Grazie all’amico Michele Santoro, intellettuale e cultore di poesia, promotore e animatore del gruppo social Facebook poetico, per aver voluto ospitare nella sezione Nuovi autori del suo ben gruppo la lirica Avrei voluto amarti, pubblicata qualche giorno fa da Lettere Meridiane, che tanti consensi ha incontrato tra amici e lettori del blog.
L’occasione è propizia anche per rivelare il nome dell’autore: si tratta di Maurizio De Tullio, che gli amici di Lettere Meridiane conoscono assai bene, per i suoi interventi, spesso critici, nei confronti della foggianità (o più precisamente di un certo modo di essere e di vivere dei foggiani), ma anche per la pazienza e la meticolosa alacrità con cui si dedica a custodire la memoria di tantissimi foggiani e dauni.
L’apparente contraddizione insita in questi due aspetti della scrittura di De Tullio trova una significativa chiave di lettura proprio nella poesia Avrei voluto amarti, che più che un non amore o un sentimento ostile, racconta di un amore deluso e disilluso che però – come tutti gli amori – resta sullo sfondo, fuoco che arde sotto la cenere.
Lo sottolinea con efficace sintesi nel suo commento, postato sulla pagina fb di Lettere Meridiane, Annamaria Tiritiello: “O poeta puoi amarla o odiarla, ma la tua città prima o poi viene a riprenderti… E probabilmente lo ha già fatto…” Dello stesso tenore le poetiche riflessioni di Enzo de Stefano: “Le città portano le stigmate del passare del tempo, occasionalmente le promesse delle epoche future. Consentono di vedere senza essere visti e di essere visti senza vedere.”
Per Donata Glori, “la poesia è ok, si sente il dolore, risponde ad un moto dell’anima e può dire quello che vuole in attesa di echi di risposta, la mia è che forse bisogna anche imparare a guardare quello che c’è, le relazioni tra le tante persone che da sempre sono sensibili, se non addirittura si impegnano, per rendere un po’ più civile questa nostra amata disperata città.”
Molti i lettori che colgono gli stimoli offerti dalla poesia per riflettere sulla città e sul rapporto, non sempre facile, che con essa hanno i cittadini.
Raffaele Luigi d’Amato indica nella tragica estate del 1943 la causa del declino di Foggia: “La guerra, questa è stata la più tragica delle fatalità che Foggia ha subito; è da allora che stenta a riprendersi, ancora oggi vi è sciacallaggio di ogni tipo: io personalmente, nel mio piccolo, la proteggerò.”
Il tema della città dolente è piuttosto diffuso nei commenti. “Io vedo Foggia come una città sempre pronta a farsi amare proprio per le sofferenze che ha patito – scrive Mary Jo Curci – …forse non tutti i cittadini hanno la capacità di amarla e di capirla.”
Angelo Sorace esprime uno stato d’animo comune: “A volte mi sento un figliastro, eppure sono figlio.”
Paky Morlino non è foggiana, ma risiede nel capoluogo dauno e la sua riflessione offre un quadro amaramente veritiero del rapporto tra la città e quelli che l’abitano: “Una città che non mi appartiene e che è dovuta diventare mia. Una città in cui i foggiani, quelli di spessore, prendono volutamente le distanze dal suo non essere civile, mentre i loro cagnolini rigano e decorano i marciapiedi delle strade. Una città che potrebbe essere bella se ci fosse senso di appartenenza e rispetto. La città siamo noi, non sono gli altri… Ogni volta che ci arrendiamo, la consegnamo nelle mani dell’indifferenza.”
Nel post in cui ho pubblicato la poesia non aveva rivelato il nome dell’autore, invitando i lettori a scoprire chi fosse. Ecco amici che ci hanno preso: Tommaso Palermo, Angelo Renzulli e Salvatore Speranza.
La foto che illustra il post è di Daniele Marlenek
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