Parco ungarettiano della Daunia, un’occasione perduta

I parchi letterari sono stati forse il più riuscito esperimento di promozione e di marketing del territorio fondati sulla cultura. Un parco letterario è la premessa di un paesaggio che si offre non più soltanto dal punto di vista naturalistico, ma anche da quello culturale. È, in un certo senso, la sommatoria e l’ineffabile equilibrio tra gli elementi fisici e quelli spirituali che rappresentano l’essenza di un territorio e della sua comunità.
La nostra terra aveva le carte in regola per avere uno, e forse due, parchi letterari. 
Si è trattato, invece, dell’ennesima occasione perduta. L’idea di un parco letterario ungarettiano in provincia di Foggia  venne lanciata nel primo decennio del Duemila da un intellettuale attento e raffinato come Luigi Paglia, che è tra i maggiori esperti della poesia ungarettiana in Italia.
Pochi sanno che il grande poeta visitò Foggia e altri centri dauni, raccontando il suo viaggio in reportage di grandissimo spessore letterario, che rappresentavano in se stessi un eccellente presupposto per un possibile parco letterario. Vi fu poi l’idea del parco letterario del Gargano Segreto, legato alla straordinaria figura di Pasquale Soccio.
Non si è purtroppo riusciti a portare a compimento né l’uno né l’altro. Ci sono voluti anni, e tutto l’impegno di Paglia, affinché Foggia dedicasse qualcosa a Giuseppe Ungaretti: il giardino pubblico che circonda l’Epitaffio, a confine di quel piano delle fosse che venne cantato dal poeta in modo così struggente.
Del grande patrimonio rappresentato dalle Prose Daunie di Giuseppe Ungaretti e degli studi compiuti da Paglia, Lettere Meridiane si occuperà diffusamente. Cominciamo, oggi, dall’articolo che Luigi Paglia scrisse per Carte di Puglia, rivista delle  Edizioni del Rosone, diretta da Antonio Ventura, pubblicato nel numero 19, a giugno del 2008. Ringrazio Paglia, il direttore Ventura e l’editore Falina Marasca, per aver autorizzato la pubblicazione. 
Anche se il sogno del Parco Letterario non si è avverato, la lettura di questo grande pezzo di letteratura che riguarda la nostra terra resta sempre un esercizio utile, da consigliare soprattutto ai giovani, per conoscerla meglio, per amarla di più.
(g.i.)

Un parco ungarettiano per la Daunia

di Luigi Paglia
1. I Parchi letterari sono lo “spazio fisico e mentale dove l’autore ha vissuto o ha assorbito l’atmosfera che lo ha portato a scrivere le sue opere”. Essi costituiscono una grande e molteplice risorsa in quanto la loro proposta culturale si coniuga con lo sviluppo economico, L’incremento del turismo e la valorizzazione del territorio.
In Italia i Parchi letterari sono quasi quaranta, dedicati a personalità di spicco dell’universo letterario: da Omero a Dante, da Leopardi a Carducci, da Verga a Pirandello, da D’Annunzio a Quasimodo, e due sono sorti in Puglia intitolati a Tommaso Fiore (a Noci) e a Massimo D’Azeglio (per la Disfida di Barletta).
In questo panorama appare quanto mai opportuna (e indifferibile, in quanto qualche altro territorio italiano potrebbe precederci) la creazione di un Parco ungarettiano nella Daunia, le cui motivazioni e giustificazioni discendono direttamente dallo stesso poeta.
Nel 1934, Giuseppe Ungaretti, il più grande poeta italiano del Novecento (insieme a Montale, che ha già nelle Cinque terre il suo Parco) sembra quasi che abbia suggerito, prefigurato, con le sue otto splendide ‘prose poetiche’ dedicate alla Daunia, lo straordinario itinerario paesaggistico, artistico, culturale di un Parco letterario che, doverosamente, dovrebbe prendere il suo nome.

2. Il viaggio ungarettiano (e l’itinerario del possibile Parco) (1) comincia, registrato nella prosa del 20 Febbraio 1934, dalle Chiese e dalle fontane della nostra città (e la definizione di “un Sahara diventato Tivoli” suona, in questi tempi di emergenza idrica, con involontaria e triste ironia) e si svolge nella pianura, che “s’apre come un mare”, dove “ha il suo regno il sole autentico, il sole belva” che il poeta raffigura “nel suo sfogo immenso, ondeggiare coll’alito tormentoso del favonio sopra il grano impazzito”. La “strada che porta al mare” ha il suo bersaglio in Santa Maria Maggiore Sipontina: “Poi dalla solitudine si sprigiona una colonnetta, e le fanno seguito a pochi passi, su leoni, le colonne che, fra le scure sopracciglia di archi ciechi, reggono in una facciata deserta il ricco portale di Santa Maria Maggiore di Siponto.
Questa è dunque quell’arte solenne che dicono pisana […]. Non me ne intendo, ma non stupirei se questa cattedrale in mezzo al prato fosse davvero il primo esempio del costruire monastico e guerriero nel quale il Medioevo si provò a fondere le esperienze del suo rincorrere la visione del mondo, dall’innocente epica dei Mari del Nord alle erudite voluttà della svelta Persia. La nascita d’un’architettura signfica il principio d’una chiarezza spirituale e d’una volontà vittoriosa. Perché nell’era cristiana non dovrebbe essere stata per prima questa terra, questo ponte dei Crociati, a immaginare saldamente, nella pietra murata e ornata, un’unità fra Occidente e Oriente?”.
Non manca nella ‘celebrazione’ ungarettiana (nella prosa del 6 Marzo 1934) il riferimento all’eroe arpano (“Un Diomede laureato e il giavellotto fendente l’aria sopra la fuga d’un cinghiale: la celebrazione del fondatore d’una città in maremma, nel suono d’oro d’una moneta. Per tutta la riviera adriatica – come è del Tirreno, Enea — corre voce di questo Diomede dalla barba fiorita |…]. Un mucchio di monete nelle vetrine: Diomede e la ragazza con la corona di spighe, e l’uomo che rovescia un leone. Più alcune anfore piantate bene: memorie di braccia che, alzandosi per trattenere un peso nell’armonia rigogliosa dei passi, facevano impazzire”) ed alla nascita di Manfredonia (“Non è quasi più nemmeno una memoria anche l’acqua malata che a un re animoso fece ordinare l’esodo totale degli abitanti [da Siponto] e fondare a qualche chilometro più in là, la città cui dette il nome. Ma forse la malaria non fu che un pretesto, e la necessità d’avere braccia per la costruzione d’un porto potente consigliò invece il guerriero”).
3. Dalla pianura e dal mare (“l’arco di Manfredonia si volta giusto nel punto dove, pieno di freschezza e di appetito per l’abbondanza di seppie, lo sguardo dell’acqua marina si fa moro come quello di gìtane”), lo sguardo e il viaggio del poeta si sollevano al Gargano: “Il Gargano è il monte più vario che si possa immaginare. Ha nel suo cuore la Foresta Umbra, con faggi e cerri che hanno 50 metri d’altezza e un fusto d’una bracciata di 5 metri, e l’età di Matusalemme; con abeti, aceri, tassi; con un rigoglio, un colore, 1’idea che le stagioni si siano incantate in sull’ora di sera; con caprioli, lepri, volpi che vi scappano di fra i piedi; con ogni gorgheggio, gemito, pigolio d’uccelli”.
A Montesantangelo, l’attenzione del poeta è captata dallo straordinario scenario del rione Junno (“Le sue case, per le porte sormontate dalla finestra a balconcino, a questa distanza le diresti una greca che coroni il monte”) e dalla cosiddetta tomba di Rotari la cui descrizione è di straordinario fervore poetico: “Un’architettura degna di Ispahan! È un monumento misterioso. All’esterno s’alza come una mole che faccia da testa al monte, e pure portando i segni netti d’un’arte molto avanzata, non riesce nel suo ritmo a dissimulare non so quale violenza caotica della natura ancora vergine [. . .]. Il suo colore interno è d’un rosa secco. Un colore che verso l’alto diventa d’una accalorata luce diffusa. Si ha veramente l’impressione d’essere scesi in una profondità di tomba, circondati da visioni infernali, come quel potente groviglio che rappresenta l’avarizia tormentata. Ma alzando gli occhi in questo luogo di sogno, ecco un primo conforto: fra l’accidia e la lussuria, ecco la maternità, ecco la vita trionfante! Teniamo gli occhi alti, seguiamo gli spazi che salendo prendono a gradi una forma più raccolta, arriviamo alla sommità, lassù, — lassù l’occhio si fa piccolo per arrivare a vedere — e vedremo un’aria soprannaturale, contenuta come in un guscio d’uovo trasparente che una freschezza illumina  Molto probabilmente questa tomba sarà anche un battistero. Non è il battesimo un sacramento dei morti alla grazia? E non li risuscita?”.
La visione del poeta si allarga, nella prosa del 1° Aprile 1934, alla stupefacente prospettiva del Tavoliere spalancato giù in basso (“Dall’alto, così muoversi a perdita d’occhio, non avevo mai visto il grano giovane. Soggiace appena al suo alito in fiore; ma è un alito immenso, un alito di felicità finalmente palese, davvero da terra risorta. Un alito di Pasqua, davvero di terra finalmente di luce. E non lo definisce luce la sua incertezza stessa? Quell’essere ancora il tremito d’un calore libero da poco lungo lo stelo dalla zolla, d’un calore che ancora tralasciare non può, nello scorrere oltre la tenerezza dell’erba, qualche ombra di violenza segreta?
Calando dai monti portato all’infinito in palma di mano, è stamani il Tavoliere d’una freschezza e d’una felicità. . .”) e poi si proietta alla Basilica, con l’evocazione del volo dell’Arcangelo, e della diffusione dei santuari micaelici (non tralasciando, di passaggio, l’accenno gastronomico a li fascinedde. I ostia chiene, li pupratidde, carrube, croccanti, ciambelle di cacio): “Un giorno un’idea, e conteneva in sé fuse tante altre forme, da una proda bizantina prese il volo e, chiamatasi San Michele Arcangelo, venne a posarsi su questo monte. Gli sono venute dietro tutte quelle case bianche che vedete, che s’arrampicano l’una dietro l’altra piene di 20.000 Cristiani, sormontate da fitti comignoli lunghi lunghi, che formano una strana roccia con mille feritoine per farci il nido. Gli è venuto dietro quel campanile angioino che alza […] i suoi 25 metri, come un enorme cero pasquale, imitando il poderoso e grazioso slancio delle torri ottagonali di Castel del Monte. Ha persino un portale della medesima breccia picchiettata di sangue del monumento svevo. Dal quinto secolo in qua, gli è venuta dietro questa città di Montesantangelo, brulicante a 900 metri sul Gargano” .
“L’ apparizione garganica abbaglio tutta l’Europa. Perché stupirsi che i Normanni, tornando dai Luoghi Santi, salissero il Monte per acclarnarla? E perché quindi stupirsi che sino dal settimo secolo, a imitazione di questo San Michele di Puglia, il San Michele a Pericolo del Mare sul Monte Tomba nella Neustria, trovasse in un sasso druidico rifugio, stringendo tra i due santuari mistico patto di guerrieri?”
La discesa nella “caverna” è fortemente suggestiva e connotata di proiezioni simboliche: “La scala va giù, va di qua, va di là, trova un raggiolino di sole, lo perde […]. In fondo, la facciata con la sua mirabile porta di bronzo eseguita «da mano greca per Pantaleone Amalfitano» nella «regal città di Costantinopoli», nel 1076. Sono, dal punto di vista dell’arte, il tesoro del santuario. Nei 23 riquadri dei 24 che formano le due imposte — nel 24° c’è un’iscrizione — appaiono figure bislunghe delle quali il bulino ha inciso il contorno, fatto risaltare da un filo d’argento premuto nel cavo. Alle estremità di ogni contorno intarsiato e dentro uno sparpagliamento di piastrine d’argento intagliate, s’irrigidiscono piedi, mani e facce. È un giocherellare sottile e goffo di lucettine sopra una piatta e dura tenebra: non resta di solito molto di più d’una grande tradizione giunta all’ultimo ieratismo della sua decadenza; ma qui è giunta, nel suo tremolare, a quella smemoratezza senile che annuncia la primitività.
Entriamo. Attraversiamo una navata gotica. C’inoltriamo, ci rinveniamo poi affondati nell’antro. Il luogo è umido, e in mezzo all’oscurità a poco a poco si rivela una statua corazzata d‘oro, attorniata da un tremolare di lucette di candele. È l’Angelo! […]. Mi fermo dove l’oscurità è più densa. Ecco, sono bene a contatto ora della natura cruda. Caverna: luogo d’armenti, e d’angeli dunque: luogo d’appari7.ioni e d’oracoli. Ma forse c’è anche stato in questo cuore della terra un uomo anteriore ai terrori, vicino alla sua origine divina: profetico fantasma di sé, del suo penoso incivilirsi”.
(1. continua)
Luigi Paglia

(1) La recente progettazione del Parco letterario “Gargano segreto” non contrasta con l’istituzione del Parco ungarettiano: il defunto Stanislao Nievo, all’epoca presidente della fondazione Ippolito Nievo, nella sua visita a Foggia del 20. 02. 2003, dichiarò che la creazione nello stesso territorio di due Parchi sarebbe addirittura auspicabile in quanto si realizzerebbero la sinergia e la collaborazione tra le due istituzioni.

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Author: Geppe Inserra

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