Il 30 marzo del 1938, La Stampa pubblicò un reportage di Corrado Alvaro, che raccontava il Gargano come monumento naturale e storico, dal punto di vista delle straordinarie architetture di pietra, dei terrazzamenti, dei pagliai, che ne punteggiano il territorio.
Lo scrittore calabrese, che con Gente in Aspromonte qualche anno prima si era rivelato al grande pubblico, aggiudicandosi un importante premio letterario promosso proprio dal quotidiano torinese, e che due anni dopo avrebbe dato alle stampe Itinerario italiano, viaggio sentimentale tra Marche, Gargano e Abruzzo, scrive da Monte Sant’Angelo, disegna una quadro straordinario del Gargano e del suo popolo.
È singolare come nella titolazione ricorra due volte il termine “gente”, quasi che Arpino voglia sottolineare il legame profondo ed indissolubile che unisce il Gargano ai garganici, che lo scrittore definisce, nel titolo I costruttori del Gargano.
L’occhiello è invece Il focolare della nostra gente, mentre il sommario recita: La gente che ha costruito l’enorme monumento dei bastioni delle sue montagne è fiera gelosa e dura tanto dura che neppure il matrimonio accade senza dramma
Ecco il testo di questo straordinario pezzo di giornalismo e di letteratura. Potete scaricare la versione originale in pdf cliccando qui.
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Vi sono popoli che hanno un talento istintivo e storico per l’architettura. E si capisce per quelli che hanno da celebrare una potenza e da attestare una forza. Ma s’immagina difficilmente un gruppo di pastori e di contadini che porti una preoccupazione architettonica nella sua abitazione, nel suo forno, nel suo rifugio di montagna. Da Manfredonia a Monte S. Angelo, si va prima per un pendio sul mare, di poche case sparse tra i campi di olivi e di mandorli, di olivi e di pini d’Aleppo. La montagna è una pietraia deserta là davanti, e si misura dove e come il vento la tormenta. In una piega del terreno, in una ruga, in una valle, dove il vento non arriva, qualche albero si leva, una macchia verde descrive la sua pace. Ma salendo per la strada bianca, quello che era il deserto appare un bastione di pietrame, e non qui soltanto, ma su tutti i poggi e i monti intorno; alla fine, sull’intero promontorio. Tutto quello che si scorge, dalle valli asciutte alle cime, è.una grandiosa opera di muri a secco che sostengono le terrazze degli olivi, dei mandorli, delle vigne, del grano. Un movimento a spirale avvolge monte dietro monte, i viottoli serpeggianti e le strade tortuose rifanno un movimento concorde; il mare che sembra levarsi inclinato sulla linea dell’orizzonte è rigato allo stesso modo dalle correnti: tutto è sullo stesso disegno, simile all’avvolgersi di certe conchiglie. Sulla cima di qualche poggio sta come un fossile un edificio bianco.
Comignoli monumentali
Si capisce d’essere capitati entro un’opera tra le più ingegnose degli uomini e, come succede, si pensa alla natura di questi uomini. Una tale opera dei campi è stata compiuta in settant’anni, da quando il Gargano finì d’essere un feudo regio, coi suoi boschi profondi dell’interno. Il lavoro parla per gli abitanti. Dev’essere gente ben dura. Come lo scatenarsi d’una girandola, questo vortice diventa più grandioso e più complicato a mano a mano che si risale il monte. Poche volte la fatica umana dà uno sbigottimento simile. Una donna, nell’autobus, con due occhi di fuoco di notte, posa per un attimo lo sguardo su di voi. Non vi guarderà mai più. Tutto qui è molto importante. A un certo punto, l’occhio si abitua a discernere nient’’altro che questa immane pazienza. Qua e là nelle valli, spuntano certi enormi comignoli, e non se ne scorge l’abitazione. Si scorge bensì la porta, incardinata nel masso. La vigna è ancora nuda, i mandorli già verdi con qualche vecchio fiocco fiorito, colore della polvere, gli ulivi alleggeriti sono gracili, e ai loro piedi il grano è d’un colore nuovo; ma non c’è traccia d’uomo se non questi enormi camini della forma di torri, di campanili, di lanterne, di vecchi casolari, bianchi come la pietra, e un filo di fumo annunzia che qualcuno è vivo là sotto, chiuso come un minatore. Tutta la terra attorno è lavorata come una miniera. In fondo alla valle, una borgata è disposta in riga su quattro o cinque file, seguendo il disegno delle terrazze che la sovrastano per la montagna, tinta di bianco come tutta la pietra che si vede. Un lembo di terra miracolosamente in piano, arriva verde di grano proprio fino alla striscia del mare turchino.
Gli stessi comignoli che si sono veduti prima, annunziano la città di Monte Sant’Angelo, prendono forma sopra al ciglio roccioso del monte, figurano come le cuspidi di una lontana città turrita e bianca; si scorgono poi i tetti, le case basse disposte in riga sulla cima, che coprono il monte come un tetto, della stessa forma, e spioventi come le embrici d’un tetto, e, sopra, questi comignoli spropositati, a torrione, a elmo, a turbante; se una città moderna dovesse avere i suoi comignoli delle proporzioni di questi, in rapporto all’altezza degli edifici, si dovrebbe presentare con dei camini della grandezza delle Torri di Bologna o del campanile di Pisa. Questi camini dicono tutto: il vento che tira, il freddo d’inverno, la bisogna del pane. Da una casa esce un tale con un’asse sulla testa, e sopra ci sono due pani di dieci o dodici chili ciascuno, quanto basta a una famiglia di cinque o sei persone, di qui, per due giorni. Non avevo mai veduto un pane di questa posta. ‘A parte la donna dell’autobus, con gli occhi di fuoco di notte, non ho qui veduto altre donne, fuori, se non vecchie. Una scritta all’ingresso della città avverte che qui si tocca il quaranta per mille della natalità, la quota più alta d’Italia, a quanto pare. Ci si accorge subito di trovarsi fra gente dura, fiera e gelosa, quella cioè che ha costruito l’enorme monumento dei bastioni delle sue montagne. Tanto dura, che neppure il matrimonio accade senza dramma.
Sposi per amore e per forza
L’uomo ha spesso bisogno di un atto di forza anche in ciò. Che un contrasto qualunque coi parenti della sua bella si faccia strada, che lo prenda un dubbio sui sentimenti della donna amata, e l’uomo, che fino a quel giorno non è riuscito a parlare alla sua sospirata se non stando sulla soglia della porta, con la madre muta testimone e la fanciulla rifugiata ai piedi del letto, quest’uomo spalleggiato dai suoi compagni si presenta nella casa di lei, in un’ora in cui ella è sola con la madre, e quando i suoi compagni con l’inganno o con la forza hanno condotto fuori la vecchia, egli si chiude la porta alle spalle e diventa signore dell’amata. A ogni denunzia di colpi di questo genere, e dei ratti in campagna, o nel corso d’una festa, i carabinieri sanno che tutto finirà col pranzo di nozze. Spesso, per la povera condizione degli sposi che non possono redigere lunghe note di beni e di oggetti di corredo da far leggere solennemente per bocca del notaio davanti al vicinato, e da far portare alle comari nelle canestre, il ratto è buonissimo rimedio che dispensa da tante malagevoli formalità. Pensano gli amici a preparare una lauta cena ai due fuggiaschi, e un buon letto. La mattina dopo le madri dei due sposi per amore e per forza, vanno a informarsi se tutto sia andato bene. Il letto è molto alto, le assi sono sostenute da due alti trespoli, e per salirvi ci vuole una scaletta o una sedia, anche al prete e al medico quando sarà l’ora. Questi e altri particolari si leggevano in una ricca raccolta che il prof. Giovanni Tancredi sta pubblicando sugli usi del suo Gargano.
La pietra
Quella del ratto è una vecchia usanza illirica. È noto che di là, sull’altra sponda dell’Adriatico, il rituale del matrimonio comporta anche un ratto simulato, a cavallo, prima della celebrazione. Qui è rimasto l’uso nel suo vigore primitivo. Il ratto può capitare anche a una donna sorda al richiamo dell’amante, e che per avventura ami un altro. Tutto finirà ugualmente col matrimonio; ma con quale cuore? E si tratta proprio d’un richiamo d’amore, al modo degli uccelli e delle fiere, un sibilo sordo come dei grilli d’estate, cui la donna, se vuol rispondere, si affaccia dietro i vetri o sulla porta, a cui corre, se è fuori, strisciando lungo il muro fino alla porta di casa sua. E poi i figli, le grandi famiglie che servono per il lavoro della montagna, dove sono di pietra anche gli ammostatoi, dove sono scavate nella roccia le gabbie per i torchi, dove i pani sono grandi come la luna piena. dove il vento è chiamato lucifero, e suscita nei crudi inverni i racconti delle streghe, dove si lavora fino a settant’anni e si campa spesso fino a cento, dove gli uomini ripetono sempre la medesima storia e nascono forti, crescono intraprendenti contadini pastori e artigiani, negati a ogni forma d’industria, ma per quello che sanno fare ricercati in tutto il Tavoliere, con un buon grande pane scuro, e che neppure nell’emigrazione scordano le loro attitudini, rimanendo carpentieri, muratori e imprenditori di lavori stradali di costruzione. Hanno il genio dell’architettura come in altri, non più molti, paesi d’Italia; e davanti alla loro città costruita mirabilmente sullo scrimolo del monte e su due valli, ci si può chiedere se, per avventura, tante preziose qualità non vadano protette, e tante invenzioni preziose d’architettura, non soltanto popolare, non vadano, proposte a modello d’una moderna architettura povera di idee e pretenziosa, come è quella che ci propone stabilimenti balneari e palagi tutti del medesimo stile. Non esiste da noi un documento che metta sotto gli occhi l’arte di costruire una casa come fanno qui, a Ischia, a Positano, e in pochi altri luoghi, e che rappresenta la forma attraverso cui anni ed anni si raccomandano al la considerazione dei posteri. Arte di fare scale, passaggi, portici, di risolvere problemi di pendenza, di prospettive, di variarle infinitamente. Arte di legare gli uomini ai loro luoghi.
È tanta la vocazione di questi di Monte Sant’Angelo, che. essi chiamano pagliai anche certi rifugi di montagna costrutti di pietra a forma di capanna. I loro progenitori del tempo di Adamo, abitavano qui in caverne che si vedono ancora, adattate già mirabilmente ad abitazione. Appena il romanico glorioso fece illustre la Puglia, questi montanari trasportarono sulle loro abitazioni il modello delle facciate di quelle chiese, quadrate e rettangolari, e adattandole, in modo che la più modesta cosuccia ha questo egregio frontespizio. In molti luoghi, è ancora la caverna primitiva sormontata da un comignolo e chiusa da una di queste facciate. Ed è una caverna il famoso santuario di S. Michele Arcangelo che pare sia apparso qui per la prima volta alla adorazione dei fedeli, prendendo il posto di Apollo che qui aveva un tempio. Poiché egli lasciò l’impronta del suo piede nudo, i pellegrini di tutta la regione e delle regioni vicine tracciano sui muri e sulle scale del santuario l’impronta della loro mano e del loro piede, scrivendovi dentro il loro nome. Le impronte di quei piedi e di quelle mani sono come una lunga eco delle sessantamila persone che passano qui ogni anno. Il sagrestano del tempio, sotto la grotta tumida ed enorme che si apre nella chiesa, mi offre una reliquia. Una scheggia del masso. Ancora pietra, la pietra.
Corrado Alvaro
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