Il reportage di Anna Maria Ortese sul Gargano (pubblicato
nel 1951 dal settimanale progressista Noi
Donne), rappresenta per intensità e forza espressiva uno straordinario
esempio di letteratura e di giornalismo, e tra le cose più belle che siano mai
state scritte sulla Montagna del Sole.
Peschici. Nella prima parte, Anna Maria Ortese raccontava invece Rodi Garganico
(chi non l’avesse letta, può farlo cliccando qui). Qui invece, il post di
presentazione del reportage: Anna Maria Ortese sul Gargano: grandi pagine dimenticate.
Buona lettura
Peschici sotto il sole. Questa volta entriamo diritti in paese, abbagliati da
una luce ardente, che accorcia o elimina ogni ombra. Non c’è che bianco e
azzurro. Sembra una favola. La macchina rimane in bilico tra una strada e un
marciapiede che si rassomiglia tanto da confondersi, circondata dai soliti
cacciatori di lampadine, e noi ne usciamo storditi, ma ansiosi di conoscere
finalmente Peschici.
uno dei posti più squisiti del mondo. Forse era il punto più alto della collina.
Alla nostra sinistra, non era che un ricamo bianco, con appena qualche nota di
azzurro e di rosso, data dai fiori e dall’erba, trama nivea di case, terrazze,
scalette, balconi. In fondo a tutto questo, il cobalto assoluto del mare. Donne
e bambine uscivano ogni tanto dalle case, vestite di nero¸ e raramente di chiaro,
come sembra usi in tutta la Puglia, portando sul capo, con una cura paziente,
grandi latte di benzina, e si dirigevano verso un pozzo bianchissimo, situato
dove la stradetta terminava contro la grande luce del mare.
Tutta Peschici , ci dissero qua e là, era piena di questi
pozzi. Solo dieci case erano provvedute di un elementare servizio igienico, e
in quanto alle fontane, non davano acqua che per qualche ora. Ce lo dissero
quelli che stavano seduti sulle porte, uomini e donne, con un sorriso curioso dove
la vergogna era diventata divertimento, e l’ira un sorriso e una sassata. Io
non vedevo la Puglia da moltissimi anni, e ora mi andavo lentamente ricordando
ch’era stata sempre così, un’esistenza sprovveduta e feroce, un sol tremendo e
una terra dimenticata, dove il livello di vita nelle campagne era poco più su
di quello animale.
suo Governo, le Ambasciate, i miliardi profusi come le lampade elettriche, e
qui cadeva ancora l’ombra delle caverne.
Cattoliche, e ora, insieme a suo marito, l’x maresciallo dei carabinieri,
Vincenzo Massa, proprietaria della locanda dove ci fermammo a mangiare, non
dava però molta importanza a tutto questo. Andando e venendo dalla cucina,
invasa dal fumo della legna, ci parlò invece delle altre benemerenze di
Peschici: tre chiese, di cui una in campagna, un asilo retto dalle suore,
alcuni locali scolastici per le elementari, un piccolo presidio con un
brigadiere e due carabinieri, un regolare servizio di finanza, con due o tre
appuntati e qualche guardia, un ambulatorio per gli incidenti minimi, mentre
per un pronto soccorso più serio bisognava recarsi a Foggia o a San Severo. Ci
parlò soprattutto, quasi religiosamente, dei quattro o cinque grandi
proprietari di terre di Peschici: Della Torre, Martucci, Vigilante, Martella. A
ciascuno di questi nomi la voce le si addolciva, gli occhi mandavano reverenti
lampi.
ferma, in uno splendore caldo e un po’ triste, che dà sangue alle rocce e al
cielo, ed è il momento preciso che comincia a mancare. Erano le cinque del pomeriggio,
e lasciata la macchina al bordo della strada, camminavamo con gli occhi alle
porticine oscure delle grotte. Il chiarore del tramonto doveva entrare là
dentro, attraverso l’esile trama delle tende, assai bello, come una luce di speranza
e insieme di morte. Molti ragazzi ci seguivano, come sempre, viluppo di granchi
e di uccelli. Erano neri, vivissimi, e fra tutti spiccava la testa stranamente aggressiva,
rapata, di Maria di Mele. Sotto la strada, si stendeva quieto, senza una sola
cresta, il mare. Là in fondo, molto lontano, c’erano le Isole Tremiti, con la
loro colonia di coatti.
in quella gran pace, la voce metallica e dura di Maria di Mele. Essa era poco
più grande di un gatto, ma intere generazioni di purati fremevano in lei.
Ripeteva il suo grido ogni cinque secondi, con uno scatto dove trapelava sempre
più viva la meraviglia e l’ira di non essere obbedita. Non le bastavano le
lampadine, né aveva già ottenute due o tre, lanciandosi sui compagni e
strappandole loro a colpi di unghia, voleva la fotografia; nei suoi occhi
nerissimi e lucidi di volatile, apparivano il vigore e il tremito di un coltello:
“Bellu giovane, fammi la fotografia!”. Il mio compagno di viaggio non le dava
retta, andava invece guardando su, alle porte che si aprivano nella roccia.
braccio, e subito, spaventata, si ritrasse: non così in fretta che il sole che
si spegneva di fronte, nel mare, non le mettesse un baleno sui denti.
titubanza, Carbonelli Mattea moglie di un bracciante, acconsentì a farci
entrare. Era una donna giovane, un po’ sciupata con un sorriso sincero. Alzò
appena una mano, come a dire “tutto qui”, e lasciò che guardassimo. C’era la
miseria, in quell’antro, ma tutto era in ordine, quieto, pulito: il letto sotto
la bassa volta di roccia, per gli sposi
e i due bambini, il tavolo con i ritratti, i cestini e gli utensili di cucina
attaccati in giro, i fasci di legna, gli abiti e la roba da rammendare accantonata
in un angolo. La voce della donna, quando parlò, era incerta come il sorriso.
Non si lamentò del suo alloggio. Disse soltanto di sperarne, in seguito, un
altro, “di vera pietra, più grande.” Questo misurava forse tre metri, era
stretto e umido. “E come lo paghereste?”, io dissi. Essa si confuse. Ammise che
suo marito guadagnava quattrocento lire al giorno, solo per tre mesi l’anno. “Siamo
ignoranti”, disse ancora più sommessamente, guardandosi intorno. E ancora una
volta mi colpì, della grotta, la luce che veniva dal mare dove emergono le
Tremiti: torbida luce mista di speranza e di putredine.
voce di Maria di Mele, che implorava e comandava una fotografia. Fosse l’ora, o
le cose che avevamo viste, cominciava a farci paura quell’esserino. Lasciando
la moglie del Carbonelli, e mentre ridiscendevamo pensierosi la scaletta pregai
il fotografo di accontentarla. Essa cominciò a saltargli intorno, con l’inquietudine
di un lupo, allarmata e orgogliosa insieme. Per calmarla, mentre il fotografo andava
innestando una lampadina, le chiesi di ripetermi il suo nome e il suo cognome,
e mi accinsi a scriverlo in un taccuino.
Non ho mai visto un cambiamento più repentino e
straordinario in una fisionomia. Da adulto e cattivo, quel viso si rifece
infantile, tenero, i lineamenti si distesero: gli occhi piccoli e grandi si
allargarono e risero. Una rande, meravigliosa risata di gioia. Poi, guardando i
compagni, guardando le rocce e la gente ch’era affacciata alle rocce, e guardando
l’aria e il mare, e come bevendo e godendo improvvisamente di tutto, cominciò a
gridare: “Mi ha scritta e mi basta, mi ha scritta e mi basta, mi ha scritta e
mi basta!”.
già corsa via. La ritrovammo più tardi nella macchina seduta accanto alla
guida, con gli occhietti buoni, ma fieri e felici come quelli di una signora;
con una mano faceva dietro i vetri, ai compagni che la guardavano estatici , vaghi
segni di saluto. Fu forza farla scendere a terra. Ma non ci odiava più, pensava.
L’avevamo scritta, legata a qualche cosa, a qualcuno: oltre tutto quel mare,
oltre le isole dei coatti, oltre i boschi e le pietraie di quella terra,
qualcuno aveva chiamato il suo nome, a
cui la sua infanzia era cara, le aveva fatto intravedere l’approdo a una
civiltà, un giorno, una vita.
[Le foto che illustrano il post sono tratte da Il Gargano di Antonio Beltramelli. Le foto del panorama di Peschici e della processione sono di Michele Vocino. La foto degli scogli è di Antonio Beltramelli.]
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