Ecco la seconda parte del libro La Capitanata di Michele Vocino, pubblicato dai Fratelli Alinari, editori in Firenze, dettero alle stampe nel 1925, nell’ambito della collezione di monografie L’Italia Monumentale. Come ho già avuto modo di sottolineare nella lettera meridiana in cui ho offerto ad amici e lettori la prima la parte del prezioso testo del fine scrittore originario di Peschici, la pubblicazione di questa collana è contemporanea a quella dell’Italia Artistica, che alla provincia di Foggia dedicò due volumi: Foggia e la Capitanata di Romolo Caggese e Il Gargano di Antonio Beltramelli.
Nonostante il comune fine editoriale – mettere in vetrina le bellezze spesso conosciute di un Paese che solo da qualche decennio aveva ritrovato la sua unità – i tre testi sono dissimili tra di loro. L’approccio di Antonio Beltramelli è quello tipico del reportage, mentre il punto di vista di Romolo Caggese, storico particolarmente attento all’analisi sociologica, è quello del nostos, il racconto del ritorno. Originario di Ascoli Satriano, Caggese torna nella sua terra dopo aver fatto fortuna come storico in importanti università toscane, e la racconta con il rimpianto di chi soffre constatandone la persistenza aretratezza e l’endemica condizione di sottosviluppo.
Ancora diversa è la prospettiva di Michele Vocino, che si ritrova in molti altri suoi scritti. È una prospettiva nuova e particolarmente moderna: la consapevolezza che le bellezze artistiche, storiche, monumentali così mirabilmente raccontate possono essere una risorsa di futuro.
Ecco il testo. Leggetelo con attenzione, perché lo merita. Nei prossimi giorni, la pubblicazione delle fotografie che corredano il volume.
In mezzo alla landa deserta prossima a Manfredonia s’erge, bianca di sole, cinta di silenzio e di mistero, Santa Maria di Siponto, edificio mirabile, ricco di particolari pregevolissimi. Costruito nel IX secolo sopra un più antico tempio che tuttora esiste a guisa di cripta, disegna un dado sormontato al centro da una piccola cupola, seguendo esattamente il piano del tempio sottostante; il quale piano non ha altri riscontri nelle chiese d’Occidente, costituito com’è da tre quadrati inscritti l’un nell’altro e distinti da colonne di granito nella cripta, di marmo nella chiesa alta a sostegno di svelti archi centini. Nella facciata principale s’apre un portale riccamente scolpito,fiancheggiato da due colonne poggianti sul dorso di due leoni e sostenenti, alla lor volta, due animali che addentano la preda e che sorreggono l’archivolto finemente decorato, sporgente a guisa di visiera: ai lati del portale sei semicolonne risaltate sostengono quattro archi a ghiere leggermente lunate, con incorniciatura a palmette simili a quelle intagliate nello squarcio dell’ingresso; tra le colonne due grandi formelle romboidali in alto, quattro più piccole in basso restano inquadrate in cornici incassate, scolpite a disegni geometrici e floreali, motivo che si ripete nei quattro archi ciechi che fiancheggiano il piccolo abside, nell’ultimo dei quali si apre una finestra di ricca sagoma: l’abside è a sua volta decorato da tre archi su pilastri intagliati a scacchiera che in origine doveva essere evidentemente decorata con paste vitree e quadratini di marmi colorati. Devastato e deturpato dalle bande di Guglielmo il Malo nel 1156, dai terremoti del 1223 e del 1255, da inconsulti restauri e da volgari aggiunte, tale monumento resta ciò non pertanto uno dei più notevoli saggi della caratteristica architettura pugliese anteriore alla conquista normanna, che tanta somiglianza ha con le chiese pisane da far pensare – nota il Petrucci — a rapporti diretti tra la Toscana e la Puglia, forse commerciali tra Pisa e Siponto, e che, meglio sviluppata, si riscontra nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Montesantangelo, e nella cattedrale di Troia.
Questa, per la decorazione esterna, massime nella facciata veramente sorprendente, ci offre il più perfetto tipo dello stile proprio della regione. Analoghe formelle, a losanga o ad esagono o circolari, appaiano anche qui nei sott’archi della serie di arcature riportate ed elegantemente decorate, che gira tutt’intorno sormontata, lungo i fianchi della parte superiore della navata centrale e di sopra al tetto a spiovente di quelle laterali, da un secondo piano d’arcature simili, in cui s’aprono finestre di due in due. Le modanature, le cornici, i capitelli dei pilastri sono superbamente scolpiti a figure d’animali fusi con decorazioni floreali o a figure umane dai corpi terminanti in cartocci di foglie, motivi che già annunziano: la Rinascenza, in quest’epoca più rimarchevole dell‘arte decorativa di Puglia che in quella di qualsiasi altra regione d’Italia.
Sopra le arcature inferiori una cornice a forte rilievo,sorretta da modiglioni, continuando quella che sostiene i pioventi delle tettoie laterali, divide la facciata in due parti sovrapposte, di cui quella in basso ha nel centro una magnifica porta tutta decorata di sculture, e quella in alto, sull’asse della porta. sotto un grande arco a pieno centro con l’archivolto interamente scolpito, un meraviglioso rosone formato da colonne romane disposte a raggiera. sorreggenti archi a semicerchio. che s’intersecano formando, così, delle ogive.
Iniziato dal Vescovo Gerardo nel 1093, questo monumento nobilissimo fu quasi tutto costruito per ordine del vescovo normanno Guglielmo Bigot, che ne pagò le fabbriche in parte con le sue entrate personali, in parte con elargizioni del duca Guglielmo di Puglia. Sulla fine dello stesso secolo fu eretta la cattedrale di Foggia, di cui non resta che la metà inferiore della facciata, frammento nel secolo XVIII con molto buon gusto fuso nelle costruzioni moderne; mentre assai malamente veniva sfigurata la cripta, che però ha intatte le colonne, di cui quattro assai interessanti per la somiglianza dei loro capitelli con quelli dell’ambone di Ravello presso Amalfi, tanto da non poter dubitare essere gli uni e gli altri dello stesso artefice, forse del maestro Nicola foggiano.
Tra i dettagli di maggior interesse della cattedrale di Troia son le porte di bronzo, eseguite per incarico del vescovo Bigot dal maestro Oderisi beneventano, — nel 1110 quelle dell’entrata principale, quelle della laterale nel 1127 —, ad intarsio in piatto alla maniera più antica di Costantinopoli. con ornamenti ad altorilievo d’ influenza araba, a draghi e a teste leonine sorreggenti gli anelli. Più interessanti di queste son forse le porte della basilica di San Micheie in Montesantangelo, eseguite nel secolo precedente,
a Costantinopoli, e donate. nel 1076. da Pantaleone III. patrizio amalfitano la cui famiglia altre simili ne aveva offerte alla cattedrale di Amalfi, alla badia di Montecassino, alla basilica romana di San Paolo fuori le Mura, alla Chiesa di San Salvatore in Atrani.
Questo caratteristico santuario garganico, nell’alto medioevo tra i più frequentati d’italia, è costituito da una spelonca scavata nelle viscere del monte, alla quale s’accede. per una scalea sotto un lungo portico ad archi a sesto acuto e a piccole finestre a strombo. fiancheggiata da antichi sepolcri. La statua dell’Arcangelo, in alabastro. è una pregevole opera della Rinascenza, d’ignoto autore, forse del Sansovino. Per i molti saccheggi subiti, in ogni epoca, da questa ricca basilica, non resta più nulla degli’ingenti tesori d’arte e di gioie già posseduti: di veramente importante v’è tuttavia una cattedra episcopale, scolpita in un sol masso di marmo, sorretta da due grandi leoni alati, fittamente decorata a nastri intrecciati di stile romanico fuso col moresco, che per la somiglianza a quelle esistenti nelle chiese di San Nicola di Bari e di San Sabino in Canosa, può essere attribuita all’XI o XII secolo.
Presso al santuario si eleva un elegante campanile duecentesco, riproducente esattamente, nella pianta e nelle dimensioni, le torri ottagonali di Castel del Monte; opera attribuita, per una lapide del 1374, ai maestri locali Giordano e Maraldo, per quanto non manchi chi, per una epigrafe molto più antica, la faccia risalire, come torre di difesa, all’epoca normanna. Non molto lungi emerge, tra le case, un singolare edificio, che il Bertaux definisce il più misterioso monumento dell’Italia Meridionale, e che comunemente è chiamato “tomba di Rotari” per falsa interpretazione di una epigrafe in carattere capitale onciale in esso esistente. E tomba è stata ritenuta da qualcuno dei molti che l’hanno studiato, da qualche altro moschea, o tempio indiano, o campanile: però l’opinione più attendibile, e più seguita, lo considera un battistero.
S’erge a guisa di torre su di una pianta quadrata, che nelle parti superiori va sfaccettandosi in forma ottagonale e termina con una calotta sferica di coronamento: ardito e sapiente. movimento che meglio appare nell’interno, dove la galleria
terrena si modifica in poligono mediante piccole arcate impostate sugli angoli ed incurvate in dentro, risolvendosi poi, mediante curve sempre più accentuate, in un giro di sezione ellittica pronta ad immedesimassi con la calotta terminale.
Sull’architrave della porta è scolpita la cattura di Cristo nell’orto, e al disopra, in un’altra fascia trasversale, la Crocefissione. Nell’interno, sulle arcate a sesto acuto che a rafforzare le pareti son messe rientranti l’una nell’altra e poggianti su mezze colonne e lesine, gira una cornice con mensolette e bassorilievi che ricordano gli ornati di tipo egizio adottati negli edifici arabo-moreschi della Sicilia e nell’Alambra; su di essa corre una teoria di finestre, sopra le quali si snoda una seconda cornice molto più rilevata e mossa della prima, con nel guscio inferiore fiori, foglie e teste scolpite, tra cui emergono tre gruppi ad altorilievo di strana composizione; e ancora più in alto una terza, più schematica, sulla quale s’inizia il giro della cupoletta. Qualunque ne sia stata la destinazione, questo misterioso edificio – scrive il Petrucci — rappresenta il più caratteristico stadio di quella sintesi regionale che, a cominciare dai primi tentativi di Acceptus, il più antico scultore pugliese di cui si sarebbe rinvenuto qualche frammento di ambone a Santa Maria di Siponto. e dalle forme rudimentali di Santo Egidio e di Montesacro, via via per le realizzazioni più progredite di Siponto e di Santa Maria Maggiore, di Pulsano e di San Leonardo, si va di mano in mano determinando e definendo, da un monumento all’altro della bella e famosa montagna dell’Angelo.
Ricche e potenti badie erano quelle di Montesacro, di Pulsano e di San Leonardo, con le altre di Calena e di Ripalta, ma più di tutte ricca e potente era quella delle prossime isole Tremiti, della quale, con gli avanzi del fortilizio, resta la chiesa che serba un bel porta marmoreo, un grazioso soffitto, un interessante pavimento e mosaico, e qualche superstite reliquia dell’antico fasto, qual’ è un sontuoso polittico in legno, con figure scolpite in tutto rilievo in una ricca cornice dorata, magnifico lavoro eseguito, da abile maestro, verso la metà del secolo XV.
Avanzi sperduti d’un passato insigne se ne trovano inoltre qua e là, nelle altre chiese di minore importanza. in Capitanata: ad Ascoli, a Bovino, a Candela, a San Severo, a Lucera: portali, rosoni, pitture. soffitti istoriati, cori scolpiti, reliquiari, fonti battesimali.
A Lucera, nella piccola chiesa di San Francesco. che fu già tempio dei Cavalieri Teutonici, sono di rilevante importanza, oltre la porta ogivale della prima metà del secolo XIV, il soffitto. qualche buon quadro ed il sepolcro marmoreo di Giovannella Falcone, dei baroni di Visceglieto, ora adibito a pergamo.
Di grandissimo interesse storico ed artistico, per altro, è la cattedrale lucerina, magnifico tempio del XIII secolo, di puro stile ogivale, solenne e serena nella facciata e nell’ interno, con un maestoso archivolto a tre punte finemente e leggiadramente intagliato a fiorami che ricordano l’archivolto a pieno centro unico avanzo del palazzo di Federico II in Foggia, tanto da farli attribuire entrambi a quell’illustre famiglia di scultori ed architetti pugliesi di cui fan parte Nicola foggiano, suo padre Bartolomeo e quel Riccardo che, tra il 1269 e il 1270, avrebbe elevato, per Carlo I, un fortilizio, nella prossima località di Pantano.
Notevoli, nella cattedrale di Lucera, son quattordici magnifiche colonne di marmo verde, che forse ornavano la navata della cattedrale più antica mutata dai Saraceni in moschea, sulla quale sembra sia stata costruita l’attuale chiesa; qualche buon quadro di Marco da Siena, di Carlo Maratta, di Lorenzo Giustiniano, di Girolamo Santacroce; qualche bassorilievo; qualche affresco: due crocifissi di dignitosa fattura; un leggiadro battistero quattrocentesco in pietra; un elegante pergamo, tratto esso pure dal sepolcreto cinquecentesco d’una famiglia patrizia lucerina; un bell’altare la cui pietra fu già adibita per mensa di Federico II in Castel Fiorentino e di là portata in Lucera dal frate Giovanni da Stronconio nel i406; una statua in marmo che la tradizione e un’ iscrizione in lettere moderne vorrebbero sia quella di Carlo II d’Angiò, mentre forse non è che il ritratto d’un semplice cavaliere tolto chi sa quando dal suo monumento sepolcrale; e, inoltre, d’un qualche interesse, un dittico in lamine d’argento formante la copertura di un messale, che il Bertaux ritiene un documento assai raro dell’antico oreficeria sulmonese, attribuendolo alla seconda metà del secolo XIV.
E tra i pochi avanzi del ricchissimo tesoro della chiesa vandalicamente saccheggiata, nel 1799, dai Francesi, che nello storico anno di trambusti repubblicani avevano anche involato tutte le gioie d’oro e d’argento del santuario garganico, continuando così le tradizioni patrie in quel santuario già depredato nel 1528 dalle soldatesche di Francesco I di Valois, oscenamente!
Michele Vocino
Views: 0