Vincenzo Bambacigno è stato per me un Maestro, un padre, una guida. È stato lui a farmi amare, conoscere e a legarmi indissolubilmente a Troia. Ho amato profondamente la sua scrittura, le sue parole, che molti anni fa ho avuto la fortuna e il piacere di interpretare.
Il mio primo rapporto in assoluto con la meravigliosa cittadina del rosone risale ai primi anni Settanta quando interpretai Riccardo Fiamma nel dramma Cinque serpi in cambio di un impero di Vincenzo Bambacigno, messo in scena dalla Comunità Nuovo Teatro al Cinema Diana, per la regia di Edgardo Longo.
Bastò la prima battuta – e l’istantanea reazione del pubblico – a rivelarmi l’anima profonda e particolare, disincantata e dissacrante dei troiani.
Riccardo Fiamma era un umile ciabattino, marito di Lucinda Del Gaudio, l’eroina del dramma. Era questo personaggio ad aprire la messinscena: si presentava in scena offrendo i propri servigi in strada, in dialetto troiano: “U cconza scarpe, u cconza scarpe… Chi ten scarpe d’accunzà?!”
Avevo scrupolosamente provato e riprovato quella battuta direttamente con Vincenzo Bambacigno, che mi aveva spiegato come si dovesse pronunciare la “a” finale chiusa.
Non avevo mai recitato in dialetto, figurarsi poi in un dialetto non mio, come quello troiano.
Quando si aprì il sipario confesso che mi prese una certa emozione per quella battuta dialettale. Comunque, entrai in scena e la pronunciai, così come mi aveva spiegato Bambacigno: “U cconza scarpe, u cconza scarpe… Chi ten scarpe d’accunzà?!”
La risposta del pubblico non si fece attendere: “Je tenesse na mezza sol…” e via risate generali. La cosa non mi turbò: anzi quella battuta mi dette coraggio perché voleva dire che gli spettatori avevano capito il mio dialetto.
Ineffabili troiani, magnifici stupendi figli di Troia… Con loro, fu amore a prima vista, grazie a Vincenzo Bambacigno e quelle scarpe d’accunzà…
Iniziò da quella sera di quarant’anni fa, un rapporto con Troia e i troiani che dura ancora oggi.
Per queste ed altre ragioni non ho dimenticato Vincenzo Bambacigno e continuo ad essergli grato per tutto ciò che mi ha insegnato: in primis l’amore per il passato, per le radici, per la tradizione. Stamattina suo figlio Franco, cui sono legato da profondi rapporti di amicizia, ha pubblicato sul suo profilo facebook una bellissima pagina scritta da suo padre, che ne esprime la rilevante capacità letteraria, ma anche la statura culturale e morale.
Mi piace condividerla con gli amici e i lettori di Lettere Meridiane.
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Ogni volta che vengo in questa masseria signorile di Fontanelle, rivedo tutto come quand’ero ragazzo: d’inverno i trappetari inzuppati di olio fresco e profumato agli ordini di “Vicènz u bisch” che si muovevano a ritmo sempre uguale, per spremere i fiscoli con frantoi di legno, girando torno torno come muli o asini bendati; sento odor di “cavidello” sulla brace girato di tanto in tanto dagli stessi trappetari, i quali si divertivano alle nostre spalle, dicendo che non avrebbero avuto olio da spalmare sul pane abbrustolito e il proprietario ” don Ang’l u S’n’ chicchj” salutare con un grugnito confuso ed indistinto. Ma chi ricordo più di tutti e lo rivedo è ” cumb Adonj u mar’nès” (compare Antonio il marinese): il nostro Omero grande e maestoso, coi baffoni spioventi, gli occhi vivacissimi e profondi, orecchi a sventola enormi ed una voce che incantava.
Celeberrimo potatore di Capurso, veniva chiamato al tempo della potatura da don Angelo due volte all’anno, perchè gli curasse le dodici versure di oliveto. Egli veniva accompagnato, puntualmente, dai due figli ” cumba Cicc e cumba V’tucc”, sempre nervosi e recalcitranti e dal genero ” Michele Cinquepalmi”.
Di giorno lavorava a Fontanelle, insieme con molti uomini di Troia, tutti suoi alunni e di sera veniva a mangiare a casa mia. E lì, dopo il pranzo, noi tre fratelli pendevamo letteralmente dalle sue labbra, fino a quando non crollavamo con le teste sulla tavola, sognando Sandokan, l’Isola del tesoro, il Conte di Montecristo, i Miserabili con Cosetta, Dernadier e Jean Valjian e i quattro cani dagli occhi grandi come piatti: Leone, Fralleone, Passalacqua e Servapadrone che ne facevano di tutti i colori. E che delizie ci portava “d’abbasc a marin”: fichi secchi alla vaniglia, schiacciati, neri, profumatissimi, carichi di foglie di alloro e semi di finocchio, ripieni di mandorle abbrustolite al forno; cavallini di pasta di scamorze o di caciocavallo in tutte le posizioni: giocattoli di cartapesta, piume colorate dai santuari, palle di vetro piene d’acqua che, capovolte, diventavano paesaggi imbiancati dalla neve.
Da lui apprendemmo l’amore per la lettura, le prime parole in dialetto barese, il rispetto delle piante e, soprattutto, la potatura delle parole e degli scritti: un’arte molto rara per quei tempi tronfi e pettoruti. A sentir lui, bisognava rispettare e venerare le piante, perchè ispiratrici di sentimenti nobili e gentili. Qui ho visto usare per la prima volta, decine e decine di anni fa, la penicillina ancor prima che la scoprissero gli americani: i potatori si tagliavano spesso con le loro accette affilate come rasoi o con le forbici da potatura o coi coltelli da innesti o coi rami recisi di netto; quando ciò avveniva, il ferito o un compagno di lavoro, tagliava una canna, ne estraeva ” i papp’l” (cioè i veli bianchi e rotondi di muffa che si formavano al di sopra e al di sotto dei nodi interni della canna stessa), li allineava con cura sui bordi della ferita, li ricopriva di foglie di ulive raschiate appena con la punta di coltello e legava tutto con il fazzoletto da naso o ” maccaturo colorato”: Dopo pochi giorni e senza che il potatore smettesse di lavorare, la ferita era guarita perfettamente, senza pericoli di infezioni.
Vincenzo Bambacigno
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