Non mi aspettavo che ricevesse tanta attenzione dagli amici e lettori del blog, la lettera meridiana di ieri, prima parte del bel saggio di Antonio Ventura che racconta le impressioni dei viaggiatori che giunsero a Foggia (e ne scrissero), tra il Settecento e l’Ottocento. Un interesse assolutamente meritato dall’eccellente lavoro di Ventura – pubblicato nel 1987 dalla rivista della Bibloteca Provinciale di Foggia, La Capitanata – e citato in diversi saggi sul capoluogo dauno, perché per la prima volta metteva ssieme in modo organico e sistematico le impressioni e i racconti di questi reporter ante litteram. Le numerosissime lettura e condivisoni testimonano anche un ritrovato e confortante interesse dell’opinione pubblica cittadina e provinciale sulla storia, il passato, l’identità.
Il saggio offre anche un’interessante chiave di lettura circa la genesi di quel proverbio pugliese – Fuggia da Foggia – che è un brutto marchio per la città. Ecco la seconda parte del saggio del raffinato scrittore foggiano, che nel corso della sua feconda attività pubblicistica ha avuto il merito di promuovere la conoscenza della storia locale, spiegandola e divulgandola in modo assai accattivante. Domani la terza ed ultima parte. A pubblicazione completata, dedicherà una lettera meridiana ai moltissimi commenti. Buona lettura, dunque.
Eppure, in questa realtà tanto poco confortevole e quasi ostile, il commercio fioriva e prosperava; annotava un cronista settecentesco locale, Gerolamo Calvanese: “Foggia cresce di giorno in giorno di abitatori forestieri”, numerosi erano, infatti, coloro che, proprio nel corso del XVIII secolo, raggiungevano la città attratti dalle sue libertà mercantili. La qualifica professionale di questi immigrati, provenienti da numerosi centri del Napoletano, dell’Abruzzo, del Barese, risulta ben precisata nel catasto onciario di metà ‘700 con un dato che deve fare riflettere: pochissimi i braccianti, molti, invece, i mercanti. “Foggia è una gran piazza di commercio”, scriveva, quindi, il Galanti, prendendo atto di questa crescita economica legata all’importanza del mercato agrario locale, basato, esclusivamente, sul commercio agricolo-zootecnico: la fiera, con la vendita di bestiame selezionato e di lana, costituiva un punto di riferimento obbligato per l’intero Regno, mentre, accanto ad essa, i grandi quantitativi di cereali conservati nelle innumerevoli fosse granarie alimentavano un fiorente traffico.
I Foggiani, allora, pur se un po’ sporchi e disordinati erano, forse, imprenditori audaci, abili mercanti e artefici di grandi patrimoni? Sentiamo cosa ne pensavano i viaggiatori contemporanei. Non ne erano affatto convinti né Antoine Laurent Castellan, né Charles Didier, scrittore svizzero, che, ai primi dell’Ottocento, anzi, scrisse ne l’Italie pittoresque, ” ci sono a Foggia enormi depositi di grano; lo si conserva in fosse, come in Marocco, ma il popolo muore di fame sulla pietra che chiude quei depositi!”. E non era il solo a vederla così, perché anche il Castellan, suo contemporaneo, nelle Lettres sur l’Italie, osservò che la maggior parte dei Foggiani non aveva nulla a che spartire con l’enorme ricchezza giacente sotto i loro piedi, il suo controllo, come quello degli ovini che appestavano la città, spettava soltanto a mercanti, allevatori, imprenditori agricoli, residenti, per lo più, in Campania, in Abruzzo, in Terra di Bari, dove, appunto, approfittando dell’assenza di concorrenti locali e delle facilitazioni loro accordate dall’amministrazione municipale, trasferivano e investivano i capitali guadagnati sotto il naso dei Foggiani, costretti, così, a tenersi il fetore ed a rimanere all’asciutto di denari.
Potrebbe sembrare incredibile che la città ed il suo fiorente mercato, con il complice consenso degli amministratori e buona pace degli abitanti, costituisse una fonte di ricchezza quasi esclusivamente per gli speculatori forestieri, eppure questa circostanza viene confermata anche dalle informazioni di natura fiscale fornite su Foggia dal catasto onciario di metà secolo XVIII e dai registri relativi a imposta personale e fondiaria istituite dai Francesci agli inizi dell’Ottocento. Ebbene, nel Capoluogo daunio, su una popolazione residente di oltre 18.000 unità, tra fine ‘700 e primo ‘800, soltanto una diecina di persone, tra cui il marchese Filiasi, Francesco Paolo Celentani, Giuseppe la Rocca, il marchese De Luca, disponendo di proprietà fondiarie ed immobiliari e di un reddito annuo di circa 2.000 ducati, potevano essere considerate ricche; appena un migliaio di individui, invece, percependo entrate annuali comprese tra i 400 ed i 150 ducati, rientravano nella classe di reddito di operai, artigiani, impiegati, commercianti al minuto; la rimanente popolazione, infine, non arrivava, spesso, neppure a guadagnare quei 120 ducati l’anno, ritenuti indispensabili per sopravvivere, ed era da assimilare, quindi, ai salariati agricoli, il cui reddito si aggirava intorno ai 60/70 ducati. Mancava, insomma, il ceto imprenditoriale medio-alto. Nessuna meraviglia, pertanto, se Paul Louis Courier, ufficiale napoleonico e scrittore, dopo essersi aggirato per le strade, annotasse nelle sue Lettere dall’Italia: “il popolo la fa da padrone, a Foggia ancor più che a Napoli. Non si vede che il popolo, non abbiamo potuto scorgere un solo borghese. Dove si trova, in Capitanata, la classe alta? ” alla fine, non senza stupore, capiva che la componente prevalente della società locale erano proprio quei poveracci dall’aria inequivocabilmente campagnola e poco amante della fatica, descritti da Paul Bourget “solennemente avvolti nei loro mantelli, immobili e silenziosi, in piazza, a guardarsi gravemente da un giorno all’altro”. Con la statuaria, sintomatica immobilità degli adulti contrastava, però, lo straordinario dinamismo dei bambini; osservava Juliette Figuier: “essi si muovono continuamente e sono laboriosi; così si affida loro ogni tipo di incarico. Al caffè, al ristorante, non trovate che bambini a servirvi. Si direbbe che, avendo sfruttato le proprie forze durante l’infanzia, questo popolo non può più trovarne in età matura. Non si ha l’idea della miseria, della noncuranza e dell’incuria di questa popolazione indolente”. Affermazioni in buona parte vere; tuttavia, il foggiano, quando non riusciva a fare tacere i morsi della fame con gli espedienti, per cui andava famoso, s’inventava, pure, alcuni lavoretti, descritti dal Manicone come originali manifestazioni di folklore locale. Il più diffuso era la raccolta delle ciammaruchelle: per tre o quattro mesi all’anno, da giugno a settembre inoltrato, intere famiglie la praticavano nei campi intorno alla città, garantendosi, cosi una minestra, ma anche un po’ di denaro da parte degli immancabili mercanti forestieri che facevano incetta di quelle lumache per un prezzo bassissimo e si arricchivano, poi, esportandole, come ebbe modo di fare notare, sul finire del secolo scorso, Raffaele Vittorio Cassitto, attento economista, in uno studio -denuncia, volutamente ignorato dalle autorità amministrative ed economiche locali.
Il Manicone, comunque, descrisse pure altri mestieri, che, per la loro stranezza, possono costituire una singolare testimonianza della diffusa indigenza foggiana dell’epoca: la caccia alle infestanti cavallette, ad esempio, piuttosto evitata, però, perché da effettuare con la faticosa e pesante “spinata” e, più largamente praticata, invece, in quanto meno gravosa, la caccia al sorcio campagnolo, animale dannoso alle colture e talmente diffuso nei campi intorno a Foggia – nel 1790 se ne catturarono trecentomila in una sola masseria -, da fare nascere degli autentici professionisti, i “sorciari”, che, alla pari dei “lupari” abruzzesi, si facevano pagare dai massari i trofei delle proprie vittime. In un regime economico tanto precario, l’alimentazione della popolazione non poteva che essere molto povera; scriveva Leon Palustre de Montifaut con un pizzico di ironia: “la carne, nella maggior parte dei casi, è sconosciuta, ma il fortunato foggiano deve solo allungare la mano per trovare tutto quello che occorre per il suo nutrimento: una lattuga verde, un po’ di finocchio”. E, in realtà, come è testimoniato anche dalla “Statistica” murattiana del 1809 e da quella dello Scelsi del 1865, i Foggiani erano, volenti o nolenti, vegetariani; il loro piatto di più largo consumo consisteva nella minestra di erbe e legumi, in genere fave; ma la vera base del vitto quotidiano si riduceva, spesso, al solo pane, la così detta acqua e sale, oppure, il pane cotto con l’olio, raramente d’oliva, più di frequente di lentisco e, talvolta, unito alle erbe selvagge ed a qualche cipolla. Purtroppo, però, proprio Foggia, mercato frumentario per eccellenza, aveva un pane poco nutriente e di sapore tanto disgustoso, da indurre quanti, come Ceva Grimaldi e Didier, ebbero occasione di assaggiarlo a non ripetere l’esperienza, perché, scrissero, era “azzimo e mal cotto, mefitico e fetente”. Due, a detta del Manicone, anche lui tra le vittime, le ragioni di questi suoi difetti: la disonestà di amministratori, commercianti di granaglie e fornai che, complici nel realizzare illeciti guadagni, destinavano alla panificazione pubblica il così detto frumento di “solìma”, un prodotto di scarto, ammuffito e precocemente fermentato a causa della lunga permanenza nelle fosse interrate; e, in secondo luogo, l’inadeguatezza dei forni, che, alimentati, per la scarsezza di legna nel Tavoliere, con il letame di stalla, lasciavano le pagnotte poco cotte e umide, ma anche impregnate dell’orribile puzzo emanato da quel singolare combustibile, mentre bruciava. L’unica nota di fantasia gastronomica, informa il solito Manicone, in una dieta alimentare tanto povera e monotona, veniva ai Foggiani dal “rusco” o “pungitopo” e dall’”orno” o “frassino”, due piante abbastanza comuni nella campagna dell’epoca: dalla prima, torrefacendone e manipolandone opportunamente le bacche, essi si fabbricavano, in regime di assoluta autarchia, una bevanda simile al caffè; dalla seconda, lavorando la manna, si procuravano una sorta di economico dolcificante. Né l’una né l’altro, però, incontrarono tra gli incuriositi cronisti dell’epoca, volontari disposti ad assaggiarli per tramandarne la descrizione dell’aroma e del sapore, cosicché è oltremodo legittimo il dubbio che fossero in grado di soddisfare soltanto palati non troppo schizzinosi; come pure risulta chiaro dalle testimonianze sinora riferite che per buona parte dei Foggiani, secondo quanto avevano ben visto Leon Palustre de Montifaut e Charles Didier e denunciato Matilde Perrino, la sopravvivenza era consentita proprio dalla raccolta, nell’incolto intorno al centro abitato, di tutte quelle erbe spontanee che garantivano una integrazione della dieta non meno importante di quella assicurata dalla spigolatura e, talvolta, dal misero allevamento di autoconsumo costituito da qualche gallina.
(2. continua)
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