Nella definizione di Wikipedia, l’accidia è l’avversione all’operare, mista a noia e indifferenza. In quanto vizio capitale, per i cristiani è qualcosa di più: un indebolimento della fede, un torpore spirituale, che finisce coll’avvelenare la stessa vita quotidiana.
Pur essendo a Foggia soltanto da pochi mesi, l’arcivescovo Vincenzo Pelvi dimostra di essere già riuscito a prendere le misure alla città, a comprenderne i problemi e, da buon pastore, a cercare di indicare la strada a una comunità sempre più smarrita.
Nel messaggio rivolto alla cittadinanza in occasione della recente festa del Corpus Domini, l’arcivescovo individua proprio nell’accidia il virus più insidioso che infetta la città, minando le relazioni tra le persone, e rende la comunità incapace di scegliere tra buono e cattivo, tra bello e brutto. Mons. Pelvi non nomina mai né la politica, né la classe dirigente ma il fil rouge che attraversa tutta la sua riflessione è proprio l’assenza di scale di valori, di posizioni etiche condivise, il bilanciamento di posizioni per comodità o insipienza. Tutto questo porta al disimpegno di massa, che può essere arginato attraverso la fede, rilanciando il rapporto tra città ed Eucaristia. Il cammino e la prospettiva che mons. Pelvi indica ai cristiani di Foggia è difficile, ma scaturisce da una riflessioni profonda, che ha ben soppesato la gravità dei problemi in cui la città si dibatte. Il presule invita ad essere uomini e donne eucaristici. Ecco il testo completo del messaggio.
C’è un virus nascosto ma dannoso che circuisce il vissuto quotidiano della Città e può ostacolare la bellezza delle relazioni interpersonali. È quello della pubblica accidia che contrasta la franchezza e la libertà di chiamare le cose con il proprio nome.
Lo verifichiamo quando a un atteggiamento di valutazione responsabile delle diverse proposte culturali, si sostituisce un giudizio a priori di equivalenza di ogni progetto o comportamento. Il che spinge coloro che hanno responsabilità nella Città, a tutti i livelli, a un lavoro stancante per bilanciare le richieste, comprese le più contraddittorie. Ne consegue la pretesa che tutte le opzioni abbiano pari rilevanza per il costume sociale, come se le opinioni fossero esposte, l’una accanto all’altra, quali merci uguali in una bancarella delle scelte o in un supermercato, con la sola differenza che alcune sono più reclamizzate di altre.
L’accidia porta a guardare le diverse opzioni non secondo il posto che hanno saputo guadagnare dentro la cultura, ma come oggetti intercambiabili da scegliersi a piacere secondo criteri di gradimento. Mi riferisco alle scelte antropologiche (pensiamo alla vita, alla sessualità, alla famiglia, all’educazione, al lavoro, alle povertà sociali) che, se affrontate con un qualche discorso di senso e di valori, sono considerate come offesa alla libertà democratica oltre che attacco a diritti individuali di “altri”. Le cose non vengono discusse nel merito, ma liquidate secondo il dogma “del tutto ha lo stesso valore”. Accade che ci si limiti a esigere rispetto per la propria opinione, senza soffermarsi sulle ragioni per cui quel rispetto vada concesso anche alle opinioni degli altri. Delegittimate, così, la possibilità e la serietà del confronto, vengono trascurate le buone e serene relazioni.
Siamo di fronte a un sistema di pensiero che non privilegia né pazienza né consiglio, che confonde la forza e l’autorevolezza con il semplice consenso di massa, che relega la scienza e la dignità umana in settori incapaci di influire sul positivo sociale. Ciò indebolisce il vissuto esistente e introduce di fatto un costume nuovo. Se le posizioni etiche sono equiparate senza alcuna gerarchia, è inevitabile che finisca col prevalere la posizione immediatamente facile, più piacevole al momento e meno impegnativa. In tal modo non è più una società “bella e buona” quella che desideriamo costruire ma una convivenza fiacca, opaca, frammentata; una società, dove alla logica del bene comune si sostituisce l’umore o il risentimento, la brillantezza della battuta e la persuasività dello slogan più che la fatica della riflessione oggettiva che mira a spiegare e convincere.
Eppure, come scriveva Aristotele, il male è destinato a distruggersi da sé perché “le persone disoneste non possono essere concordi se non in piccola parte, e così neppure possono essere amiche, perché aspirano ad avere di più nel campo delle utilità e si sottraggono invece alle fatiche e al servizio; e ciascuno volendo per sé questi vantaggi, sta a controllare il vicino e a ostacolarlo… Quindi si verificano tra loro dissensi, perché l’uno cerca di costringere l’altro e nessuno vuole agire con giustizia”.
In questa crisi di sapienzialità i credenti nella preghiera eucaristica invocano il Signore Gesù, pietra angolare della Città, perché aiuti a mettere le ragioni del consenso al di sopra dell’ansia del consenso, e perché, là dove si è tentati di scoraggiarsi, nasca un soprassalto di speranza, che resista alla disgregazione e/o rassegnazione, ispirando scelte e comportamenti di giustizia evangelica. In ciò, la comunità cristiana si fa discepola dell’Eucaristia per aprirsi ad una cultura di accoglienza e solidarietà che non rinunci alle sue responsabilità.
È significativo, allora, che nel giorno del Corpus Domini, l’Eucaristia attraversi la Città dove abitano e lavorano gli uomini e le donne di oggi. Gesù in noi ascolta, comprende e condivide quello di cui si ha più bisogno. Egli andava per le strade, entrava nelle case, sapeva meravigliare, per tutti aveva una parola, un sorriso, uno sguardo. Al suo passaggio saliva la lode dell’universo a colui che sostiene la storia di ogni uomo e di tutto l’uomo. Ci piacerebbe che la fede incidesse nel quotidiano, che ci guidasse in ogni istante, che fosse colmata la separazione fra fede e vita. Eucaristia e Città: oggi che la Città non è più interamente cristiana possono sembrare due realtà lontane, senza possibilità di comunicazione. Ma la comunicazione non solo è possibile, ma avviene in profondità, segretamente, senza appariscenza. Avviene per le energie eucaristiche sprigionate dalla morte e dalla resurrezione del Signore che l’Eucaristia narra, ma avviene anche se noi cristiani celebriamo con serietà l’Eucaristia, riconoscendo e adorando il Signore, e se dall’Eucaristia ci lasciamo plasmare a immagine di Gesù Cristo, vivendo come lui ha vissuto tra gli uomini. Egli è passato tra gli uomini facendo il bene, ricorda Pietro (cfr. At 10,38), e chi vive dell’Eucaristia e secondo la sua logica dimora nella Città, tra gli uomini, facendo il bene. Il cristianesimo non è opera di persuasione né di ostentazione, ma deve essere vissuto. È a causa dell’intercessione dei cristiani che il mondo va avanti.
Il mio augurio è che i cristiani che dimorano tra gli uomini nelle Città della nostra diocesi siano uomini e donne eucaristici, capaci di intercessione e riparazione eucaristica, e la Città ne trarrà pace e bene. Mi piace concludere con una preghiera di sant’Ambrogio, dove Gesù è considerato vigile timoniere della Città.
«Il Signore ci conceda di navigare, allo spirare di un vento favorevole, sopra una nave veloce; di fermarci in un porto sicuro; di non conoscere da parte degli spiriti maligni tentazioni più gravi di quanto siamo in grado di sostenere; di ignorare i naufragi della fede; di possedere una calma profonda, e, se qualche avvenimento susciti contro di noi i flutti di questo mondo, di avere, vigile al timone per aiutarci, il Signore Gesù, il quale con la sua parola comandi, plachi la tempesta, stenda nuovamente sul mare la bonaccia».
monsignor Vincenzo Pelvi
Arcivescovo metropolita di Foggia
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