Ci sono amici che puoi dire di conoscere da sempre, di cui non ricordi come e quando li hai incontrati la prima volta, e che puoi anche non vedere da un pezzo, ma quando li ritrovi e come se li avessi lasciati soltanto ieri.
Geppo Piantanida era tra questi. La nostra frequentazione è durata più di quarant’anni e non saprei dire con esattezza quando è cominciata. Ricordo la passione comune per il teatro, quando si organizzavano nei teatri parrocchiali di periferia spettacoli di varietà alla buona. Calcavamo le tavole di quei palcoscenici come presentatori: lui era bravissimo, stabiliva un feeling speciale con il pubblico che riusciva a catturare con la simpatia innata ispirava ad ogni battuta.
Ricordo una sera, al teatro delle Suore Canossiane vicino al campetto di calcio di San Siro. Per noi fu una sorta di battesimo del fuoco: ad aprire le danze venne Pippo Baudo in persona, così alto e così esuberante, che il piccolo palcoscenico a stento riusciva a contenerlo.
Da allora in poi le nostre strade si sono incrociate molte volte e le passioni comuni si sono rinsaldate, come quella per il giornalismo. Non abbiamo mai lavorato insieme, ma abbiamo militato negli stessi ambienti, come le redazioni televisive.
Spesso ci confondevano l’uno con l’altro, data l’assonanza dei nostri non comunissimi nomi: Geppo lui, Geppe io, e non avete idea quante volte mi sia toccato dover chiarire che sì, facevo il giornalista, ma non ero quello di Telefoggia.
Quando sono stato assessore alla cultura e ai servizi sociali a Troia, la nostra amicizia si rinsaldò e Geppo mi aiutò con la sua consueta affabilità a capire molte cose dell’ambiente troiano, con il quale aveva stabilito solidi rapporti sia professionali (lavorava all’Asl della cittadina del Rosone) che culturali (collaborava con diversi gruppi teatrali locali).
Ho sempre apprezzato di lui il suo aplomb, la capacità di guardare le cose che raccontava dagli schermi di Telefoggia con occhio critico, disincantato, ma mai distaccato: voleva bene profondamente alla città, alla comunità, al territorio, e credo che quel disincanto fosse un antidoto al rischio di frustrazione che è la malattia professionale di quanti fanno i cronisti in questa plaga: dover denunciare sempre gli stessi problemi, non poterne mai raccontare la positiva soluzione.
Addio, Geppo caro, non sai quanto mi mancherà quel tuo sorriso rassicurante. Te ne sei andato senza che potessi salutarlo un’ultima volta. Non sapevo di quel male sottile che ti ha strappato alla vita in poche settimane.
Adesso non ci confonderanno più l’uno con l’altro, ed è come se avessi perso un pezzo di me stesso.
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