Foggia e le sue Fosse di grano, nel racconto di Yriarte, nel disegno di Janet

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Alla sua apparizione nelle librerie italiane, nel 1883, l’opera odeporica Le Rive dell’Adriatico e il Montenegro del francese Charles Yriarte, rappresentò quasi un caso editoriale. Pubblicato dall’editore milanese Treves, il racconto del viaggio tra le due rive dell’Adriatico conquistò il pubblico italiano, rendendo necessaria una seconda edizione nel 1897.
Tradotta da un anonimo che l’arricchisce però di numerose note, l’opera di Yriarte si segnala anche per le numerose illustrazioni, curate da artisti francesi, sulla base di schizzi realizzati dallo stesso scrittore.
Nell’Italia appena unificata, è tra i primi libri odeporici che riguardino anche il Mezzogiorno. In precedenza, i racconti del Grand Tour si fermavano spesso in quel di Napoli.
In Puglia, lo scrittore francese tocca Foggia, Manfredonia, Brindisi, Lecce e Otranto, raccontando storie interessanti, con una prosa fluida, più attenta alla trama narrativa che non al puro resoconto cronachistico. È un reportage particolarmente vivido ed emozionante.
Lettere Meridiane pubblica, a partire da oggi, la parte pugliese del viaggio lungo le coste adriatiche di Yriarte, facendo omaggio ad amici e lettori dei disegni, ad alta risoluzione, che illustrarono l’opera uscita alla fine dell’Ottocento.
Il disegno, molto bello e dettagliato, ritrae le complesse operazioni di svuotamento di una fossa di grano. Il Piano delle Fosse colpi molto la fantasia del viaggiatore francese. Il disegno è di H.Janet, su schizzo dello stesso Charles Yriarte. Potete scaricarlo ad alta risoluzione cliccando qui. Buona visione e buona lettura.
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FOGGIA
La larghezza delle vie è smisurata, e le case, bassissime, hanno tutte delle terrazze all’italiana. La città un momento prima sfavillava all’estremità della lunga via che parte dalla strada ferrata; i finestroni del teatro, ancora illuminati, brillano nella notte che li circonda. Si direbbe che tutti gli abitanti della città dormono all’aperto; giacché c’inoltriamo tra due interminabili file di dormenti, coricati nei mantelli, sui marciapiedi convertiti in dormitorii. Il tragitto dalla stazione all’albergo è ancora lungo, e in tutte le vie che attraversiamo lo spettacolo è identico. Alcuni rari gruppi di passeggianti, ancora in piedi, si disperdono, per distendersi a loro volta lungo i muri, e ciascuno accomoda il suo letto per la notte sotto la volta stellata. Questi lazzaroni inaspettati, a quanto mi viene spiegato, accampano qui da tre giorni, in numero di oltre duemila; sono contadini degli Abruzzi, venuti per la mietitura. Il nostro treno conduce loro un rinforzo di trecento compagni; per questi arrivi, la città acquistò una vivacità straordinaria. All’alba sono in piedi, e bivaccano sulle piazze; gli affittaiuoli, i fattori, i piccoli proprietari e i grandi possessori di terre vengono qui a fare i contratti e ad accaparrarli per la mietitura. De’ lunghi carri , su cui stanno ritti in piedi, cantando con accento flebile e gutturale, li conducono nel Tavoliere, nome dato a quelle immense pianure, che formano il granaio d’Italia. Da Annibale in poi , hanno nutrito gli eserciti degli invasori; e alimentano ancora tutta la regione meridionale e quella del Nord. Ho potuto esaminare a bell’agio questi mietitori. Magri e sparuti, ma ben formati, hanno la pelle molto abbronzata; moltissimi battono i denti per la febbre, ed hanno una tinta verdognola; tutto il loro bagaglio consiste in un piccolo sacco e in una gran falce logora colla lama sottilissima. Gironzano tutto il giorno per le vie, tristi, senza calore e senza vita, sfiduciati e stanchi nell’aspetto, collo sguardo incerto, come i fellah (1) d’Egitto. Di tanto in tanto alcuni fanno risuonar l’aria di strida e di canti singolari; non possedono nè la vivacità del Napoletano, nè la corporatura de’ contadini della campagna di Roma, ma hanno le giunture sottili e delicate, e alcuni, nervosi e complessi, sono fatti come statue antiche.

Foggia mi pare interessante per ragioni affatto diverse da quelle che raccomandano le città fin qui descritte in questo viaggio. L’arte vi sta in ultima linea; osservo un solo monumento d’un certo interesse, e anche questo si riduce a una rovina, incassata in una casa moderna, e notevole sopratutto per una iscrizione che consacra la presenza degli imperatori di Germania in questa città, già città regia e residenza illustre dell’ imperatore.
La città è nuova, ben disposta, d’accesso molto aperto, d’aspetto spazioso, di circolazione agevolissima, e ha un carattere spiccato e affatto particolare. Nel visitatore rimane l’impressione di quelle case basse, che, composte per la maggior parte del solo pianterreno, contrastano per la breve altezza colla larghezza delle vie. Tutto per altro ha la sua ragion d’essere in fatto di concetti architettonici; Foggia è vittima di convulsioni del suolo che l’hanno spesso rovinata; il terremoto del 1731 ne ha fatto una città del tutto moderna. Inoltre, l’abitudine d’imbiancare tutte le case col latte di calce, dà alla città una fisonomia orientale. Gli edifizii nuovi hanno proporzioni grandiose, e in nessun luogo è misurato lo spazio; tutto indica una città ricca e
prospera. Guardando il cielo, si pensa a Napoli. Ai canti delle vie, dei mercanti di bibite. sorbetti, limonate, bevande fresche e frutta d’ogni natura, accomodati entro costruzioni di legno a trafori, ornate di specchi e bizzarramente decorate, rammentano i trink—hall (2) imitati dai Tedeschi col loro gusto e il loro temperamento, ma i cui esempi più caratteristici in Italia sorgono nella via di Toledo, a Chiaja, e sulla piazza San Carlo di Napoli.
Anche i palazzetti mi paiono notevoli per la loro disposizione; hanno il pianterreno e il primo piano sulla via, e una larghissima porta che dà accesso a un cortile lastricato, formante vestibolo; nel fondo, due scalinate monumentali conducono ai principali appartamenti. Delle vacche o dei cavalli, distesi sulla paglia in questo vestibolo di bella architettura, tra le due branche di scale, conducenti al corpo principale, producono un singolare contrasto. Grande è la differenza tra questa e la regione da cui vengo: qui sono in Oriente; l’Italia meridionale si manifesta col suo cielo, col suo clima, il colore del paesaggio; il caldo è intenso: il mio termometro segna 37 gradi. Lavoro tutt’ il giorno alla biblioteca, ch’è ricca, e dove sono accolto da un bibliotecario di graziosa affabilità e pieno di cortesia; lì almeno respiro, e tutto è chiuso con cura; ma mi è impossibile disegnare all’aria aperta prima del tramontar del sole. Qui non posso avere nessun aiuto dalla fotografia: non esiste neppur una veduta, e per illustrar la città dovrò ricorrere alla mia matita.
 L’albergo è semplicissimo. Tutto mostra che i viaggiatori venuti a Foggia vogliono soltanto un letto per dormire e un cantuccio per ripararsi; hanno a fare di fuori, e girano tutto il giorno. È ben raro che giunga per diporto o per motivo di studio. Noto già l’abitudine di far la siesta (3): tutto si chiude a cominciare da un’ora, e le vie rimangono deserte; le botteghe non si riaprono più sino alla fine della giornata, e per quattro ore è impossibile comperar un francobollo o un sigaro.
 Si vive bene in questa città, e si dimentica la fame che regna a Loreto; conoscendo a fondo i costumi locali, si vivrebbe meglio ancora, giacchè le botteghe sono mirabilmente provviste, sopratutto quelle di commestibili. Le grasse mortadelle, i pasticci appetitosi, i salsiciotti violacei, ornati d’argento, i formaggi di bianchezza rassicurante, le conserve d’ogni natura, le bottiglie col collo intonacato di cera variata, e diligentemente munite d’etichetta, indicano la cura per il benessere della tavola. Alla trattoria della Picella si mangia a buon patto, pulitamente, in sale larghe, comode e ben arredate.
 Per la prima volta, dopo l’Algeria e il Marocco, verifico qui de visu (4) l’abitudine comune a molti abitanti de’ paesi meridionali fertili di grani, di conservarli entro sili (5) , Una porta della città dà sopra una vasta piazza (piano della Croce o piazza delle Fosse), sotto il suolo della quale s’aprono più di mille fosse o pozzi da grano, in forma di tini, coll’apertura a livello del suolo, ricoperta d’un intavolato e d’uno strato di terra. Una volta distesa la. terra sull’ assito, essa si confonde per modo col rimanente della piazza, da stazionarvi le carrozze, e passarvi
sopra cavalli e bestiami; nè sarebbe possibile sospettai l’esistenza della fossa, senza il colonnino portante il numero che la designa.  Ho avuta la fortuna di veder aprire uno di questi sili, e di poter rappresentare la scena dal vero. Il compratore del grano e il venditore stanno al margine dell’apertura, e lì vicino è il carro che trasporterà i sacchi. Gli sfossatori, armati di strumenti opportuni, levano la terra che ricopre le assi poste a chiusura della bocca, e la raccolgono in un mucchio: ciò fatto, tolgono il coperchio, tavola per tavola, e lanciano nella fossa un secchio munito di corda, precisamente come in un pozzo. Un misuratore giurato, rannicchiato sull’orlo, versa il contenuto del secchio in una misura, chiamata tomolo; e compratore e venditore, muniti ciascuno d’una specie di rosario a grani spazieggiati, simile alla pazienza degli Arabi, contano un grano per ogni tomolo. I venditori sono veri signori, generalmente accompagnati da un uomo di fiducia o da un agente. Consegnata la quantità voluta, ricoprono la buca, vi stendono sopra e calpestano la terra, e, senza il colonnino, chi non conoscesse
l’uso, non distinguerebbe certamente il luogo.
 Sotto questa piazza, come ho detto, ci sono non meno di mille fosse da grani, ma nel disegno le lievi sporgenze de’ colonnini riescono quasi invisibili. La fossa più grande contiene tremila tomoli; la più piccola, intorno a duecento. La profondità della più grande misura trentatrè palmi italiani, e la più piccola non più di dodici. Tutte mirabilmente rivestite di cemento nell’interno, conservano ottimamente il grano. La piazza è così il deposito della ricchezza pubblica. Questa singolare istituzione riposa assolutamente sulla fede di tutti, e la sua sicurezza
risulta dall’interesse di ciascuno a conservarla.  L’uso fu regolato il 19 marzo 1725. In certe parti dell’Oriente il costume è generale; io lo riscontrai nel Marocco, ed è noto ch’è comune anche in Algeria.
 A Foggia, dietro un accordo tra i massari di Campo, che arano e raccolgono, e i negozianti della città, che comperano i loro grani, si è costituita una corporazione speciale, che gode di grande considerazione. Ci sono due compagnie di sfossatori: quella di San Rocco e quella di San Stefano. Ciascuna compagnia è governata da due caporali, due sottocaporali, e uno scrivano. Ventiquattro misuratori vengono delegati a riconoscere la quantità sotterrata e. quella che si estrae. I negozianti interessati nominano ogni anno tre deputati commissari, e da tutti i punti del territorio portano in questi sili la ricchezza pubblica de’ grani. Le fosse sono proprietà private; i possessori di cereali le fanno costruire per proprio conto, o le prendono in affitto.
Questa piazza, chiamata, come dicemmo, Piazza delle Fosse, o Piano della Croce, piglia il primo nome dai sili, o fosse;. il secondo deriva dalla croce a sinistra dello schizzo. A questa croce è associata una leggenda. Fu piantata da un figlio, il quale avrebbe ritrovato suo padre precisamente in quel posto, dopo esser stato diviso da lui per oltre quattro lustri, essendo tutt’e due arruolati nelle crociate di Terra Santa. Separati per tanti anni dalle vicissitudini del tempo, la gioia del vecchio sarebbe stata così forte da ucciderlo sul luogo.
(1) Contadino o agricoltore del Medio Oriente.
(2) Suoni.
(3) Breve sonnellino fatto nel primo pomeriggio, spesso dopo pranzo. Tale periodo di sonno è una tradizione comune in alcuni paesi, in particolare quelli in cui il clima è caldo.
(4) Con i propri occhi.
(5) Un silo è una costruzione che si estende verticalmente, in pratica una torre cilindrica, destinata a essere usata come deposito per merci e prodotti sciolti che hanno forma o consistenza di polvere, come ad esempio i cereali. Sono anche pozzi interrati usati per contenere la rampa di lancio di un missile a lungo o medio raggio, la cui apertura è nascosta dal terreno circostante.

(1. continua)

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Author: Geppe Inserra

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