L’apertura e la disponibilità on line di nuovi archivi, assieme ad un rinnovato interesse per la storia locale, stanno permettendo di smontare un po’ alla volta lo stereotipo che vuole che nel Mezzogiorno l’antifascismo fu poca cosa rispetto al Nord.
Pochi sanno che la Capitanata fu teatro, durante il regime fascista, di ben due manifestazioni popolari che videro protagoniste le donne: episodi di questo tipo erano rarissimi, a causa dei rigorosi controlli imposti dalla forze di polizia verso quanti in qualche modo dissentivano dal Governo. In entrambi i casi, a provocare lo sdegno popolare furono le condizioni di fame e di miseria cui la guerra aveva costretto il popolo. È il caso di sottolineare la forza che le donne daune riuscirono ad esprimere in queste occasioni, dando scacco al regime.
Il primo episodio si registrò a Cagnano Varano, il 1° dicembre del 1941, in pieno periodo bellico. Viene puntualmente raccontato dal Questore dell’epoca nel rapporto periodico che questi inviava al Ministero degli Interni.
Il tono del rapporto sembra rivolto nel complesso a ridimensionare la portata dell’evento, quasi a voler attenuare la brutta figura rimediata dagli esponenti locali del fascismo.
In Cagnano Varano il 1° corrente – si legge nel rapporto- , verso le ore 10, erano affluite in Piazza Municipio circa 400 donne e pochissimi uomini. Esse si diedero a gridare chiedendo l’autorizzazione a mulire il grano senza esibire la carta di macinazione.
Le dimostranti appartenevano, in massima parte, a famiglie di piccoli produttori, a ciascuno dei quali, al termine dell’ultimo raccolto ed ai sensi delle disposizioni riflettenti la produzione e la distribuzione, era stato consentito di detenere, per i bisogni familiari o aziendali, la prescritta quantità di grano. Ma esse non avevan curato – come ne avrebbero avuto il dovere – di regolare la macinazione ed il consumo del loro peculio granario, mensilmente, in dodicesimi, così da poter giungere sino al nuovo raccolto. Pertanto era loro rimasta, dal peculio, una quantità di grano che, ripartita per altri otto mesi, era inferiore a quella che mensilmente avevano consumato fino ad allora.
Sopravvenute le disposizioni del Ministero per l’Agricoltura che prescrivono la macinazione del grano, mensilmente, in dodicesimi e previa autorizzazione della carta di macinazione, fu notato dagli interessati il divario al conseguente disagio.
L’autorità attribuisce la penuria di grano in cui le famiglie erano venute a trovarsi a calcoli imprudenti delle donne. C’è invece da ritenere che più che un errore di calcolo, la rabbia fosse determinata dalla quantità di grano comunque insufficiente a sfamare la famiglia.
Fu per questo – prosegue il Questore – che venne inscenata la dimostrazione che ad un dato momento assunse carattere pregiudizievole per l’ordine pubblico, specialmente perché alcune donne, facendo impeto contro il portone, erano riuscite a penetrare nella Casa Comunale; avevano usato violenza contro il Segretario del Comune e avevano asportato bandiere nazionali e ritratti della Maestà del Re Imperatore e del Duce, continuando, in tal modo, la manifestazione che, pur tra ovazioni al Duce, assunse sempre più carattere sediziosi, per le sue finalità.
Nonostante lo stridente contrasto che nel rapporto si coglie tra l’assalto al municipio e le ovazioni al duce, gli animi furono sedati senza dover far ricorso a forme di repressione troppo severo.
Non appena ebbi notizia, per telefono, dell’inizio della dimostrazione – conclude il rapporto – , inviai da qui, immediatamente, un funzionario con agenti di P.S. e Carabinieri. Giunto sul posto, il funzionario, procedette subito al fermo di numerose donne e l’ordine pubblico venne senz’altro ristabilito.
Si procedette, quindi, all’accertamento delle singole responsabilità: emersero elementi per la denunzia all’Autorità Giudiziaria – che è stata già inoltrata – soltanto a carico di quattordici donne e di un uomo. Per gli altri individui fermati si provvide con la diffida a termini dell’art. 164 della Legge di P.S., all’atto in cui vennero rimessi in libertà, dopo espletati gli accertamenti.
La cose non andarono allo stesso modo un anno dopo, a Monteleone di Puglia, in occasione di quella che è stata ritenuta una vera e propria rivolta popolare. L’episodio è stato portato alla luce soltanto da qualche anno, grazie all’iniziativa dell’allora sindaco del comune dei Monte Dauni (che faceva parte, una volta dell’Irpinia), Giovanni Campese, che apprese di quanto era accaduto diversi decenni prima da alcuni appunti lasciato dal Parroco che ne era stato testimone oculare.
Il primo cittadino decise così di contattare l’Istituto Pugliese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea (IPSAIC) diretto da Vito Antonio Lezzi, docente di storia e tenace ricercatore delle memoria nascita dall’antifascismo pugliese.
Le ricerche prontamente avviate da Leuzzi, che studiò le carte processuali, hanno contribuito a riportare alla luce un episodio che, come ebbe a scrivere Marco Brando sul Corriere del Mezzogiorno, “sebbene pochissimi lo sappiano (persino tra gli storici), fa onore alla storia della nostra democrazia.”
A Monteleone di Puglia – si legge nell’introduzione di Leuzzi al suo libro, Donne contro la guerra – la collera popolare esplose nella prima mattinata del 23 agosto del 1942 in conseguenza, come riferiscono alcuni testimoni, della decisione del comandante della stazione dei carabinieri di sequestrare alcune pignatte di granturco ad alcune donne che erano in fila davanti ad un forno del paese.
Subito dopo le donne, che erano aumentate di numero, si recarono dal podestà, proprietario della farmacia, gridando: “vogliamo il pane, vogliamo sfarinare”…
A Monteleone si recò personalmente il Prefetto Dolfin (che in seguito aderì alla Repubblica di Salò, ndr) alla testa di un gran numero di carabinieri… Sottoposero l’intero paese ad un gigantesco rastrellamento, casa per casa, fermando e interrogando centinaia di monteleonesi. Alla fine… le autorità fasciste disposero l’arresto di novantasei persone, compresi molti minori di diciotto anni.
Finirono nelle carceri di Lucera, Bovino, San Severo e d’altre città della Capitanata. Il 3 settembre 1943, malgrado Mussolini fosse già stato destituito e arrestato nel luglio precedente, il Sostituto procuratore generale del Re rinviò a giudizio novantuno imputati e chiese l’arresto di altri quindici cittadini. Il magistrato, che pareva non essersi accorto della fine del fascismo e degli sviluppi della guerra, considerò la protesta contro le restrizioni alimentari «indice della volontà di sopraffare ad ogni costo i poteri della pubblica autorità e di sostituire alla legalità la licenza e l’arbitrio».
Diversamente da quanto era successo un anno prima, a Cagnano Varano, la reazione dei rappresentanti del Governo fu assai più dura, pur essendo ormai caduto il regime fascista. Le donne e gli uomini arrestati rimasero dietro le sbarre per quattordici mesi e furono liberati soltanto con l’arrivo delle truppe alleate.
Ma il loro calvario non era finito. Il processo si svolse dopo la fine della guerra. Vennero assolti tutti, perché nel frattempo era intervenuta la prescrizione dei reati di cui erano imputati. La maggior parte di loro visto che le condizioni di fame e di arretratezza perduravano, scelse la via dell’emigrazione in Canada.
Abbiamo raccontato questa ed altre storie meno note dell’antifascismo pugliese in una bella serata promossa dall’Auser, dallo Spi Cgil e dal Coordinamento Donne dello Spi Cgil.
Storie che dimostrano che c’è ancora tanto da fare per recuperare la memoria collettiva della nostra terra, pietra d’angolo della nostra identità.
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