere le rendite dei terreni dati in affitto, soci di un circolo alla moda. Poi è venuta la guerra e molte cose sono cambiate, specialmente con l’occupazione alleata. La città era andata in gran parte distrutta, gli abitanti quasi dimezzati ma la liberazione porto moltissime Am-lire e una gran voglia di vivere.
C’è chi rabbrividisce ancora pensando a quel periodo: Foggia – mi dicono – sembrava una città americana all’epoca d’oro del proibizionismo. Tutti distillavano qualcosa, whisky, gin, cognac, grappa, tutti avevano qualcosa da vendere o da comprare e per chi non possedeva il bernoccolo degli affari rimaneva sempre la risorsa di aprire un rubinetto privato nelle tubature che portavano la benzina ai campi di aviazione alleati.
Oggi a Foggia distillano liquori soltanto coloro che sono debitamente autorizzati, ma, per altre ragioni, evidentemente, la città sembra più che mai un centro del West.
Ho detto prima che la guerra aveva mietuto senza risparmio tra i Foggiani: dei 62.000 abitanti che la città contava nel 1936 ben 18.000 morirono nel periodo bellico. Ebbene: mentre l’incremento della popolazione della provincia è stato perfettamente normale, Foggia è passata dai 62 mila abitanti del 1936 ai 120.000 attuali, raddoppiando la sua popolazione.
La città è cresciuta di colpo e la sua struttura ne serba le tracce: la tentazione e l’illusione del grattacielo (palazzi di 9-10 piani) accanto alla catapecchia ormai in malora, taxi in spietata concorrenza con le carrozze a cavalli.
Le ragioni di questo incremento? Ad onor del vero nessuno me le ha spiegate bene, o forse non le ho capite io, perduto come ero dietro le vestigia di Federico II e di Manfredi. Ma indubbiamente la politica di intervento statale dell’ultimo decennio, la riforma agraria, l’opera di bonifica, i lavori pubblici, sono stati altrettanti fattori determinanti per lo sviluppo e la crescita di tutta la Capitanata e di Foggia.
Basti pensare ai lavori per l’utilizzazione irrigua dell’Ofanto e del Fortore per comprendere quanto essi possano incidere sull’economia non soltanto locale contribuendo al miglioramento del reddito.
Un miglioramento del reddito, diciamolo chiaramente, è sempre un fatto di civiltà e di progresso, non basta da solo a far progredire una popolazione, a renderla migliore, ma vi contribuisce, e molto.
Lasciando da parte le inflazioni, la circolazione di quattrini può essere fatto di civiltà non per il denaro in se stesso, ma perché con l’aumento del reddito viene la voglia di far proseguire la scuola ai propri figli, di andare al cinema, di acquistare libri e il televisore, di fare qualche viaggio. Queste dighe, questi lavori di bonifica in atto, quindi, non sono utili soltanto ai contadini che potranno prima o poi irrigare a dovere i propri campi, ma a tutti i cittadini di Foggia e della Capitanata. Dove le cose, d’altronde, è già da un po’ di tempo che vanno meglio: l’incremento delle spese per i divertimenti, il maggior consumo di energia elettrica dovuto anche alla diffusione degli elettrodomestici, la crescente vendita dei televisori, sono tutti elementi decisamente decifrabili chiaramente anche da chi capisce poco di economia come me.
È una riprova della bontà dell’intervento statale, del successo (pur con tutte le riserve possibili e immaginabili), dell’azione meridionalistica di questi anni.
Si potrebbe, questo punto, squadernare una lunga sfilza di cifre, ma servirebbe a poco: basta mettere il naso a Foggia per capire subito che la città cresce, anche se soffre di qualche disturbo di crescenza, anche se tante cose, come tutte le cose di questo mondo, hanno bisogno di tempo, di pazienza, di buona volontà, di tenacia. E non sono doti che mancano.
Angelo Narducci
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