Sto leggendo Foggia e la Capitanata di Romolo Caggese, e vi confesso di dissentire almeno in parte col giudizio piuttosto critico pronunciato su questa opera da Francesco Giuliani, docente, scrittore e critico di San Severo, che ha rimproverato allo storiografo nato ad Ascoli Satriano di aver posto “l’accento soprattutto sulle ingiustizie sociali e sulla degradazione dell’ambiente geografico ed umano di Foggia e del Tavoliere”, rappresentando “il tutto con toni duri ed aspri, risentiti, che non rendono giustizia alla materia trattata. Ne viene fuori un libro poco equilibrato, degno di un analista che applica rigidamente le sue ferree categorie ideologiche, di stampo positivistico, e politiche.”
Forse è così, ma nondimeno, leggere Caggese a più di un secolo dalla pubblicazione del libro (1910) offre non pochi spunti di riflessione circa l’attualità delle considerazioni dello scrittore ascolano.
Sto leggendo il libro non linearmente, ma, come dire, in ordine sparso, privilegiando le località cui sono maggiormente affezionato.
Sarà per questo che il mio viaggio da lettore è cominciato da Troia, cittadina con cui ho un rapporto antico e profondo, di cui un giorno dovrà parlavi compiutamente.
Le parole di Caggese mi hanno colpito per la loro profonda attualità, per l’animo che le pervade, per quell’amara consapevolezza che si coglie spesso nelle sue parole, circa le immense potenzialità non sfruttate, e l’amaro presente che mal si addice ai fasti del passato.
A Troia sono stato assessore, nella giunta comunale guidata da Domenico La Bella (ed anche di questo dovrà raccontarvi, lo prometto, ché è stata una esperienza importante, direi perfino luminosa). Di quella esperienza conservo un ricordo bellissimo, ed a tratti curioso, che ho in qualche modo ritrovato nel racconto di Caggese.
Ero il solo assessore esterno, per giunta foggiano. Venendo dal capoluogo e non risiedendo nella cittadina del Rosone, organizzavo la mia giornata in modo da concentrare gli impegni troiani nella mattinata e nel pomeriggio, evitando se possibile di dover tornare la sera a Troia, naturalmente quando non c’erano impegni istituzionali.
La giunta si riuniva nella tarda mattinata, e all’ora di pranzo sorgeva spesso il dilemma se continuare fino ad esaurire gli argomenti all’ordine del giorno, o interrompere per proseguire la seduta nel primo pomeriggio. Per i troiani mangiare all’ora a ciò deputata è qualcosa di sacro. Alle 13 in punto in piena riunione di giunta giungevano puntuali le telefonate delle mogli dei colleghi assessori che chiedevano se potevano buttare la pasta o no. Io preferivo continuare.
A mezzogiorno non s’incontra più anima viva per le strade, e appena il campanone del Duomo ha dato gli ultimi squilli gravi come un appello a cui non si possa mancare – scrive Caggese -, i buoni paesani, come frati al tocco della campanella, siedono a mensa. Io giro su e giù per la città deserta.
Non ho mai corso il rischio di restare solo nella città deserta, perché un altro sacro dovere percepito dagli amici troiani è l’ospitalità. Se dicevo: “Va bene, continuiamo nel pomeriggio”, non c’era assessore che non mi invitasse a casa sua per il pranzo…
Quanta nostalgia, e quanta amarezza per le tante potenzialità ancora oggi non sfruttate, così come quasi un secolo fa, denunciava Romolo Caggese.
Non voglio leggere questo bel libro da solo, e perciò ho pensato di somministrarlo agli amici e ai lettori di Lettere Meridiane un capitolo alla volta, nello stesso ordine sparso con cui lo leggo io.
Ecco quello che riguarda Troia.
Leggete, riflettete, condividete. Nei prossimi giorni tutte, ma proprie tutte, le splendide fotografie su Troia nella pagina Facebook di Lettere Meridiane. Per non perderle, andate sulla pagina e cliccate su mi piace.
Una carrozza da nolo mi trascina pesantemente su la via di Troia.
Voglio rivedere ancora una volta la vecchia città bizantina disegnantesi mite e scura su i colli dell’Appennino tenue di Capitanata dirimpetto a Lucera, silenziosa e triste come le grandi cose morte, che sembra si domandi sempre con aria di stupore come e perchè mai i tempi nuovi non l’abbiano distrutta ancora e non pensino a distruggerla. Ecco là, verso la strada ferrata, il castello di Ponte Albanito, immenso scheletro abbandonato alla campagna brulla, testimone delle stragi saracene, dell’impero di Federigo e del guelfismo bigotto e feroce dei primi Angioini. I suoi archi richiamano stranamente al pensiero i frammenti delle vecchie mura di Roma e degli acquedotti onde i Romani scavarono le viscere della terra. Come la fortezza di Lucera, essa serve oggi alle mandre ed ai pastori ! La piccola città (non conta che forse settemila abitanti) è tutta genuflessa ai piedi della Cattedrale, solenne e magnifica, in atto di adorazione, come un popolo di servi inginocchiati a piedi del castellano vestito di ferro e d’ imperio, o come un popolo di sentinelle messo là a guardia del tempio, delle sue meravigliose porte di bronzo, del suo pulpito stupendo da cui la parola di Dio doveva parere, un tempo, quasi discendere da una divina cattedra angelica, dei vecchi leoni che sembrano stanchi di reggere le colonne che inquadrano il rosone superbo della facciata, a guardia del Tesoro, custodito nel Duomo, ricchissimo di arredi sacri e di oggetti preziosi, e dell’archivio capitolare che conta oltre cinquecento pergamene di grande valore diplomatico e storico.
Una religiosa pace è nel tempio e nel paese: i carri si trascinano con movimenti quasi ritmici sul selciato; i monelli seduti per terra alla turca giocano tranquillamente a formelle (bottoni) o a nuzzli (noccioli di albicocche) ; e le donne, bellissime, brune, dai grandi occhi pensosi e voluttuosi, intente al lavoro dietro le invetriate delle finestre basse, sembrano attendere a preparare una festa che non viene mai, che non verrà mai. La voce dei canonici si disperde con meste e gravi inflessioni per l’ampie arcate della basilica, eco di tempi passati e di fede morta fra lo strepito della civiltà contemporanea: e qualcosa di greco e d’orientale è diffuso in quelle voci che cadono su i cuori dei credenti accovacciati negli angoli delle navate come dolce stillicidio su i campi arsi dal sole.
La storia della città è la storia del suo Duomo e del suo Episcopio. La fondò il Catapano bizantino Basilio Bubagano nel 1019, nei pressi di Aecae distrutta nel 663 dall’imperatore Costante, per opporla alle frequenti incursioni dei Longobardi di Benevento. Fu quasi distrutta, nel 1140, da Ruggero Normanno, e nel 1230 Federigo II la rase quasi completamente al suolo.
Poi seguì, come tutte le città pugliesi, le sorti del Reame di Napoli, dagli Angioini alla proclamazione del Regno d’Italia. La sua sede vescovile è antichissima e fra le più illustri del Mezzogiorno : il suo vescovo era barone di tre feudi — San Lorenzo in Campagna, San Nicola e Monte Calvello — ed attualmente è decorato del pallio arcivescovile ed usa dei flabelli pontifici nelle sacre processioni.
Fu appunto un vescovo, Gerardo da Piacenza, che gettò le fondamenta del Duomo nel 1095, e un altro vescovo, Guglielmo, che ne portò a compimento la costruzione fra il 1107 e il 1119. Esso si erge magnifico e scuro nella breve piazza, severo come un castello nella parte inferiore della facciata, elegante e fine nella parte superiore. Le porte di bronzo che portano incise le due date 1119 e 1127, enormi, massiccie, brune, ne accrescono la solennità e la venustà. E il ricordo delle pietre ruinate del castello di Lucera che, nei restauri posteriori al seicento, furono adoperate con barbara disinvoltura solca d’improvvisa luce musulmana il dolce corso dei pensieri cristiani che si svolge lento nell’anima. I mostri e le tozze dimezzate figure umane che sbucano d’ogni parte dal cornicione stupendo, di mezzo a viluppi di fogliami rigogliosi, hanno perduto l’originario carattere profano, quasi fossero un immenso serto di creature viventi, dalle mille forme e dalle mille espressioni, destinato a cantare nei secoli la gloria del Signore.
Chi sia stato l’artefice audace non si sa ; ma è certo che i tempi più diversi vi hanno stampato su la propria impronta. Dal suolo al cornicione, di faccia e di fianco, esso è, infatti, opera del secolo decimosecondo appena agli inizi, mentre tutta la sezione superiore della facciata, compreso il rosone meraviglioso, che è tutto in fine ricamo, dev’essere attribuita al secolo decimoterzo. Il campanile non risale che al 1691, anno in cui il vescovo Antonio di Sangro pose mano ad importanti restauri.
Nè sappiamo se fosse italiano o greco, settentrionale o meridionale l’architetto che innalzò le cupole ardite su le ampie navate; ma non è forse da escludere completamente l’ipotesi che esso sia stato educato all’arte pisana che di templi simili a quello di Troia è ricca e insigne in Toscana, in Corsica e in Sardegna, là dove giunse il dominio della Repubblica. Certo è però che la mole troiana servì di modello ad una grande quantità di chiese pugliesi, che ne riproducono i dettagli, talvolta con mirabile esattezza, restando sempre insuperato prototipo, e degno in tutto del Duomo pisano, da cui sarebbe derivata quando Pisa veleggiava franca tutto il Mediterraneo e si apprestava a ridurre in servitù la Repubblica amalfitana. La stessa chiesa di S. Basilio, piccola, modesta, dimenticata fra gli abituri, che la tradizione ritiene più antica del Duomo, è molto probabilmente modellata su di esso: il rosone, il portale, l’interno ne richiamano lo stile, quantunque con maggiore semplicità di mezzi ed eleganza minore.
E di essere modello è singolarmente degnissimo. La sua porta centrale in bronzo è lavoro d’impareggiabile finezza, specialmente là dove riprende il glorioso stile di tutta quanta la mole e svolge il concetto informatore dell’ornato bizantineggiante, ricavato da mostri o perseguito su complicato svolazzo di linee gravi e simmetriche a grossi rilievi, rotte da fogliami avviluppati e da fantastici nodi. Qualche cappello cardinalizio o stemma vescovile in rilievo la deturpa; ma i segni dei tempi non sono, per questo, meno caratteristici. All’intorno esso si slarga solenne e semplice, anche dopo i restauri recenti ; ed a sinistra dell’altar maggiore ecco il pulpito che poggia su quattro colonnine dai capitelli esuberanti di foglie marmoree, tra cui occhieggia un viso umano tra sorridente e pensieroso, ed ecco sul lato sinistro del pulpito, su una breve colonnina, l’aquila imperiale che ha le sembianze e la fattura di un leone alato: un pulpito stupendo che ricorda quello, più insigne, di Siena, del quale, anzi, conserva quasi l’ossatura.
Nè meno insigne è il “Tesoro” del tempio, che i Troiani credono a dirittura favolosamente prezioso. Una custodia in argento massiccio, è essa stessa un piccolo tempio ; un ottagono terminante a cupola, chiuso agli angoli da colonne massiccie terminate da capitelli copiati quasi da quelli della chiesa; e poi una sfera e pissidi e calici e reliquiari di tutte le età, di tutti gli stili e di tutto le dimensioni, alcuni di grande valore artistico.
Nel 1860 il prelato di quella diocesi ricchissima, Tommaso Passero, con nobile pensiero, lo restaurò tutto a sue spese, profondendo circa trecentomila lire con generosità signorile. Ma in tempi più vicini, ahimè!, un portale che fu della fabbrica del Duomo servì all’ufficio delle Poste e Telegrafi. Fu sede di varii concilii nel medio evo e diversi papi vi si recarono appositamente: Urbano li nel marzo 1093; Pasquale II nel 1114 e nel 1116; Callisto II nell’ottobre del 1120. E fu patria di uomini insigni nella storia della Chiesa, come il cardinale Girolamo Seripando, legato pontificio e preside al Concilio di Trento, e il francescano Antonio Lombardi, missionario per papa Eugenio IV in Persia, in Assiria, in Etiopia e in Tartaria. Vi ebbero anche i natali due personaggi romanzeschi del cinquecento, Riccardo Fiamma che aprì le porte di Tunisi a Carlo V nel 1535, ed Ettore di Pazzis o Miale da Troia, che fu probabilmente uno dei tredici eroi della disfida di Barletta.
A mezzogiorno non s’incontra più anima viva per le strade, e appena il campanone del Duomo ha dato gli ultimi squilli gravi come un appello a cui non si possa mancare, i buoni paesani, come frati al tocco della campanella, siedono a mensa. Io giro su e giù per la città deserta, rincorrendo lungo le arcate esterne della basilica le ombre in paludamento di vescovi e di catapani, di frati e di cardinali, e m’imbatto in un piccolo edificio, basso, umile : le scuole comunali ! Ah ! ecco il segno della razza e del suo valore storico! Qualche povero maestro, pensai dolorosamente, pagato appena quanto un ragazzo di bottega, ridirà tutti i giorni, a quattro marmocchi svogliati, la solita monotona canzone dell’abbici, volando col pensiero e col desiderio al campicello di frumento o al pezzo di vigna che, solo, può assicurargli una vita meno scelleratamente misera. Un giorno, poi, quei quattro ragazzi svogliati si faranno preti o frati o, se mai, farmacisti. E gli altri? Oh, gli altri!….
Romolo Caggese
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