Da Peschici, una struggente storia di solidarietà, integrazione e tolleranza

Raramente mi è capitato di leggere una storia così bella, struggente ed attuale quanto quella che Giuseppe Libetta racconta, in versi, a proposito dell’origine del Santuario della Madonna di Loreto, che sorge ad un paio di chilometri dall’abitato di Peschici, in una posizione strategica, a moì di sintenella del promontorio sull’Adriatico.
Il peschierano Libetta è un personaggio singolare. A Roma gli hanno dedicato una strada centralissima, ma è praticamente sconosciuto in terra di Capitanata. La sua fama è legata al fatto che, primo alfiere di vascello della Real Marina borbonica, ebbe il comando del primo battello a vapore mai costruito, il Ferdinando I, guidandolo nel suo viaggio inaugurale, da Napoli a Marsiglia.
Libetta non fu soltanto un valente marinaio, ma anche un apprezzato scrittore e poeta, oltre che un politico di spessore: antiborbonico e liberale, fece parte del primo Parlamento Sabaudo.
Quella che Libetta racconta a proposito del Santuario della Madonna di Loreto è una storia di mare, ma anche una storia di accoglienza, di solidarietà, di incontro tra culture diverse e di conversione. Secondo la tradizione, il Santuario sarebbe stato costruito da  marinai per ringraziare la Vergine Maria di averli tratti in salvo da una violenta tempesta.
La storia narrata da Libetta è diversa, intrigante, toccante e venne pubblicata nel 1844, su Poliorama Pittoresco “opera periodica diretta a spandere in tutte le classi della società utili conoscenze di ogni genere e a rendere gradevoli e proficue le letture in famiglia.” Stampato a Napoli dagli editori Pergola e Cirelli, il periodico pubblicava storie, saggi, poesia e poemi accompagnati da splendide illustrazioni litografiche.
Secondo la versione di Libetta, il tempio in onore della Madonna di Loreto sarebbe sorto ad opera di un musulmano convertitosi al cristianesimo. Come oggi succede a migliaia di persone che cercano di raggiungere l’Occidente per sfuggire alla guerra e alla violenza nella loro terra, l’uomo si era imbarcato assieme a sua moglie e al figlio, per sfuggire all’ “ira di Solimano”.
Giunti vicino al Gargano, una violenta tempesta aveva provocato il naufragio dell’imbarcazione. A prestare soccorso si era precipitato un pio eremita che viveva lì vicino. Il santo frate non aveva però potuto che assistere alla morte del bambino e della donna, scoprendo non senza meraviglia che questa parlava bene l’italiano e accogliendo la sua conversione al momento del trapasso.
L’eremita aveva quindi prestato soccorso all’uomo, riuscendo a strapparlo alla morte. Convertitosi e tornato in salute, il musulmano aveva venduto tutti i suoi beni, devolvendo il ricavato alla costruzione del tempio.
Il poemetto di Libetta è illustrato su Poliorama Pittoresco da una splendida litografia che mostra il Santuario della Madonna di Loreto, realizzata da S.Puglia. Potete leggere di seguito i versi di Giuseppe Libetta, mentre potete scaricare la litografia in alta risoluzione, cliccando qui.

IL SANTUARIO DI PESCHICI NEL GARGANO

TRADIZIONE POPOLARE

Alla Signora…

Vedi, o gentile, del monte in vetta
Quella modesta bianca chiesetta,
Che mentre in parte tra folti pini
L’umil suo muro celando va ,
Donna di approcci colli vicini
Dell’onda Adriaca speccbio si fa.

Nei dì ridenti di primavera
Quivi le vergini a schiera a schiera
A festeggiar devote e pie
L’augusta Madre che ha regno in Ciel ,
Vengon cantando le Letanie
Cooperante il capo di bianco vel.

Più lento il piede protraggono poi
Le austere madri, che “Ora per noi”
Seguono a coro mormoreggiando
Mentre adocchiando tenere van
Il vispo bimbo che trastullando
Si va coi fiori per verde pian.

Giunte del monte sulla pendice
Per agli anni stanca la genitrice
sull’erba assisa, con scarna nanna
Alla figliuola mostrando va
La rozza tomba del musulmano
Che di quel tempo conta l’età.

Sul sasso volge nera pupilla
La giovinetta limpida stilla
Non avvertita scende dagli occhi
Le fresche guance a inumidir,
E dalla madre presso ai ginocchi
sta le dolenti note ad udir.

— Son trent’anni che un Musulmano.
L’ira fuggendo di Solimano
Vago del pingue suo censo avito,
Coi suoi tesori salvar pensò
La sposa, il figlio, fuggendo il lito
Dove il materno petto succhiò.

Dalla natale terra crudele
Di frágil nave spiega le vele,
Pria che sorgesse dal mar l’aurora.
Di Noto al caldo soffio leggier;
Verso l’occaso drizza la prora
L’ardito, esperto, fido nocchier

Il fuggitivo lieto solcando
Placida l’onda, venia pensando
Come in Ancona fermar sua stanza;
e cogli oggetti cari al suo cor
Schivar, cangiando fogge e sembianze,
L’avaro genio del suo Signor.

Alla dolente sposa conforto
Dava mostrando vicino il porto.
Il figlio in braccio poi si recava,
Che con sorriso dolce infantil
La folta barba gli carezzava
Con quella breve mano gentil.

Ahi! come spesso riescon vane
La lusinghiere speranze umane!
Il sesto giorno vicino a sera
Ver Borea il vento tosto girò,
E minacciosa densa bufera
L’etra di nere nubi ammantò.

E d’abbagliante luce un torrente
Par che le sfere squarci stridente;
In grandiosa pioggia disciolto
Pare che il cielo si unisca al mar;
Par che il mugghiante flutto sconvolto
Faccia i garganici massi tremar.

Sempre ostinata la ria procella
Tre dì l’afflitta nave flagella
Che senza vele, le antenne rotte,
Priva di temo pel mar vagò,

E nel più fitto di oscura notte
In cieco scoglio col fianco urtò.
Resta il nocchiero pallido e muto
Ora che il legno vede perduto.
In core impetra dal cielo aita,
Che più nell’arte speme non ha…
Nella nave sdrucita
L’onda per tutto varco si fa.

Il Saraceno, traendo stretta
Al destro fianco la sua diletta
Che sulle braccia reggeva il figlio,
Da amor sospinto, senza indugiar,
A un luogo remo dato di piglio
Con quello ardito si affida al mar.

Tutto coperto d’onde spumanti
E combattuto dai galleggianti
Sparsi rottami, con fiera morte
Per quei marosi lottando andò;
Ma il dolce peso della consorte
Dal destro braccio mai distaccò.

Fu alfin dal flutti sospinto a riva:
L’amata donna par semiviva:
Del meschin pargolo intirizzito
Palpita appena l’angusto cor;
Egli contuso, stanco, sfinito,
Grondante emerse dall’onde fuor.

Qui dove or vedi quel Santuario
Viveva allora da Solitario
Un santo frate, cui breve oscuro
Speco, che a caso se gli scopri,
Teneva vece di un abituro
Dove in preghiere passava i dì.

Quivi un’immagine aver recata
Della Santissima Incoronata,
E innanzi a quella la notte e ‘l giorno
Pendente accesa lampada sta,
Cui dei villani di quel contorno
Dava alimento la carità.

Sostava il frate dal salmeggiare
Stanco dal greve lungo vegliare,
E il fido alano fuor dallo speco
Oltre l’usato latrare udì
Forse viandante per l’aere cieco,
Disse, nel bosco dal Calle uscì
Un lume in cavo racchiuso vetro
Pone, e la grotta si lascia indietro:
Girò lo sguardo per piante e duni,
Poi lo rivolge sul truce mar.
Nero un oggetto tra quei biancori
Fosforeggianti dai flutti appare.

Essere il frate quello un naviglio
Vide, all’estremo giunto periglio ,
E di cristiana pietade acceso
In pugno scabro baston serrò,
E pel più breve calle scosceso
Tra bronchi al mare s‘ incamminò.

Sceso alla spiaggia, gli sparsi avanzi
Del lego infranto si vide innanzi.
Candido gruppo par che discerna
Tra i bruni involti che il lido han pien;
S’appressa, e al chiaro della lanterna
Vide… ed il core mancagli in sen.

Vide giacente donna che al petto
Stringeva tenero un pargoletto.
E un uom che steso le giace allato;
Sebben fuori di vita appar,
Sembra volergli col proprio fiato
Le intirizzite membra scaldar.

Alle mai viste fogge un sospiro
Tramando il frate e “oh Ciel! che miro
Questi meschini son infedeli”
Disse di pietà commosso il con;
Ed “oh potessi dalle crudeli
Fauci sottrarli del Tentator!”

Corre al vicino gonfio ruscello,
V’immerge il bianco largo cappello,
Riede, e invocando l’ Unico e Trino
Nome, dal primo fallò lavò
l’anima schietta di quel bambino
Che il volo al cielo lieta spiegò.

Al volto quindi della tapina
Il risplendente vetro avvicina:
Del lume al raggio si scosse a un tratto
Quella languente, le luci aprì,
E fissa il frate, che stupefatto
Tosca favella parlar le udì.

E, santo Padre, con fievol voce,
Pel Signor vostro che è morto in croce,
Disse, vi caglia della mia vita:
A questa frale salma non già,
Solo allo spirto porgete aita
Che il pio lavacro salvar potrà.

E le smarrite forze accogliendo
Stentatamente venia dicendo
Come di Cristo la legge apprese
Da vecchia schiava che l’allevò;
Ma venir meno la voce intese,
Tacque, ed il lume se le offuscò.

Il frate allora d’onde levava
A lei le colpe che boccheggiava,
Ed un Rosario tratto dal petto
Alla morente in man lo diè,
Ne tosto l’ebbe lo donna stretto
Che più nel volte bella si fe’.

Non esser l’altro di vita in forse
Al palpitare del cor s‘ accorse
L’Anacoreta. Sulle pietose
Braccia recato , colà il posò
Dove l’arena delle spumose
Onde agli abbracci si rifiutò,

Fattosi a piedi delle colline
Strappò ad un pino l’adusto crine,
Ed al derelitto trattolo accanto
D0aride legna mucchio unì;
Acceso un fuoco, del rozzo manto
l’umide membra gli ricoprì.

L’alba spuntava del nuovo giorno
E lo svenuto fe’ in sé ritorno,
Gli arti protende, le luci gira
Anime chiama la sua fedel…
Sul molle lido spenta la mira
Presso al figliolo, rivolta al ciel

Colà correva quel disperato,
Ma l‘ Eremita si vede allato.
Di quell’aspetto la riverenza
nel con gli affetti gli soffocò;
nel duol ritegno fe’ alla licenza
Sul labbro l’empie note arrestò.

Il frate muto la mano alzando
gli addita il cielo: del miserando
Col destro braccio l’omero cinto
Del petto al capo sostegno fe’.
Quei dalla amiche ritorte avvinto
Al duolo il varco libero diè.

Quando s’avvide che il lungo pianto
L’acerba pena molceva alquanto,
Per l’erta costa donde si sale
Al monte, il santo frate il guidò,
E nel tugurio con un frugale
Pasto a con fuoco lo ristorò.

Il dì vegnente d‘acqua lustrali
Furono apersi gli estinti frali.
Dietro lo speco solo una fossa
La madre al figlio per sempre unì:
Colà in ginocchio sopra la smossa
Terra lo sposo pianse tre dì.

Ma quel pietoso Santo Eremita
A lui parlava di eterna visa,
E di fraterna pietà munito
Calma a quel cure trafitto diè.
Quegli nei dogmi sacri istruito
Di Cristo abbraccia la vera fè.

Gli oggetti al lido dal mar venuti
Dal battezzato furon venduti.
Di questo tempio le sacre mura
Sopra la istessa grotta fondò,
E intento all’’opra con somma cura
Spesso la propria mano adoprò.

Dal capo il folto crine rimosso
Iva accattando col sacco indosso
Per sostentare l’austera vita
Stanco movendo lo scalzo piè
E a somiglianza dell’Eremita
Di bigio vello manto si fe’.

Due lustri scorsero, e una mattina
Alla cortese terra vicina,
Che il pio redento da tanti affetti,
Questo sonoro bronzo annunziò,
Alfin consunto coi suoi diletti
In una tomba si riposò.

Così narrando la madre annosa
Terge le guance con la rugosa
Palma ed in piedi sorgendo poi
Pace agli estinti pregando va;
Mentre commossa dai detti suoi
La giovinetta piangendo sta…

Ma che! tu pure per queste note
Di calde stille bagni le gote?
Versi, gentile, pianto e sospiri
Sull’indomabile tempo che fu?
Ahi! che dovunque lo sguardo giri
E lutto e morte trovi quaggiù!

GIUSEPPE LIBETTA

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Author: Geppe Inserra

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