Scrive il mio amico Antonio Gelormini, sodale con l’indimenticabile Lillo Altobelli, con Giovanni Aquilino e con chi scrive di tante battaglie per la fruizione dello sterminato patrimonio culturale della Chiesa di Troia:
Un paese “chiuso” in se stesso.Chiuse la maggior parte delle Chiese, chiuse tante porte e portoni, chiuso il Museo del Tesoro, chiuso l’Ufficio Turistico e ora, mi giunge voce, che si pensa di “richiudere” – dopo l’anno giubilare – anche il Crocefisso miracoloso del Frasa nella teca di un tempo, relegando quella “luce viva” (l’unico Cristo in croce ancora supplichevole) nella penombra di una cappella funeraria: il Cappellone dei Santi.Al di là dell’eleganza e della drammatica bellezza, esaltate nell’attuale posizionamento, la “luce” del Supremo Sacrificio è quella che aveva preso il posto di quella di una finestra absidale orientata a Sud e non, come da tradizione, verso Est e Gerusalemme.Si torna a guardare e a rinchiudersi nel passato, anziché sforzarsi di contemplare, d’incamminarsi e varcare con coraggio la soglia dell’orizzonte oltre il campanile.Che tristezza!
Che tristezza, davvero. Di recente, sono stato costretto a stigmatizzare la miopia di quanti non hanno consentito che gli Exultet, che rappresentano il pezzo più pregiato di questo patrimonio, potessero venire fotografati e ripresi, in modo da far parte dei materiali promo-pubblicitari del progetto di eccellenza turistica dei Monti Dauni.
C’è una logica di sottrazione, di occultamento, più che una volontà di fruizione collettiva di una liturgia condivisa, che sono poi la finalità con cui Pietro Frasa ha scolpito e dipinto i suoi Crocefissi e gli straordinari amanuensi medievali hanno vergato e disegnato i loro codici.
Eppure proprio i Crocifissi di Pietro Frasa (che dipinse quello di Troia nel 1709 e quello di Foggia nel 1711) è stato al cento di una clamorosa vicenda storica, conclusasi all’insegna della tolleranza e del rispetto dell’arte.
Qualche anno dopo la morte del grande artista, sepolto nella Cattedrale di Foggia, proprio sotto la sua opera (e morto mentre l’abbracciava, come estremo gesto penitenziale), il suo mentore, mons. Giacomo Emilio Cavalieri fu denunciato da alcuni anonimi al Santo Uffizio (il Tribunale dell’Inquisizione), per l’eccessivo realismo del Crocifisso realizzato da Frasa: “Orrendo, che induce spavento nel vedere quel corpo cosi lacero e difforme ed à quantità di sangue a canali gelato dalle santissime piaghe, che spaventa chiunque lo mira ed il simile è nella città di Troia fatto dal med. Pastore.”
Come scrive su Art Special Day, Simona Manlio, “Mons. Cavalieri, in una interessante relazione, rispose per le rime, adducendo che il Cristo è rappresentato cosi come descritto dal profeta Isaia, che altri Crocifissi (soprattutto a Napoli) erano anche più sfigurati di quello e che la rappresentazione è quella di un corpo agonizzante e morente, che ispira una pietà particolare. “
Il presule troiano difese l’arte. In nome di quell’arte, l’attuale collocazione del Crocifisso andrebbe confermata anche alla conclusione del Giubileo, per le ragioni mirabilmente esposte da Antonio Gelormini.
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