Una lectio magistralis di giornalismo. Una pagina che trasuda di quel realismo magico che secondo Massimo Bomtempelli caratterizzava la scrittura di Anna Maria Ortese. Prosa che diventa poesia, esaltando il vero, anzi sublimandolo. Ecco, come vi avevo promesso e anticipato nella lettera meridiana di ieri, la prima parte del reportage di Anna Maria Ortese sul Gargano, Terra dimenticata.
Il Gargano mi ha offerto un tale numero di sorprese, in questi due giorni, che ancora adesso ne serbo l’immagine di un paese stregato. Qui, la bellezza celeste delle cose, ha isolato e perduto gli uomini. In alcuni momenti, sembra non vi sia altro che beatitudine, subito dopo avvertite la presenza di un nero sconforto. Dopo le selvagge impressioni della sera precedente, fra la spiaggia e gli antri domestici di Peschici, e una lunga notte trascorsa nella locanda di Rodi, minacciata da presso dal vento e dal mare, che in quell’incertezza del buio esasperavano la loro potenza, non credetti a me stessa, quando la mattina dopo, aprendo le imposte, vidi davanti alla casa un mare liscio e celeste e grande, che nella luce nuovissima del giorno brillava con la stessa freschezza, faceva sentire la stessa voce favolosa dei mari apparsi a Omero nella sua Iliade. Si aveva l’impressione di essere stati rapiti in sonno dalla morte, e di andare adesso contemplando la terra e le acque della soglia di un’altra vita. Sotto la finestra, certi pescatori, seduti su uno scalino, e fumando, chiacchierano. Ai loro piedi, grovigli di reti molli e intricate come chiome, e cestini anche neri dove guizzava ancora silenzioso e fuggente, il pesce azzurro e rosato. La stagione era finita, sulla spiaggia non si vedeva altro. Andai in cerca del fotografo, e seppi che la sua ardimentosa “topolino” stava poco bene, e in attesa di un meccanismo che l’aiutasse a riprendere le sue forze, decidemmo di dare un’occhiata a Rodi. Facemmo una strada sola, tutte rampe, quella che dalla piazzetta porta al mare, e credo si chiami via Ferrucci. Non c’era molto da dire, il paradiso continuava. Qui, gli uomini erano soltanto pesci o uccelli, nessun passo avevano fatto sulla strada dei beni umani. Io mi domandavo ogni tanto con una specie di vertigine, che cosa doveva essere questo luogo, in primavera meraviglioso, quando sul Gargano si abbatteva l’inverno con le sue pioggie, il fango, i freddi venti. Dove andavano i piccoli ragazzi, che cosa, nei focolai, cucinavano le donne, qual’era, in quei giorni, l’occupazione degli uomini, quale e quanta moneta brillava al lume delle modeste lampade. Mi domandavo anche che cosa questi uomini e queste donne sapessero dell’Italia, in che misura prendessero parte al bene pubblico, all’assistenza, la previdenza, gli aiuti che una nazione dovrebbe dividere fra tutti i suoi figli in modo regolare. Qui, le case se le erano costruite gli uomini, case di due stanze o una, con un focolare rustico e una finestrella non più grande di un quadro. Erano soli come in una terra perduta nel centro dei mari. Lottavano soli, ogni giorno, la notte sull’acqua, il giorno nei campi, per vivere.
Libera Altomare, una vecchietta miseranda, che lavorava la calza in piedi nel sole, si meravigliò moltissimo quando le richiedemmo quanti anni avesse: “Forse sessanta”, disse, “ottanta, cento. Chi sa.” E ci guardava con gli occhietti acuti, dolenti. Da tutt’intorno cominciava ad affacciarsi gente. apparivano busti nelle finestre piccolissime, come mezze figure in una cornice chiara. C’era molta infanzia, seduta per terra, come in tutta Italia, bambini vestiti alla meglio, coi cenci dei grandi, creature la cui esistenza è affidata, come quella dei fiori selvatici, alla bontà del cielo, alla clemenza dei venti, bambini protetti da ben poche cose al mondo, salvi per caso, cresciuti per puro miracolo. Mentre le donne parlavano e ci raccontavano la loro vita e il numero dei figli, con una specie di gentile lamento, vedemmo venire da una rampa bianchissima sul fondo turchino del mare. un fraticello minuto, di poco più di cinque anni.
Levava un piedino dopo l’altro, nell’impaccio della tonaca, difendendosi con una manina lo sguardo. La sua testina brillava al sole, come una pallida arancia, e più pallide erano, quando le scorgemmo le sue guance, le labbra. Era Tonino Fontanarosa, che questo inverno è stato malato e la sua mamma gli ha fatto un saio, per voto, ma ancora non è sanato. Vedendoci, sorrise appena e aggrottò le sopracciglia. I suoi chiari occhi erano tutti arrossati, e a mala pena sopportavano la luce del sole, ma circa questo particolare, nessuno seppe dirci niente, se non “malato… malato…”.
Il fotografo fece scattare molte volte l’obiettivo, e tutti erano molto contenti, ora, sia Libera Altomare, sempre messa da un lato, sia Colajanni Maria, che seduta sulle scale andava pulendo la verdura, sia Russo Concetta, che è molto stimata da tutti perché possiede un paio di occhiali, sia Lina di Lella, ch’è una graziosa ragazza, e altri.
Ho nominato quelli che ricordavo, e desidero che i loro nomi siano scritti, perché ho potuto capire quale straordinaria gioia queste persone provano allorché si sentono citate. Per esse non si tratta di un vanto, è una cosa molto più profonda e importante; improvvisamente, quando il loro nome viene scritto, hanno la sensazione di essere salve, tratte in seno a una società come fanciulli a una madre, esse per cui la vita è scoperta da tutti i lati e potrebbero perire, nessuno a Roma, nessuno in alcuna potente città del mondo, nessuno ne lamenterebbe la perdita.
Con i suoi passi deboli ma precisi, chiuso nella sua tonaca, e con una mano in quella di una sua sorella, nell’altra un libro, Tonino Fontanarossa ci seguì a lungo. Ci fermavamo, e anche lui si fermava. Riprendevamo la strada, e anche lui la riprendeva. Evitava di guardarci, ma quando non si sentiva osservato, i suoi occhietti malati erano fissi su di noi, con una prudente ansietà. Non so che volesse. Ma più volte, in questo viaggio, mi sono accorta di bambini che ci seguivano, non tutti per chiederci le lampadine, molti con la premura pensierosa di chi ha avvertito un rapporto, un richiamo, intuito un bene sconosciuto, e vorrebbe gustarne. Avvertivamo vergogna di non dare loro nulla, nulla; di sorridere e lasciarli continuamente alla loro solitudine. Tonino Fontanarossa, quando risalimmo in macchina, ebbe un attimo di perplessità; poi, col solito gesto sofferente, si coperse gli occhi con una mano, ma tra le due dita ci guardava ancora, con uno spicchio dolce di pupilla, meravigliato e immoto, come si guarda chi ci lascia senza mantenere le sue promesse, che il cuore n’era stranamente intenerito, dolente.
(1. continua)
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