A che serve la memoria, e come si sfoglia un album della memoria? Sono domande tutt’altro che peregrine, in un momento in cui, soprattutto grazie alla rete e ai social network, il recupero del passato sta conoscendo un autentico exploit.
Lo strumento che sta sorreggendo più massicciamente questo processo è rappresentato dalle fotografie. Il fenomeno ha innescato una importante produzione di public history, disciplina nuova e pertanto sfuggente, di non facile definizione, che alcuni declinano come storia fatta dai non storici, ed altri come divulgazione senza frontiere.
Confesso che non gradisco modo la pubblicazione a raffica di foto che caratterizza molti dei gruppi nati sul social network proprio allo scopo di condividere la memoria. (Mi riferisco naturalmente alle foto d’epoca, del passato, e non alla pubblicazione di foto dell’oggi da parte degli autori. Ci si può esprimere in tanti modi e l’immagine è uno di questi modi, anzi tra i più efficaci).
Questi gruppi svolgono una funzione preziosa nel recupero dell’identità, ma il problema è quando si pubblicano foto o storie del passato, acriticamente.
Una immagine ha senso se viene interpretata, perché un’immagine, soprattutto se giunge dal passato, offre sempre stimoli importanti di riflessione.
Bisogna poi fare i conti con lo specifico contesto in cui la foto viene “comunicata” da chi la pubblica e fruita da chi la osserva. Una cosa è sfogliare un album di fotografie in famiglia, un’altra guardare foto l’una dopo l’altra sulla bacheca di un gruppo social, ed un’altra ancora sfogliare gli albumi digitali presenti all’interno del social.
C’è però a disposizione una rilevante quantità di materiali, che rende possibile, starei per dire intrigante, la contaminazione tra approcci e contesti e strumenti di comunicazione diversi: sperimentando nuovi, possibili format.
Ve ne propongo uno del genere oggi, e mi perdonerete, perciò la lunga premessa.
L’obiettivo è custodire e tramandare la memoria attraverso il suo racconto visivo (audiovisivo). Raccontare la memoria, attraverso quelle che mi piace definire immagini militanti.
Negli anni Trenta dello scorso secolo, il fotografo foggiano Rodolfo Longo scattò una serie di fotografie ai posti più incontaminati del Gargano, che cominciavamo ad affacciarsi ad una possibile valorizzazione turistica grazie al collegamento ferroviario: San Menaio, la baia di Calenella, Monte Pucci, la pineta Marzini.
Più che un’artista, Rodolfo Longo era un documentarista. Le sue fotografie garganiche sono finite nel Fondo Ester Loiudice, custodito dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Chissà che non siano state commissionate al fotografo proprio dall’etnologa foggiana, che in quegli anni fondava la sezione Tradizioni Popolari del Museo Civico di Foggia, e che era probabilmente interessata ai cambiamenti che andavano profilandosi grazie alla tecnologia.
Ho riunito le foto e le ho montate assieme, in un video che non ha ovviamente alcuna ambizione artistica, ma si prefigge soltanto lo scopo di raccontare la memoria in un format più accattivante e gradevole, di quanto non avvenga solitamente sul social.
Spero che vi piaccia. Guardatelo, amatelo, condividetelo.
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